Noi e la Francomània

Written by Massimo Nava Saturday, 01 November 2003 02:00 Print

Può essere che Jacques Schröder e Gerhard Chirac siano soltanto un gioco di parole, o meglio di cognomi, caro a un giornalismo franco-tedesco che enfatizza e regala alla storia ciò che è ancora cronaca, appunto l’episodio in cui il cancelliere tedesco si è fatto rappresentare al Consiglio europeo dal presidente francese. Ma qualunque misura e significato si vogliano dare al consolidamento dell’«asse» franco-tedesco e al processo d’integrazione sociopolitica dei due paesi (si gioca anche con le immagini di Francomània o Germofrancia), sono decisivi, anche se non sempre evidenti, i termini della partita che si sta aprendo in Europa e le modalità di molti paesi, Italia compresa, di rapportarsi a una situazione nuova, con contorni incerti, non necessariamente irreversibile, ma con la quale è vitale fare i conti.

 

Può essere che Jacques Schröder e Gerhard Chirac siano soltanto un gioco di parole, o meglio di cognomi, caro a un giornalismo franco-tedesco che enfatizza e regala alla storia ciò che è ancora cronaca, appunto l’episodio in cui il cancelliere tedesco si è fatto rappresentare al Consiglio europeo dal presidente francese. Ma qualunque misura e significato si vogliano dare al consolidamento dell’«asse» franco-tedesco e al processo d’integrazione sociopolitica dei due paesi (si gioca anche con le immagini di Francomània o Germofrancia), sono decisivi, anche se non sempre evidenti, i termini della partita che si sta aprendo in Europa e le modalità di molti paesi, Italia compresa, di rapportarsi a una situazione nuova, con contorni incerti, non necessariamente irreversibile, ma con la quale è vitale fare i conti.

Dell’importanza e del ruolo del «motore» franco-tedesco si discute praticamente dal giorno in cui è nata l’Europa, con un passaggio ricorrente nelle analisi e negli stati d’animo dei vicini europei: il «motore» spaventa e urta sensibilità diverse quando si rimette in moto, ma viene sollecitato ad andare su di giri quando sembra in panne. Nessuno, forse nemmeno i diretti interessati, vuole un’Europa franco-tedesca, ma qualsiasi Europa non può fare a meno di una forte intesa fra Parigi e Berlino. Pena la paralisi.

Fino a ieri, le considerazioni erano circoscritte a pur importanti questioni economiche, al funzionamento delle istituzioni e delle norme e al peso specifico dei due paesi nella definizione delle nuove regole: si pensi alla Costituzione e al trattato di Nizza, occasione peraltro dell’ultimo vero screzio fra Parigi e Berlino.

Anche oggi si tende a ridurre le intese a un matrimonio d’interessi fra i due «grandi malati». Berlino e Parigi, secondo alcuni ambienti, si scambierebbero le stampelle per ragioni interne, essenzialmente economiche. In due, e per di più con il peso specifico maggiore, si hanno più possibilità di farsi perdonare gli sforamenti dei parametri di Maastricht o di pretendere la revisione del Patto di stabilità. I due paesi, primo partner commerciale l’uno dell’altro, insieme possono stabilire il calendario delle riforme interne con un occhio a opinioni pubbliche che si condizionano a vicenda, e far pesare le loro ragioni in delicate questioni europee. È sottinteso che l’intesa guarda avanti, quando il peso delle alleanze sarà ancora più determinante in un’Europa allargata. L’irritazione comprensibile dei paesi piccoli quando vengono messi a tacere (lo ha fatto Chirac), le gelosie dei paesi grandi quando vengono esclusi dal dialogo fra Parigi e Berlino e le reazioni dei paesi medi (Spagna e Polonia in testa) quando si mette a punto il sistema di rappresentanza e decisione della nuova Europa allargata sono elementi noti.

La «Francomània» intanto va avanti, soprattutto sul terreno, meno visibile ma sostanziale, dei comportamenti personali, delle strette di mano nella società civile, degli accordi istituzionali anche a livello locale, delle infrastrutture, dei trasporti (con scelte prioritarie rispetto alla Torino-Lione) e persino dei libri di testo scolastici che proporranno una lettura comune della storia. La Francia si è decisa a spostare a Strasburgo la prestigiosa scuola d’amministrazione, l’ENA, e a preparare qui, vicino al confine tedesco, i propri quadri europei. Si discute, in una regione ormai senza confini e barriere come l’Alsazia, delle strutture amministrative di un futuro European district a cavallo delle vecchie frontiere.

