Le Nazioni Unite tra potenza e consenso

Written by Ennio Di Nolfo Monday, 02 June 2003 02:00 Print

È probabile che pochi abbiano fatto caso a un’infelice analogia. Il 22 maggio, nel deliberare la sospensione delle sanzioni contro l’Iraq, il Consiglio di sicurezza dell’ONU effettuava due scelte di un certo rilievo. In primo luogo, esso assumeva come legittima (poiché nessuno alludeva nemmeno remotamente alla possibilità di un’interpretazione divergente) la decisione statunitense di attaccare in marzo l’Iraq, in assenza di un voto del Consiglio stesso e, verosimilmente, in contraddizione, magari non sostanziale ma certo formale, con gli articoli 39 e seguenti della Carta.

 

È probabile che pochi abbiano fatto caso a un’infelice analogia. Il 22 maggio, nel deliberare la sospensione delle sanzioni contro l’Iraq, il Consiglio di sicurezza dell’ONU effettuava due scelte di un certo rilievo. In primo luogo, esso assumeva come legittima (poiché nessuno alludeva nemmeno remotamente alla possibilità di un’interpretazione divergente) la decisione statunitense di attaccare in marzo l’Iraq, in assenza di un voto del Consiglio stesso e, verosimilmente, in contraddizione, magari non sostanziale ma certo formale, con gli articoli 39 e seguenti della Carta. Così tutti i dibattiti sul fondamento giuridico dell’azione anglo-americana e degli altri membri della coalizione, venivano ridicolizzati da chi avrebbe dovuto esprimere, al contrario, un giudizio di condanna. La seconda operazione era di accettare che, in modo sostanziale, da ora in avanti e almeno per un anno l’Iraq sia sottoposto a una sorta di protettorato internazionale, dominato dalla forza anglo-americana.

La risoluzione del 22 maggio assomiglia molto a quella assunta il 4 luglio 1936 dall’Assemblea della Società delle Nazioni, che aboliva le sanzioni decretate nell’ottobre 1935 contro l’Italia, in applicazione dell’articolo 16 del Covenant, a causa dell’aggressione contro l’Etiopia e apriva la strada al riconoscimento diplomatico dell’impero italiano in Etiopia. Anche l’Italia aveva preferito scansare la mediazione della Società delle Nazioni e decidere autonomamente, contro le norme del diritto internazionale del quale si presumeva l’esistenza. Con la sua decisione la Società delle Nazioni in pratica commise un suicidio. Sebbene non sia possibile spingere sino a questo punto l’analogia, è evidente che essa getta una luce sinistra sull’avvenire dell’ONU e sul modo in cui questa concepisce o produce norme condivise di diritto internazionale. È troppo facile oggi associarsi al coro maldestro di coloro che condannano l’inerzia e l’impotenza dell’ONU per pronosticare la necessità che ci si prepari a costruirne il sepolcro. A certe condizioni, infatti, l’ONU è necessaria. Tuttavia è evidente che, dopo delibere come quella del 22 maggio, diviene sempre più urgente riconsiderare le condizioni e i limiti di tale utilità, cioè porre per davvero il problema della riforma della Carta anziché utilizzare l’ONU come paravento per la mancata assunzione di responsabilità o utilizzarla come alibi per decidere di non avere idee pratiche, come spesso è accaduto nel dibattito politico italiano e internazionale. In questo ambito l’aver accettato certe scelte, o il continuare a proporne altre, purché esse siano condivise dall’ONU, diviene quasi un’infelice manifestazione di paralisi politica e una sorta di presa in giro per chi non ha ancora capito che l’ONU, nel suo assetto attuale, non è in grado di deliberare alcunché senza l’approvazione dei cinque paesi che dispongono del diritto di veto.

