Investire nei bambini per combattere il peso dell'eredità sociale

Written by Gosta Esping-Andersen Monday, 02 June 2003 02:00 Print

I nostri modelli di welfare sono stati progettati alcune generazioni fa, e sono inevitabilmente figli della loro epoca. Essi rispecchiano infatti la struttura dell’occupazione e della famiglia e il profilo di rischio dai quali sono stati generati. I welfare state di molti paesi continuano a favorire nettamente i settori anziani della società: sono i pensionati a beneficiare in misura maggiore della redistribuzione delle risorse, mentre diminuiscono gli investimenti per bambini e giovani. Ed è largamente condiviso l’assunto secondo cui spetta alle famiglie farsi carico delle responsabilità di assistenza: la dimensione dei trasferimenti prevale dunque rispetto a quella dei servizi.

 

I nostri modelli di welfare sono stati progettati alcune generazioni fa, e sono inevitabilmente figli della loro epoca. Essi rispecchiano infatti la struttura dell’occupazione e della famiglia e il profilo di rischio dai quali sono stati generati. I welfare state di molti paesi continuano a favorire nettamente i settori anziani della società: sono i pensionati a beneficiare in misura maggiore della redistribuzione delle risorse, mentre diminuiscono gli investimenti per bambini e giovani. Ed è largamente condiviso l’assunto secondo cui spetta alle famiglie farsi carico delle responsabilità di assistenza: la dimensione dei trasferimenti prevale dunque rispetto a quella dei servizi. In tutta Europa, le regole del mercato del lavoro continuano a rispecchiare la figura – esclusivamente maschile e unica fonte di reddito della famiglia – dell’ «operaio di produzione», che in realtà è una specie umana in via di rapida estinzione.

È ormai chiaro, dunque, che i nostri sistemi di welfare vanno ridisegnati, affinché siano in grado di rispondere ai bisogni e ai rischi emergenti e diventino più conformi al tipo di società che avremo di fronte tra venti-trenta anni. A questo proposito emerge la prima questione fondamentale: quando discutiamo di riforme del welfare non dobbiamo pensare in termini temporali limitati. Tanto per cominciare, il periodo che intercorre tra la riforma, la sua attuazione e la sua entrata a pieno regime può essere molto lungo. Basti pensare che l’affermazione del diritto alla pensione come principio, e le grandi riforme pensionistiche degli anni Cinquanta e Sessanta che ne sono conseguite, sono divenuti effettivi solo negli anni Novanta del secolo scorso. In altre parole, il nostro compito è quello di costruire un welfare per i nostri figli, non per noi stessi.

 

Alleggerire l’eredità sociale

Gli ideali egualitari alla base della socialdemocrazia si sono gradualmente evoluti verso la ricerca di pari opportunità adattate ai bisogni dell’individuo, promettendo di rendere indipendenti le potenzialità di successo nella vita dai privilegi sociali ereditari. Ultimamente, tuttavia, questa promessa sembra essere stata dimenticata, o quanto meno accantonata. I motivi hanno probabilmente origini diverse. In primo luogo, il lungo processo di costruzione del welfare state ha contribuito a spostare l’attenzione verso gli obiettivi politici più immediati e visibili, quali l’estensione dei diritti sociali e la lotta alla povertà. La lotta all’ingiustizia sociale è andata sempre più di frequente identificandosi con battaglie contro squilibri di categoria (come quella per l’eguaglianza tra i sessi) o a difesa delle vittime di ingiustizie. In secondo luogo, i promotori delle riforme socialdemocratiche ritenevano che la riforma e l’estensione dell’istruzione fossero strumenti sufficienti ed efficaci per lo sradicamento delle pratiche discriminatorie ancora esistenti. Vi sono, invece, sempre più ragioni per credere che le riforme dell’istruzione non bastino a indebolire il peso dell’eredità sociale. Tuttavia, piuttosto che spingere a una seria riflessione programmatica, questa constatazione sembra aver provocato una paralisi politica.