Prospettive e autenticità dell’«unione di fatto», come è stata definita da Le Monde, possono più o meno convincere, ma alcuni elementi dovrebbero far riflettere sul fatto che non si tratta soltanto di ambizione o visioni notturne. C’è la forza stessa delle immagini di oggi, come ieri quella di Mitterrand e Kohl, mano nella mano. C’è il peso di posizioni comuni, sulla scena internazionale, sul modello di welfare per una società europea, sul processo di riforme strutturali, al di là delle differenze di sistema statuale (centralista quello francese, federalista quello tedesco) e di maggioranze politiche, il centrodestra in Francia e il centrosinistra in Germania.

C’è, per contrasto, la pesantezza di critiche e sospetti dall’esterno, che arrivano in modo ancora più veemente da ambienti angloamericani, tendenti a dipingere sempre e comunque la Francia come il deposito di ridicole nostalgie da grandeur e la Germania come un nano politico che per opportunismo si è incamminato sulla strada sbagliata dell’«antiamericanismo». Concetto, quest’ultimo, che molti confondono con la critica, così come le riserve sulla politica di Ariel Sharon vengono considerate manifestazioni di antisemitismo. Di conseguenza, la Francia per l’oggi e la Germania per il passato, vengono considerati «paesi a rischio», trascurando il fatto che in questi paesi vivono le più grandi comunità musulmane d’Europa, transitano le più forti correnti migratorie e, per quanto riguarda la Francia, la più importante comunità ebraica dopo quella americana.

Processi e accuse che fanno capire come oggi sia in gioco qualche cosa di più decisivo e straordinario della «Francomània» amministrativa. Qualche cosa che sembra oltrepassare la stessa, vitale, questione dell’architettura europea. Anzi, la stessa architettura europea ne è in fondo condizionata, senza che questo «qualche cosa» sia sufficientemente esplorato. Sono in gioco la direzione strategica dell’Europa, il suo ruolo e peso sulla scena internazionale, per certi aspetti anche il suo sistema di valori e alleanze, o piuttosto il modo di concepirle e di viverle, pur nel consolidamento delle scelte di campo storiche, che sono i valori occidentali, l’amicizia con gli Stati Uniti, l’alleanza atlantica.

Ci sono pochi dubbi che, soprattutto a Parigi e a Berlino, la guerra in Iraq abbia toccato sensibilità diverse e suscitato reazioni diverse da altre capitali europee, o meglio da altri governi europei, posto che la maggioranza dell’opinione pubblica europea, e quella italiana soprattutto, fosse contraria al conflitto. Si potrebbe aggiungere che Parigi e Berlino abbiano più di altri applicato le regole della democrazia, rispettando l’opinione pubblica e le maggioranze popolari. E ci sono pochi dubbi sul fatto che la grande solidarietà nei confronti degli Stati Uniti dopo l’11 settembre oggi sia accompagnata da forti riserve sulle scelte americane degli ultimi mesi. Riserve che aumentano alla luce del tragico dopoguerra in Iraq, di una situazione in Medio Oriente che appare senza via d’uscita e comunque peggiorata, dell’ondata di terrorismo che ha colpito i paesi più in sintonia con Washington e, in misura maggiore o minore, tutti quelli direttamente impegnati in Iraq.

È toccato anche a noi subire l’orrore di Nassiriya, ma va detto che la memoria dei nostri caduti verrebbe offesa se, oltre all’omaggio commosso di un paese unito e solidale, si continuasse a raccontare che i nostri soldati erano in Iraq in missione di pace. Il nostro contingente è stato inviato prima della risoluzione dell’ONU, secondo la scelta precisa e consapevole del governo Berlusconi di sostenere l’alleato americano. Scelta discutibile, non condivisa dall’opposizione, ma comunque una scelta, compiuta con motivazioni non diverse da quelle di Madrid, Varsavia, Lisbona e certamente diverse da quelle di Parigi e Berlino che appunto hanno deciso di non inviare soldati. Nemmeno dopo la risoluzione dell’ONU. Scelta, sia detto per inciso, che andrebbe ripensata, o anche legittimamente difesa, provando però in ogni caso a uscire dalla miopia del dibattito interno, in cui a volte può sembrare «di destra» il restare in Iraq e «di sinistra» andarsene. Se è evidente, oggi, l’assurdità anche morale di un ritiro, meno evidente è la capacità di misurare le scelte future in sintonia con le capitali europee e alla luce delle considerazioni che, avvicinandosi la sfida elettorale, si stanno facendo da tempo a Washington sul modo di proseguire l’impegno militare in Iraq: per questo, è sufficiente leggere con attenzione i giornali americani, generosi anche nel pubblicare dossier della CIA e rapporti militari sulla situazione sul campo.