Maramaldeggiare contro l’ONU è divenuto ora un esercizio consuetudinario. Ma anche un esercizio improduttivo. Ripensare positivamente all’esperienza appena vissuta richiede anzitutto la fiducia nella necessità che l’ONU sopravviva ma anche la disponibilità a prendere in considerazione le ragioni dei recenti e numerosi insuccessi dell’Organizzazione. L’infondata propensione a considerare la Nazioni Unite come l’unica o la principale fonte delle norme cogenti di diritto internazionale è il concetto sul quale si deve ritornare, poiché la crisi irachena lo ha messo in discussione spingendo in prima linea antiche contraddizioni e incoerenze esistenti da sempre. Molto spesso si tende a considerare l’ONU come il sistema di Stati che, rappresentando tutta la comunità internazionale (dal momento che ora i membri dell’organizzazione sono circa 200 e includono quasi tutte le nazioni indipendenti del mondo) è «per sua natura» la sede della formazione delle regole della convivenza internazionale. La storia e la prassi mostrano che questo presupposto è infondato.

Come già la Società delle Nazioni, anche l’ONU è il risultato di una guerra e di una ideologia; essa esprime infatti la vittoria delle potenze antifasciste contro l’Italia, la Germania e il Giappone e incorpora l’ideologia internazionalistica propria della cultura americana. Come già la Società delle Nazioni nel 1919, anche l’ONU esplicita il peso risolutivo della presenza degli Stati Uniti nella guerra. Essa dunque è l’istituzione alla quale gli Stati Uniti per primi affidavano il compito di tutelare la pace, così come intesa dalla cultura americana.

Nel 1945, quando venne costituita, l’ONU contava una cinquantina di membri, in gran parte legati da vincoli di subordinazione o di sudditanza politica alle tre maggiori potenze di allora: gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna. L’organizzazione non era dunque lo strumento della pace (sebbene l’articolo 1 affermi che la salvaguardia della pace è il principale obiettivo delle Nazioni Unite) ma lo strumento ideato per impedire il riprodursi di minacce contro l’ordine determinato dalla vittoria alleata. Ma poiché i vincitori erano a loro volta separati da quella profonda diffidenza reciproca che sarebbe poi sfociata nella guerra fredda, la Carta dell’ONU modificò il criterio di completa eguaglianza degli Stati di fronte al diritto internazionale, affidando il potere esecutivo al Consiglio di sicurezza, nel quali cinque grandi potenze disponevano del cosiddetto «diritto di veto». Di queste grandi potenze, due erano tali solo simbolicamente. La Francia era reduce dall’umiliante sconfitta subita per opera dei tedeschi nel 1940, e cercava senza successo di mantenere il controllo su ciò che restava del suo impero coloniale; la Cina era in preda alla guerra civile. Forse gli Stati Uniti speravano che alla fine Chang Kai-Shek potesse avere la meglio su Mao Zedong, ma a parte questa illusione, c’era il dato di fatto che in quel momento, sul piano internazionale né la Cina nazionalista né quella rivoluzionaria erano in grado di muovere un passo. Restavano dunque la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. La Gran Bretagna aveva già avvertito, durante i negoziati per l’applicazione della legge «Affitti e prestiti» del 1941, le durezze del confronto con la superpotenza economica americana, sicché il fulcro del sistema di potere costruito dalle Nazioni Unite stava nel binomio URSS-USA e il diritto di veto veniva esteso a cinque paesi solo per rivestire di rispettabilità il condominio che i due veri vincitori della guerra intendevano esercitare. La regola del veto era concepita per impedire che il Consiglio di sicurezza potesse deliberare contro una delle superpotenze.