L’evoluzione dell’economia della conoscenza ha ulteriormente innalzato la soglia dei requisiti richiesti per accedere alle opportunità offerte, premiando i cittadini che hanno capacità adeguate e penalizzando quanti ne sono invece privi. Quali capacità siano effettivamente indispensabili non è però chiaro. Buone credenziali sul piano dell’istruzione formale continuano indubbiamente a rivestire un ruolo fondamentale. Secondo i dati dell’OCSE del 2001, il rischio di disoccupazione raddoppia in tutti i paesi tra i cittadini con un grado di istruzione inferiore alla licenza media. Esiste un’ampia letteratura che testimonia un aumento progressivo dei livelli di istruzione (Card 1999; Bowles e altri 2001). Ciononostante, stanno acquistando crescente importanza dimensioni e tipologie diverse di capitale umano, e in particolare alcuni tratti, più difficilmente definibili, come la capacità di agire nella società o di assumere funzioni di leadership, «l’intelligenza emotiva», il capitale sociale e culturale. All’interno di questo magma, le capacità cognitive sono probabilmente quelle di importanza cruciale. Il punto è quindi che la capacità innata di comprendere, interpretare e utilizzare in modo produttivo  le informazioni è una conditio sine qua non in un’economia fondata sull’elaborazione delle informazioni e sulla necessità di adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie e ai nuovi requisiti professionali. Il nuovo contesto della «formazione continua lungo tutto l’arco della vita» presuppone un processo di apprendimento e aggiornamento rapido e efficace, per il quale le capacità cognitive individuali diventano fondamentali. Inoltre, benché le credenziali formali si confermino determinanti, le capacità cognitive dei bambini sono uno dei presupposti principali del successo scolastico. La conclusione cui conducono le ricerche in questo campo indica che i programmi di recupero attuati nelle fasi successive della vita danno scarsi risultati, a meno che la persona non possieda già adeguati livelli cognitivi. E, come è stato già accennato, queste qualità vengono sviluppate nelle prime fasi della vita del bambino, in buona parte, addirittura, prima dell’età scolare.

È evidente dunque che le chances di successo degli individui continuano ad essere fortemente influenzate da ciò che avviene nella vita di un bambino ancora prima del suo incontro con il welfare state; in altri termini, nella sua famiglia di origine. È questa la spiegazione più convincente del motivo per cui, nonostante un secolo di riforme sociali, l’eredità sociale esiste e pesa ancora, e l’impatto dello status sociale dei genitori sulle prestazioni scolastiche, sul reddito e sul tipo di lavoro dei figli resta oggi forte praticamente quanto all’epoca dei nostri nonni. Ma per un migliore welfare e maggiore efficienza, è necessario ridurre il peso di questa eredità. Per i cittadini, una valida base cognitiva è una condizione indispensabile per il successo scolastico, e quindi per la carriera professionale e per buone potenzialità remunerative. Per la società stessa è fondamentale che le generazioni future di lavoratori siano più forti e produttive poiché un gruppo relativamente esiguo dovrà essere in grado di mantenere consistenti settori di popolazione dipendente. Non possiamo permetterci una futura popolazione lavorativa in cui il 20 o il 30% sia composto da analfabeti o non abbia neanche raggiunto il diploma della scuola secondaria.1

Si pone quindi la questione di come combattere l’eredità sociale. Come già osservato, fino a tempi recenti l’attenzione era quasi completamente concentrata sulla riforma dell’istruzione, e in particolare su quattro assi: evitare l’abbandono precoce, promuovere sistemi di scuole onnicomprensive, destinate a tutti, ridurre al minimo il ruolo delle scuole private, e sviluppare programmi mirati a favorire i bambini svantaggiati. I primi due elementi rientrano, in pratica, nella stessa problematica: ovvero come ridurre al minimo il peso delle differenze di classe con l’obiettivo di tenere i bambini a scuola (tutti insieme) più a lungo possibile.2 Il terzo elemento, come è noto, è importante per due ragioni, in parte per assicurare finanziamenti adeguati e un impegno solido nel garantire un’istruzione pubblica di qualità, e in parte per evitare ogni forma di segregazione classista, razzista o etnica. Il quarto elemento è probabilmente quello su cui esiste la più ampia documentazione, almeno per quanto riguarda l’esperienza americana, come nel caso del programma «Head Start», le cui valutazioni riportano sistematicamente i sostanziali progressi registrati in termini sia di frequentazione che di prestazioni scolastiche (Heckman, 1999).