La guerra in Iraq e il suo strascico non possono essere isolati da un quadro di relazioni internazionali che continua per forza di cose a riferirsi all’11 settembre e, per quanto riguarda l’Europa, anche alla crisi nei Balcani, se ha un senso considerare i conflitti in Bosnia e in Kosovo non come le guerre dell’ultimo secolo, ma come le prime del terzo millennio. A ben vedere, è sull’altra sponda dell’Adriatico che si sono rimessi in circolo i virus dei massacri etnici e religiosi, che si è avviata la spirale del terrorismo e si è cominciato a riproporsi, dopo secoli, il problema del rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. Come ha notato Paolo Rumiz, su «la Repubblica», si può anche giocare con i numeri : l’11/9, l’attentato a New York, il 9/11 la caduta del Muro di Berlino, il 9/11 il bombardamento del ponte di Mostar, che aveva collegato ciò che la storia aveva tenuto diviso.

Ciò che va sotto il nome di «scontro di civiltà», con tutte le implicazioni che qui sarebbe troppo lungo analizzare, percorre in controluce il dibattito europeo, al di là delle posizioni di facciata, a volte unitarie, e oltre concezioni ideali riaffermate nei documenti ufficiali. È difficile sostenere che sia univoca nelle diverse capitali europee l’idea dell’Europa, dei valori da difendere e delle scelte strategiche da compiere, rispetto alle questioni che lo «scontro» ha aperto, rispetto alla strada per affermare un mondo multipolare.

La guerra in Iraq e il rapporto con gli Stati Uniti sono la cornice e il soggetto principale di un quadro in cui si affacciano altri paesaggi e protagonisti altrettanto fondamentali per il futuro del vecchio continente. Basta scorrere, fra cronaca e storia, le vicende degli ultimi mesi per rivedere tutti insieme questi paesaggi, spesso mescolati, come in un quadro post-moderno, in cui predominano la confusione, il «non detto», l’ideologico che si fa fatto, l’irrazionale che diventa politico: l’immigrazione, la laicità, le radici cristiane, lo sviluppo sostenibile, il nuovo welfare, la difesa comune, la politica estera comune, lo sguardo a Mosca, il ruolo da svolgere nel conflitto mediorientale, l’atteggiamento verso Israele, il presunto risorgente antisemitismo corroborato da controversi sondaggi e denunciato oltre misura da nuove correnti di pensiero unico.

A questo proposito, fra gli elementi di riflessione, non dovrebbe sfuggire il mutamento di pelle dei movimenti populisti e xenofobi e dei tradizionali partiti di estrema destra. Dai loro cromosomi storici sembra scomparso l’antisemitismo, sostituito dal monopolio dell’islamofobia. D’altra parte, un malinteso solidarismo pro-palestinese, diffuso nell’estrema sinistra, tende a saldarsi con il disagio delle periferie di recente immigrazione maghrebina e musulmana.1 È persino paradossale che, mentre l’Europa scrive la propria Costituzione dedicando ampi capitoli al senso dei valori comuni di civiltà e alle sfide del proprio umanesimo, questi valori e queste sfide siano costrette a misurarsi con un presente confuso che scompagina i valori stessi, il modo di viverli, le scelte compiute e quelle da compiere, la problematica del consenso, le logiche e i comportamenti elettorali.

Il caso e la storia hanno voluto che questa fase così complessa coincidesse in buona parte con il semestre della presidenza italiana e nella quasi totalità con il governo Berlusconi. Se lasciamo da parte i giudizi, i bilanci ormai possibili essendo il semestre agli sgoccioli, il peso delle gaffe berlusconiane, il dissenso o la sintonia del nostro governo rispetto alle altre capitali europee, sembra difficile negare che la politica estera italiana sia sensibilmente cambiata e che la politica interna abbia in una qualche misura condizionato la nostra visione storica dell’Europa.

Per converso, non dovrebbe sembrare accademica la considerazione che se il centrosinistra fosse stato al governo in questi mesi la posizione dell’Italia sulla guerra sarebbe stata molto più vicina a Parigi e a Berlino che non a Madrid e Londra. Ma, come già detto, la guerra e il rapporto con gli Stati Uniti sono «soltanto» la cornice e il soggetto principale dentro un quadro in cui anche l’Italia è cambiata. È cambiata la nostra attenzione verso il mondo arabo. Si è modificata una politica ormai ventennale di sottili equilibri sulla scena mediorientale. È cambiato il nostro rapporto con Israele, se il primo ministro Ariel Sharon proclama ai quattro venti che l’Italia, fra i paesi europei, è il miglior amico e alleato di Gerusalemme, tanto da poter inviare in visita ufficiale il vice premier Gianfranco Fini. Scelte legittime, perché fatte da un governo in carica, purché se ne sia consapevoli, purché si dimostri che questo è oggi il nostro interesse nazionale, come italiani e come europei.

