Il futuro del Partito democratico

Written by Robert B. Reich Saturday, 01 November 2003 02:00 Print

Cos’è il Partito democratico? In America milioni di cittadini si qualificano come democratici, e centinaia di migliaia partecipano alle convention del partito, a livello nazionale o dei singoli Stati. Alla raccolta di fondi provvede un Comitato democratico nazionale. Non esiste però un vero Partito democratico nazionale. O quanto meno, nulla di comparabile al Partito repubblicano, il quale dispone di enormi masse di denaro, di una rete di think-tank conservatori e di propagandisti addetti al marketing delle idee che ne emergono.

 

Cos’è il Partito democratico? In America milioni di cittadini si qualificano come democratici, e centinaia di migliaia partecipano alle convention del partito, a livello nazionale o dei singoli Stati. Alla raccolta di fondi provvede un Comitato democratico nazionale. Non esiste però un vero Partito democratico nazionale. O quanto meno, nulla di comparabile al Partito repubblicano, il quale dispone di enormi masse di denaro, di una rete di think-tank conservatori e di propagandisti addetti al marketing delle idee che ne emergono. Inoltre, organizza il reclutamento e la formazione dei futuri candidati, e ha una disciplina: decide una linea di partito e vi si attiene. I repubblicani hanno persino i loro oligarchi: tali sono infatti i leader del partito, quelli che nel corso di una riunione, nel 1996, scelsero George W. Bush come candidato repubblicano per il 2000.

Una sembianza di Partito democratico nazionale prende corpo soltanto nel periodo in cui il partito presenta il proprio candidato presidenziale. Ma a una più attenta osservazione si scopre che, di fatto, le cose non avvengono in questo modo; più esattamente, a presentarsi sono alcune decine di aspiranti che si qualificano come democratici, e rendono nota, a due anni e mezzo dalla data delle elezioni, la loro intenzione di entrare il lizza. A quel punto, ciascuno di essi dà inizio a un’interminabile serie di trasferte, dal New Hampshire allo Iowa, per prendere contatti con tutti i gruppi di interesse che contano (avvocati, sindacalisti, insegnanti, l’Associazione americana dei pensionati, quella degli ambientalisti e così via) ai fini della nomination. Si intrattengono con i columnist di Washington e incontrano possibili sottoscrittori a Hollywood, nel Massachussetts e in altre roccaforti della finanza democratica. A qualche mese dalle primarie democratiche, è ancora in gara una mezza dozzina di questi pre-candidati. Giunti a questo punto, i consulenti politici del Partito democratico in servizio a Washington e i suoi esperti in marketing e sondaggi decidono su chi scommettere. E si dà il via alla corsa.

Perciò, la prima cosa di cui i democratici hanno bisogno è un vero e proprio partito: un’organizzazione con una base, capace di produrre idee nuove e di diffonderle. I democratici devono diventare un movimento in grado di rivolgersi a tutti coloro che sono stati tagliati fuori, emarginati dalle grandi corporation e dal governo: gente che oggi lavora più duramente che mai, ma non guadagna affatto più di quanto guadagnava dodici anni fa. E non ha ormai più fiducia nelle istituzioni della società statunitense, anche se continua ad amare l’America con tutto il cuore.

Ma questo movimento non potrà essere costruito senza la convinzione e il coraggio necessari. In passato, i democratici avevano questa convinzione e questo coraggio. La condanna delle dittature e la determinazione nell’affrontare i problemi di politica interna non sono affatto un monopolio dei repubblicani. Per quasi un secolo, a condurre le guerre sono stati i democratici (Wilson, Franklin D. Roosevelt, Truman, Kennedy, Johnson), e il più delle volte quelli che hanno combattuto e sono caduti sui campi di battaglia erano figli di democratici. Per sessant’anni, i democratici hanno gestito efficacemente l’economia, decidendo di incrementare la spesa oltre i livelli di reddito e di tagliare le imposte quando il paese aveva bisogno di questo tipo di politica per evitare la recessione economica, o riducendo il deficit nel momento in cui rischiava di andare fuori controllo, come nel 1993.

Per rincorrere il centro politico non c’è bisogno né di convinzione né di coraggio. Il candidato tipo conduce la sua campagna dal centro. Ma chi aspira a essere un vero leader deve definirlo, questo centro, e non affidarsi ai sondaggi per capire dove sta, dato che non si possono condurre le persone dove già si trovano.