Purtroppo, però, i meccanismi reali dell’eredità sociale risiedono in buona parte altrove. L’opinione prevalente che emerge dalla ricerca è che la scuola e l’ambiente di quartiere siano fattori decisamente meno importanti rispetto a quelli legati alla famiglia (Shavit e Blossfeld 1993; Eriksson e Jonsson 1996; OCSE 2002). Oggi gli studiosi convergono nell’indicare due meccanismi causali di fondo: il denaro e la «cultura». Il primo elemento deriva in generale dalla teoria del capitale umano e si riferisce alla possibilità per i genitori di investire nel futuro dei propri figli.3 Vi è ormai un’ampia letteratura che dimostra come il reddito dei figli sia fortemente correlato con quello dei genitori. Uno degli elementi sorprendenti emerso dalla comparazione tra vari paesi è che il peso delle origini sociali è molto più forte in paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che non in Canada, Scandinavia o Germania (Solon 1999), e ciò sembra indicare che l’eredità sociale è più pesante nelle società non egualitarie.

E sono numerosi gli studi che analizzano le conseguenze della povertà sperimentata nel corso dell’infanzia. Esistono molte testimonianze relative ai gravi effetti che le privazioni economiche e l’insicurezza esercitano sulle prestazioni scolastiche dei bambini, sulle loro successive capacità di guadagno e, dato ancora più allarmante, sulla probabilità che, una volta cresciuti, essi diventino a loro volta genitori poveri (Haveman e Wolfe 1995; Duncan e Brooks, Gunn 1997; Mayer 1997). Periodi prolungati di povertà causano danni particolarmente gravi; quindi, come osservano Abel e Elwood (2001), è di vitale importanza che la società fornisca gli strumenti per uscire dalla povertà. Anche in questo caso, la ricerca comparata mostra chiaramente che la mobilità in uscita dalla povertà è correlata al quadro complessivo dell’ineguaglianza: le società non egualitarie, come quella americana, registrano livelli di povertà persistente molto più alti di quelle egualitarie (Bradbury e altri 2001).

Tutti questi argomenti indicano che una lotta frontale contro la povertà nelle famiglie con bambini si rivelerebbe uno strumento efficace nella campagna a favore di pari opportunità. La stessa conclusione è confermata, sia pure indirettamente, anche dai raffronti internazionali sulla mobilità intergenerazionale. I due studi più autorevoli in materia – Constant Flux di Eriksson e Goldthorpe e Persistent Inequalities di Shavit e Blossfeld – giungono a una conclusione quasi identica, ovvero che negli ultimi cinquanta anni non vi è stata alcuna reale riduzione del peso dell’eredità sociale, sia in termini occupazionali che di livelli educativi. Ma entrambi gli studi individuano nella Svezia un’eccezione a questa regola e ipotizzano che la ragione potrebbe risiedere negli effetti positivi del suo regime di welfare, a forte carattere redistributivo. E in effetti in Svezia, così come in Danimarca e Norvegia, la povertà infantile è praticamente sconosciuta.

Una condizione di prolungate restrizioni economiche e di insicurezza va considerata come una causa di fondo – anche se forse non sufficiente – di una vita svantaggiata e priva di opportunità. Sia perché i genitori poveri non hanno le risorse necessarie a garantire il futuro dei figli, sia perché l’insicurezza produrrà probabilmente una visione di breve periodo e l’incapacità di progettare il proprio futuro. Ma si tratta comunque di una spiegazione insufficiente perché sempre più elementi indicano che i fattori «culturali» possono essere decisivi, in particolare per lo sviluppo cognitivo e motivazionale del bambino (Jencks e altri 1979; de Graaf e altri 1998).