Si tratta quindi di capire come sia cambiato questo rapporto, dal momento che l’Italia e gli italiani non hanno mai cessato di rafforzare sentimenti di amicizia nei confronti d’Israele e della comunità ebraica sul nostro territorio. E forse è giusto chiedersi se la maggiore sintonia non sia piuttosto, anche questa, un portato della quasi entusiastica «leale fedeltà» a Washington e dell’ondata di sospetti e critiche che in questi mesi si sono abbattute su Parigi e Berlino.

È cambiato, rispetto alla posizione europea, quantomeno nelle pubbliche affermazioni di amicizia senza riserve, il rapporto con la Russia di Putin, così saldo e incondizionato da far balenare una specie di marcia trionfale d’ingresso in Europa e da zittire, come il ronzio di una fastidiosa zanzara, persino le domande dei giornalisti sulla situazione della Cecenia. Un conflitto che, sia detto per inciso, s’innesca nel più ampio scenario del terrorismo islamico e del conflitto di civiltà. Sempre per inciso, il nostro premier ha liquidato la faccenda usando più o meno le stesse parole con cui Milosevic descriveva la situazione in Kosovo.

Ed è cambiato anche il modo con cui gli altri ci guardano. Ha cominciato il segretario di Stato Donald Rumsfeld a inserire l’Italia nel gruppo dei paesi della «giovane Europa», contrapposta alla «vecchia Europa», in sintesi, all’Europa della Francia e della Germania, che nella visione americana sarebbero società arcaiche, non dinamiche, esposte a vecchi fantasmi ideologici, per di più ingrate dopo lo sbarco in Normandia e il piano Marshall. Se guardiamo la compagnia dell’Europa «giovane», ci troviamo alcuni dei paesi oggi impegnati in Iraq, dalla Spagna alla Polonia, quest’ultimo con il ruolo decisivo di responsabile d’area, con le proprie truppe scelte.

Il caso polacco merita qualche considerazione anche in riferimento ai paesi della cosiddetta «nuova» Europa allargata all’est post-comunista. Si è detto che un atteggiamento di maggiore sintonia con Washington e di diffidenza verso Parigi e soprattutto Berlino è anche un retaggio del passato, che a volte proprio Parigi e Berlino hanno contribuito a rafforzare. Va anche detto però che alcune posizioni assunte, ad esempio sulla guerra in Iraq e sulle iniziative di difesa comune europea, sembrano dividere più che rafforzare la coesione dell’Europa stessa. Si può ricordare, a questo proposito, il complesso capitolo dei contratti in materia di commesse militari, il ruolo svolto da lobbies americane legate al Pentagono, la partecipazione di alcuni paesi europei, compreso il nostro, a consorzi industriali dai quali Parigi e Berlino sono esclusi.

Naturalmente, con la tecnica della bottiglia mezza vuota o mezza piena, si può continuare a credere che i valori e le posizioni che uniscono siano più forti e decise delle cose che al momento dividono. Ma non si può negare che la divisione esista e che fra queste due visioni diverse, l’alleato americano abbia comunicato le preferenze. Così come si può ritenere che le ambizioni francesi rientrino, prima o poi, nella categoria degli opportunismi nazionali e che i sogni tedeschi possano ridursi a tatticismi del cancelliere Schröder per superare le difficoltà economiche e mantenere il fragile consenso interno. Ancora, con una buona dose d’ottimismo, si può immaginare che le ferite della guerra in Iraq potranno presto essere rimarginate da una svolta, strategica e ideale, a Washington o messe da parte per affrontare la più drammatica delle emergenze, il terrorismo. E naturalmente si può evitare la parola «divisione» e riferirsi a concetti più morbidi, come quello delle due velocità e del cantiere europeo in corso d’opera. Ed è anche possibile che le ragioni della politica e magari i numeri delle prossime elezioni riaffermino una direzione comune, in cui persino la Gran Bretagna possa sentirsi più europea e meno americana.

In ogni caso, una direzione comune non potrà prescindere dagli stati d’animo della società civile e dallo spartito dei valori comuni. Forse è solo questione di ritmo e di accordi, ma oggi la musica che si ascolta a Parigi e Berlino è diversa. Perché non ci si sente meno occidentali e meno atlantici, meno grati e meno leali, se si affermano le diversità e si prova a immaginare un mondo in cui l’odio e il terrorismo non si affrontino soltanto con missili e i carri armati. Esattamente come non si uccidono le zanzare, per quanto terribili e velenose, con il lanciafiamme.  

 

 

Bibliografia

1 Si veda l’intervista a Alain Touraine, in «Il Corriere della Sera», 17 novembre 2003.