Generalmente, i consulenti dei candidati democratici sostengono che il 40% degli elettori vota per i repubblicani, e un altro 40% per i democratici; perciò gli sforzi dovrebbero concentrarsi sul rimanente 20%, che «oscillerebbe» nell’area centrale. Ma le cose non stanno così. Sono moltissimi gli americani che, pur avendo diritto al voto, il più delle volte non si curano di andare a votare. Il «partito dei non votanti» è maggiore sia del Partito repubblicano che di quello democratico. Peraltro, anche tra i cittadini che vanno alle urne il grado di fedeltà di partito è basso. Alla TV assistono per tre mesi agli spot di propaganda aggressiva degli avversari, e il giorno delle elezioni finiscono per votare il candidato per il quale provano minor disistima. Nelle campagne elettorali del 2002 i repubblicani hanno speso il triplo dei democratici; non c’è quindi da sorprendersi che i candidati repubblicani apparissero un po’ meno spregevoli.

I politici americani di oggi si differenziano soprattutto su un punto: c’è chi ha coraggio e chi non ne ha; chi sa entusiasmare e chi ne è incapace. Tra i primi possiamo citare l’ex senatore democratico del Minnesota Paul Wellstone e il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain: due uomini profondamente convinti delle proprie opinioni e capaci di sostenerle con passione. Non conferiscono troppa importanza ai sondaggi. Amano il proprio paese, e non tengono in gran conto gli americani che, pur disponendo di un grande potere, sono del tutto indifferenti alle sorti dell’America e della grande maggioranza dei suoi cittadini. Sul versante opposto troviamo un nutrito gruppo di politici completamente dipendenti dai sondaggi, che passano la maggior parte del tempo a cercare sostenitori tra individui e gruppi con grosse disponibilità finanziarie.

Infine, i democratici dovrebbero imparare a fare politica con più giovialità e senso dell’umorismo. Gli elettori sono spesso infastiditi dalla loro ansia, dal loro atteggiamento per lo più negativo. Chi può aver voglia di aggregarsi a un funerale? Abbiamo bisogno di una nuova generazione di combattenti gioviali. Il mondo non sta andando alla rovina. In realtà, in maggioranza gli americani oggi stanno meglio che venti, o cinquanta o cent’anni fa, soprattutto grazie alle riforme portate avanti dai democratici. Io non mi sentirei di essere repubblicano, perché i repubblicani hanno in odio lo Stato che oggi è nelle loro mani. Potete immaginare cosa vuol dire avere il controllo totale di qualcosa che si detesta?

 

Qual è il messaggio?

Nei mesi precedenti le ultime elezioni non c’era stato, a livello nazionale, alcun messaggio del Partito democratico, in mancanza di un accordo al suo interno. Tutti i democratici in lizza per il Congresso si sono espressi sui giganteschi tagli alle imposte voluti da Bush, ma in termini contraddittori, tanto che hanno finito per annullarsi a vicenda. Sei senatori democratici candidati alla rielezione nel 2002 hanno sostenuto a gran voce la politica degli alleggerimenti fiscali; nel Montana, Max Baucus è andato a dire per ogni dove che queste misure dovrebbero avere carattere permanente. La maggior parte degli altri democratici le hanno invece criticate, ma non con gli stessi argomenti. Alcuni, come Charlie Stentholm e altri democratici moderati, hanno puntato sul timore di un crollo del bilancio pubblico; altri, tra cui Paul Wellstone e Ted Kennedy (che ha tenuto numerosi discorsi, pur non essendo candidato alla rielezione), hanno denunciato l’iniquità di queste misure.

Quasi tutti i democratici in lizza per il Congresso hanno parlato dell’Iraq, ma sempre in ordine sparso. In maggioranza hanno sostenuto il presidente, spesso incondizionatamente (Max Cleland, Dick Gephardt). Secondo alcuni avremmo dovuto attaccare l’Iraq soltanto dopo che Saddam avesse respinto la risoluzione del Consiglio di sicurezza. Un gruppo ristretto, ma estremamente qualificato (tra cui Kennedy, Wellstone, Gore e una trentina di parlamentari democratici candidati alla rielezione), si è dichiarato contrario a dare carta bianca al presidente per questa guerra, spiegando i motivi della loro posizione con molta eloquenza: alcuni dei loro interventi sono stati tra i più articolati e approfonditi che io abbia avuto occasione di ascoltare in questi ultimi anni. Ma tutti superavano i 20 secondi previsti dalle TV commerciali, ed è probabilmente per questo che non sono stati ascoltati dalla maggioranza degli americani.