È importante notare che «cultura» e «reddito» hanno una correlazione debole.4 Ciò equivale a dire che una strategia fondata esclusivamente sulla redistribuzione del reddito può essere necessaria, ma non è sufficiente. In altri termini, una politica efficace dovrà anche aggredire la sperequazione delle risorse culturali, se è vero che le capacità cognitive stanno assumendo un’importanza sempre più cruciale nel determinare le opportunità di vita. Sappiamo che le capacità cognitive sono la chiave della futura performance scolastica del bambino; presupposto del successo nelle fasi della formazione e dell’impiego; e sappiamo, infine, che i profitti in termini monetari e di carriera dell’istruzione sono in aumento. Per citare un solo esempio, la probabilità di accedere al livello universitario raddoppia o triplica per gli individui che riportano i punteggi più alti nei test cognitivi, a prescindere da altri fattori quali il grado di istruzione paterna o lo status di immigrante del soggetto.

Ci troviamo davanti una situazione in cui le origini familiari influenzano tanto lo sviluppo cognitivo quanto la prestazione scolastica degli individui: si può quindi dire che l’effetto dell’eredità sociale viene raddoppiato. Il punto, dunque, è quello di individuare una politica che possa ridurre l’influenza della sperequazione delle risorse culturali e cognitive delle famiglie d’origine. Non è un compito facile: ma una indicazione molto interessante viene dalla comparazione internazionale dei diversi effetti dello status sociale dei genitori sui livelli di istruzione raggiunti dai figli nell’arco di più generazioni. L’informazione principale emerge dal paragone tra le generazioni; ci si può chiedere se un paese sia riuscito a ridurre nel tempo l’effetto dell’eredità genitoriale? Le stime statistiche – non riportate in questa sede – dimostrano molto chiaramente che nella maggior parte dei paesi l’effetto dell’eredità sociale non è affatto diminuito. Stati Uniti, Germania, e nella sostanza anche la Gran Bretagna, si sono conformati allo scenario del «flusso costante». I tre paesi scandinavi, al contrario, fanno registrare riduzioni sostanziali di tale impatto, in particolare la Danimarca. Nelle generazioni danesi più giovani, l’influenza del livello d’istruzione del padre sull’accesso dei figli alla scuola secondaria è praticamente nullo. Quello che Eriksson e Goldthorpe, e anche Shavit e Blossfeld, hanno identificato come l’eccezionalità svedese è ormai un tratto comune ai tre paesi scandinavi.

Come si spiega il successo scandinavo, e soprattutto danese, nell’alleggerire il peso dell’eredità sociale? Un elemento fondamentale sono le efficaci politiche redistributive adottate in questi paesi, che si sono rivelate essenziali ai fini della riduzione della povertà infantile. Ma esiste una seconda spiegazione, non alternativa a questa, e cioè che tali paesi – con la Danimarca all’avanguardia e la Norvegia come fanalino di coda – forniscono da decenni servizi quasi universali di assistenza giornaliera per i bambini in età prescolare. Con l’occupazione femminile che si avvicina a livelli di saturazione per le donne con qualsiasi grado di istruzione, i bambini provenienti dalle famiglie meno privilegiate in termini sia economici che culturali sono stati esposti a standard pedagogici e a stimoli cognitivi che sono essenzialmente gli stessi dei loro coetanei più privilegiati.5 Ne deriva pertanto che i bambini arrivano al loro primo giorno di scuola preparati in modo molto più omogeneo, a prescindere dal loro background sociale. Ed è proprio questa secondo gli esperti la questione fondamentale: la fase più importante dello sviluppo cognitivo si verifica prima dell’età scolare. Successivamente, è probabile che i bambini che hanno meno risorse intellettive abbiano un rendimento inferiore a scuola. Le scuole inoltre non sono generalmente pronte a recuperare gli handicap di partenza (OCSE 2002). In conclusione, se siamo d’accordo che una maggiore eguaglianza di opportunità sia importante non solo per motivi etici o di equità, ma anche per il buon funzionamento della società di domani, evidentemente non possiamo più permetterci di tollerare che prosegua il «flusso costante».