Ovviamente, da parte democratica non sono mancate le solite invettive sul tema della previdenza sociale, ma non c’è stata neppure una parvenza di campagna unitaria. C’era chi perorava una privatizzazione parziale (diversificazione del Fondo del Social Security Trust con emissione di azioni), mentre i più la osteggiavano. Alcuni temevano gli effetti dei tagli fiscali voluti da Bush sulla sicurezza sociale. Qualcuno ha cercato di riesumare l’idea, lanciata a suo tempo da Cliton, di una nuova componente privata, denominata «USA accounts», in aggiunta alla previdenza sociale: una combinazione tra pubblico e risparmio privato, con una scala mobile calcolata in base al reddito familiare. Quali sono allora le nostre idee, e a che punto siamo?

Innanzitutto, i democratici devono spiegare agli americani gli sviluppi di questi ultimi due decenni in materia di posti di lavoro e di redditi. La crescente disuguaglianza è uno scandalo nazionale, che minaccia di spaccare la nostra società. I democratici dovrebbero chiedere, quanto meno, la revoca degli alleggerimenti fiscali concessi al 2% dei cittadini della fascia di reddito più elevata, e proporre di usare il maggior gettito così ottenuto per una moratoria di due anni delle trattenute sulle buste paga sui primi 20.000 dollari di reddito annuo. Per l’80% dei contribuenti americani queste trattenute sono superiori all’imposta sul reddito. Ma è un’alternativa che va presentata in termini chiari: i repubblicani vogliono un super-taglio alle tasse dei ricchi, mentre i democratici chiedono che a pagare di meno siano le famiglie dei lavoratori di livello medio.

In secondo luogo, i democratici devono chiedere conto ai repubblicani delle tante chiacchiere che ascoltiamo da troppo tempo sulla ripartizione del gettito (revenue-sharing). D’accordo per l’azione a livello di Stati, ma vanno anche poste in rilievo le difficoltà in cui molti di essi si sono venuti a trovare, tanto da dover tagliare pesantemente la spesa per la scuola e i servizi sociali. Dobbiamo chiedere che da parte federale si proceda a un revenue-share dell’ordine di 100 miliardi di dollari l’anno per il prossimo biennio.

In terzo luogo, i democratici devono insistere affinché tutti i piani di assistenza sanitaria per i dipendenti pubblici, sia a livello federale che a quello degli Stati, siano consolidati in un unico grande piano nazionale; il quale, grazie alle sue dimensioni, sarebbe in grado di negoziare da una posizione di forza con i fornitori di servizi e le società farmaceutiche, e di conseguire così imponenti risparmi. In prospettiva, l’accesso a questi enti dovrebbe essere aperto a tutti i cittadini. A quel punto, i premi si ridurrebbero tanto da poter fare di questo sistema il fondamento di un single-payer plan1 il quale però, grazie al suo carattere volontario, non rischierebbe di dare fiato alle critiche dell’opposizione politica. I democratici devono chiedere l’espansione del sistema dei crediti d’imposta, fino farlo diventare un sistema universale per finanziare ogni necessità dei cittadini a basso reddito, liquidando tutti i complessi sistemi categoriali, con i loro diversi criteri di ammissione e la burocrazia farraginosa che ne consegue.

In politica estera, i democratici devono chiedere la creazione di una nuova versione globale della NATO, con il compito di sradicare ovunque il terrorismo. Creare la migliore, la più elaborata operazione globale di intelligence che il denaro possa comprare. Ma riconoscere al tempo stesso che se in tutto il mondo c’è sempre più gente disposta a suicidarsi per darci la morte, dobbiamo impegnarci per dare ai poveri e agli sfiduciati del mondo qualcosa di positivo in cui credere. La remissione del debito, gli aiuti internazionali, lo sviluppo economico, l’alfabetizzazione, le vaccinazioni e le forniture di farmaci a basso costo per il terzo mondo sono da intendersi nel contesto di un nuovo impegno globale per contrastare il terrorismo con la speranza.

Tutto questo può bastare? Certamente no. È necessario che i democratici insistano ulteriormente per porre in luce i dettagli. Dobbiamo spiegare perché tutte queste cose sono importanti. Dobbiamo offrire ai giovani nuove vie per servire il proprio paese. E fissare limiti rigorosi ai contributi per le campagne elettorali.

 

L’elettorato democratico

Dove sta l’elettorato democratico? Non solo tra gli anziani, anche se il solo punto sul quale i democratici sono concordi tra loro è la sfiducia nei repubblicani in materia di previdenza sociale e di copertura delle prescrizioni farmaceutiche. I democratici devono stare attenti a non puntare tutto sugli anziani. Nei prossimi due decenni, a quelli della greatest generation subentrerà la generazione del baby-boom del secondo dopoguerra, che rappresenterà l’elettorato più numeroso, più rumoroso e più esigente della storia americana. Decine di milioni di anziani entreranno simultaneamente nella fase di decadimento fisico. Se oggi la copertura delle prescrizioni farmaceutiche vi sembra una questione grossa, cosa accadrà quando la scienza medica prospetterà a questi boomers la possibilità di conservare un aspetto giovanile, fare sesso come conigli e gozzovigliare fino a non poterne più? In tutto il paese dilagheranno i cosiddetti «Med-Meds», i centri per vacanze completi di strutture terapeutiche: snorkeling per l’intera mattinata e terapia di ossigenazione il pomeriggio. E il peggio è che questi boomers non hanno messo da parte un soldo per la vecchiaia. Hanno investito tutto nella casa. E quando tutti insieme decideranno di venderla assisteremo al crollo dei prezzi immobiliari. Nella politica americana, la linea di faglia sarà sempre più generazionale. Chi rappresenterà i giovani? Chi susciterà il loro entusiasmo, la loro capacità di partecipazione gioiosa alla vita politica? Non ho ancora visto nessuno, tra le nuove leve dei democratici, dare un segnale in questo senso.

Per quanto riguarda le organizzazioni dei lavoratori, io scommetto sul SEIU, il sindacato del settore servizi. Nell’ambito dell’AFL-CIO, è il sindacato più diversificato, che conta tra i suoi iscritti numerosi ispanici e neri. I suoi quadri dirigenti sono giovani e svolgono un’attività frenetica. Sono molto impegnati nel reclutamento e nella formazione dei giovani, e rappresentano i lavoratori più emarginati nell’economia emergente: i dipendenti degli alberghi, degli ospedali e delle grandi aziende di commercio al dettaglio, i portieri. E nel corso degli ultimi anni hanno riportato successi enormi. Nel nostro paese, il SEIU è l’organizzazione che più si avvicina a un sindacato di movimento. Se continuerà a crescere e a rafforzarsi anche sul piano politico, potrebbe giocare un ruolo importante nella trasformazione del Partito democratico.

È questo uno dei maggiori segnali di speranza: ne ho fatto l’esperienza diretta quando ero in lizza per la carica di governatore. L’idealismo non è morto, aspetta di essere destato o ravvivato tra i giovani, le minoranze, i poveri e gli adulti stanchi e sfiduciati. Milioni di persone non vedono l’ora di dare un contributo per cambiare il modo di fare politica. Non importa che si definiscano progressisti, verdi o indipendenti: vogliono tutti più pulizia nel sistema. Vogliono che il governo lavori meglio, al servizio di una più ampia maggioranza di cittadini. Ardono dal desiderio di poter contare su autentici leader politici, disposti a impegnarsi per le idee in cui credono, a dire pane al pane e a non farsi intimidire dalle vacche sacre. Leader con idee nuove, ispirate al senso comune. E sono profondamente preoccupati della rotta su cui Bush e i suoi stanno spingendo il paese. Tutto quello che serve è impegnarsi in questa partita.

La posta in gioco è ben più grande e importante del futuro del Partito democratico: si tratta del futuro della democrazia in America, che oggi versa in una situazione terribile. Il potere è nelle mani di un ristrettissimo gruppo di persone che usa la minaccia del terrorismo per imporre la propria visione contorta di un corporate commonwealth, un mondo dominato dalle megaimprese, oggi più potenti di quanto lo siano state a memoria d’uomo. Di fatto, siamo tornati indietro, all’era del presidente William McKinley, all’inizio del XX secolo. Un partito è un mezzo, non un fine. La domanda allora è questa: i democratici saranno in grado di trasformarsi in un movimento nazionale per la riconquista della nostra democrazia? Saranno capaci di dare voce a chi non ne ha? Di ritrovare la loro passione, il loro coraggio, la loro anima?

Se non sono in errore, se è vero che siamo tornati all’era di William McKinley, ci troviamo nella fase cruciale del movimento di cui sto parlando. Quello del 1901 si chiamava movimento progressista. Teddy Roosevelt gli ha conferito forza e legittimità, ma la sua effervescenza era già in atto. Il suffragio femminile, l’imposta progressiva sui redditi, la sanità e la previdenza sociale, i diritti del lavoratori, l’antitrust e così via: tutto ciò è alla base di gran parte delle leggi progressiste del secolo scorso.

Un nuovo movimento progressista potrebbe essere in atto oggi in America. Se i democratici saranno in grado di sostenere la sua avanzata e di rivendicarlo come proprio, potranno diventare un giorno il partito dominante.

 

 

Bibliografia

1 Un sistema sanitario in base al quale l’assicurazione malattia sarebbe a carico di una sola entità, lo Stato, invece delle varie assicurazioni private o pubbliche oggi esistenti.