Questa analisi suggerisce la necessità di una duplice strategia, che combini alcune forme di garanzia contro la povertà infantile con misure tese a rendere omogenei gli stimoli cognitivi ricevuti dai bambini in età prescolare. Le lezioni che possiamo trarre dall’esperienza scandinava indicano che questa operazione non è affatto utopistica: al contrario, la necessità di assicurare un accesso ampio – anzi, universale – alla cura giornaliera dei bambini esiste già, e una mancata risposta a questa domanda finirebbe per determinare costi molto alti da pagare per la società. Una strategia di questo tipo non costituirebbe necessariamente un peso eccessivo per le casse dello Stato. Se le garanzie contro la povertà fossero fissate al 50% del reddito medio di una famiglia, il costo addizionale non supererebbe lo 0,2% del PIL. In ogni caso, sappiamo che una volta che le madri trovano un lavoro, la povertà infantile praticamente si azzera. Garantire che le madri conservino il loro lavoro è il migliore strumento finora identificato di lotta a questa povertà. Il bandolo della matassa, dunque, risiede negli investimenti per la cura del bambino.

Tuttavia si deve ricordare che l’intensità del lavoro della madre (e dei genitori) potrebbe avere effetti negativi sullo sviluppo e la performance scolastica dei bambini. In altri termini, il lavoro e i salari dei genitori sono da un lato fattori positivi poiché riducono il rischio di povertà, mentre dall’altro potrebbero diventare elementi negativi limitando qualità e intensità del rapporto genitori-figli. Per quanto esista una corposa ricerca empirica sugli effetti del lavoro delle madri sullo sviluppo del bambino, la letteratura non ha dato una risposta univoca. Le rassegne di questi studi, come quelle di Duncan e Brooks-Gunn (1998) e di Haveman e Wolfe (1995), suggeriscono che l’occupazione della madre ha in genere effetti positivi, o quanto meno neutri; e che effetti negativi si verificano quando il lavoro è associato a stress e fatica. Ermisch e Francesconi (2002), in uno studio che analizza dati britannici, traggono conclusioni più pessimistiche e sostengono che il lavoro a tempo pieno della madre ha effetti decisamente negativi sullo sviluppo cognitivo dei figli. Meno chiari sono gli effetti del lavoro part-time. L’interpretazione dei loro dati è resa più ardua dal fatto che lo studio mette in luce che anche il lavoro del padre ha effetti negativi. Le mie analisi comparative dei dati PISA tendono a convalidare parzialmente le conclusioni di Ermisch e Francesconi. Il lavoro a tempo pieno della madre tende ad essere un fattore negativo per lo sviluppo cognitivo dei figli in numerosi paesi (specialmente negli Stati Uniti, in Spagna e in Olanda), mentre gli effetti del lavoro part-time sembrano quasi uniformemente positivi.

L’influenza del lavoro dei genitori è un punto fondamentale da sciogliere per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, esso dipenderà molto da quando nello sviluppo del bambino interviene l’esordio lavorativo dei genitori. L’effetto peggiore sembra concentrarsi nella prima infanzia, tra la nascita e i 5 anni, come sottolineano Ermisch e Francesconi. Inoltre, gli effetti negativi sono probabilmente collegati al tipo di lavoro della madre piuttosto che al lavoro in assoluto. In secondo luogo, è probabile che l’influenza del lavoro della madre vari a seconda delle nazioni, producendo effetti peggiori nei paesi in cui la cura dei bambini esterna alla famiglia è di qualità bassa o non omogenea, e minori problemi laddove tale cura è di buona qualità. Tornando alla mia analisi dei dati PISA, essi mostrano alcune evidenti differenze tra i paesi: in quelli nordici il lavoro della madre, sia a tempo pieno che part-time, non sembra produrre alcun impatto.

In ultima analisi, dobbiamo partire dall’assunto che il tasso di occupazione delle madri tenderà progressivamente a crescere in tutti i paesi avanzati. Si tratterà con ogni evidenza di un’evoluzione positiva sotto il profilo del reddito familiare e del benessere del bambino. La sfida, dunque, consisterà nel progettare una politica che eviti gli eventuali effetti secondari negativi di questo dato di fatto. Ciò ci riporta, ancora una volta, al disegno più generale delle politiche familiari. Se gli effetti negativi sui bambini del lavoro dei genitori sono particolarmente acuti nella prima infanzia, tale politica dovrà evidentemente prevedere periodi di aspettativa dal lavoro flessibili e generosi per i genitori quando i figli sono piccoli. L’osservazione di Ermisch e Francesconi circa gli effetti negativi del lavoro sia materno che paterno suggerisce la possibilità di sostituzione e suddivisione dei compiti tra padre e madre. Probabilmente non conta molto quale dei due genitori stia con i figli, purché ci sia qualcuno. In altri termini, vanno ulteriormente incoraggiati i piani di aspettativa dal lavoro di cui possono usufruire entrambi i genitori.

Torniamo dunque alla questione della cura dei bambini. Se la politica di assistenza non fosse che una risposta alla domanda delle donne di poter meglio conciliare lavoro e maternità, non vi sarebbe a priori alcuna ragione per cui il welfare state debba garantire standard di qualità alti e uniformi. Dopo tutto, gli Stati Uniti, a giudicare dagli alti tassi di fertilità e di occupazione femminile, sembrano offrire alle donne la possibilità di conciliare lavoro e maternità almeno quanto i paesi nordici. Ma la gestione dell’assistenza prescolare in America è direttamente proporzionale alle potenzialità economiche dei genitori. Una minoranza può permettersi un’assistenza di alta qualità, mentre il resto deve arrangiarsi con aiuti informali (lasciando i bambini alla vicina di casa), o addirittura farne completamente a meno (Waldvogel 2002). I bambini americani, dunque, arrivano a scuola già fortemente condizionati dalla stratificazione sociale, e infatti negli Stati Uniti si registra una correlazione molto alta tra origini sociali e destinazione degli individui.

Il punto è che una politica di accesso universale a un’assistenza giornaliera di alta qualità per i bambini tra 0 e 6 anni ottiene contemporaneamente due risultati. Contribuisce evidentemente a risolvere il problema che devono affrontare le madri lavoratrici, quello di conciliare la propria occupazione con la famiglia, ed è anche uno strumento efficace nella lotta contro l’eredità sociale. Dunque, non si tratta solo di una politica dal successo assicurato, ma è anche un investimento produttivo nelle opportunità di vita dei bambini e nella futura produttività della società.

 

 

 

Note

1 In America, oggi, oltre il 20% dei giovani (tra i 16 e i 25 anni) si colloca al livello cognitivo più basso, considerato «disfunzionale». In vari paesi europei, fino al 30% dei giovani non riesce a completare il ciclo di istruzione secondaria.

2 Eriksson e Jonsson (1996) sostengono che le riforme svedesi attuate a partire dagli anni Sessanta hanno effettivamente contribuito a ridurre il peso dei fattori di classe nell’abbandono scolastico.

3 Le basi teoriche di questa tesi sono strettamente legate al lavoro di Becker (1981) e Becker e Tomes (1986). Per una rassegna, si veda Haveman e Wolfe (1995) e Solon (1999). Va anche osservato che buona parte della ricerca sulla mobilità sociale insiste implicitamente sull’importanza delle risorse monetarie. Gli indicatori di status socio-economici utilizzati per le correlazioni intergenerazionali rappresentano combinazioni ponderate di status occupazionale e reddito.

4 I profitti «cognitivi» del capitale culturale sono elevati, se si considera che un salto di un livello nella variabile a cinque livelli del capitale culturale implica 35 punti in più (o un miglioramento dell’8%) nel punteggio cognitivo del ragazzo (stime ricavate dal modello americano, ma l’effetto del capitale culturale è sostanzialmente simile nei vari paesi).

5 È eloquente il livello straordinario di occupazione delle madri sole (che è di circa il 75-80% in Danimarca e Svezia). In più, la cura giornaliera dei bambini per le madri sole è praticamente gratuita.

 

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