Immaginare che da questa politica di potenza, abbellita da norme giuridiche, potesse venir generato un nuovo sistema di diritto internazionale universale significava abbandonarsi a un ottimismo infondato. Le Nazioni Unite furono, fino al 1956, uno strumento della politica estera americana, nella misura in cui l’Unione Sovietica consentì che lo fossero, per calcolo o per errore (guerra di Corea). Quando nel 1956 l’ONU cominciò ad allargarsi e la decolonizzazione rovesciò su di essa i suoi effetti, allora esse divennero un organismo incontrollabile. Fino alla crisi congolese del 1960-63 il Consiglio di sicurezza legittimò, con grande fatica, la presenza dei «Caschi blu» nello Stato africano. Dopo di allora, l’ONU sfuggi non solo al controllo americano ma anche a quello sovietico. Essa si trasformò, comprensibilmente, nel palcoscenico dal quale i paesi di nuova indipendenza cercarono di fare sentire il loro peso e di far capire al mondo i loro problemi. Il primo passo compiuto in tale direzione avrebbe dovuto mettere in guardia i signori del diritto. Infatti l’Assemblea generale del dicembre 1960, nel condannare il colonialismo come contrario al diritto internazionale e ai principi della Carta dell’ONU, assunse una posizione politicamente legittima ma in contraddizione con la Carta stessa – la quale disciplina ai capitoli XI e XII proprio il governo dei territori coloniali – modificandone il testo senza seguire le complesse procedure previste dall’articolo 108. Tutto questo significava che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica avevano rinunciato o intendevano rinunciare a considerare l’ONU come una fonte di legittimità, salvo i casi in cui le deliberazioni del Consiglio di sicurezza fossero prese congiuntamente dalle superpotenze. Oppure salvo il caso che una delle superpotenze, l’URSS dopo il 1989, non fosse più in grado di sviluppare un’azione internazionale adeguata per bilanciare l’egemonia degli Stati Uniti. Ma da queste considerazioni deriva l’amara constatazione che dal 1960 in poi l’ONU divenne sempre di più la platea delle buone intenzioni, l’alveo entro il quale sviluppare forme di collaborazione culturale o sociale importanti, ma non certo il soggetto capace di elaborare norme di diritto internazionale condivise e efficaci.

Quest’ultima osservazione richiede che si apra il discorso sulla natura e legittimità del diritto internazionale. Chi conferisce alle norme di diritto internazionale la legittimazione e l’efficacia necessarie perché esse siano davvero la struttura di un sistema giuridico efficiente? Si tratta di una domanda che investe tutta la storia del diritto internazionale e sulla quale è impossibile dilungarsi. Per dirla in breve la norma giuridica acquista valore quando essa è legittimata da un’autorità superiore (un potere divino nella res publica cristiana, il potere imperiale, negli anni del Sacro romano impero; il consenso degli Stati sovrani, negli anni della politica di equilibrio). Dalla metà del Seicento, tradizione, dottrina e consuetudine elaborarono gradualmente una serie di norme verso le quali si sviluppò consenso generalizzato. Queste norme prevedevano l’eguaglianza degli Stati di fronte al diritto internazionale ma, come hanno insegnato i padri fondatori del pensiero internazionalistico, dal Gentili a Grozio a Pufendorf a Vattel, l’adattamento dell’eguaglianza sul piano politico, mitigandola con il principio per cui ogni Stato dovesse giudicare «ciò che poteva o ciò che non poteva fare; ciò che gli conveniva e ciò che non gli conveniva fare». Nasceva da questa limitazione una concezione gerarchica dell’ordine internazionale, grazie alla quale gli Stati venivano suddivisi in «grandi, medie o piccole potenze». Solo le «grandi potenze» avevano la potestà sufficiente a dominare la vita internazionale e a definirne le regole, dando vita al «Concerto europeo»: un sistema all’interno del quale i conflitti venivano combattuti militarmente e risolti giuridicamente in modo tale da non alterare la struttura dell’insieme. E questo ebbe una forza tale da superare indenne le tentazioni egemoniche spagnole, francesi, asburgiche, prussiane, russe; così forte da avere la meglio sull’egemonismo napoleonico e da poter cooptare, senza danni, nel 1861 il regno d’Italia e nel 1871 l’Impero Germanico.

Questo sistema, che aveva alla sua base il riconoscimento dell’eguaglianza giuridica ma anche quello della disuguaglianza politica delle potenze, venne distrutto dopo la prima guerra mondiale, dall’internazionalismo wilsoniano. Nel 1919, i vincitori della prima guerra mondiale, in pratica la Gran Bretagna e la Francia, spinte dagli Stati Uniti che poco dopo negarono la loro partecipazione a ciò che essi stessi avevano creato, fecero nascere la Società delle Nazioni: questa sarebbe dovuta essere la matrice del nuovo ordine internazionale, basato sulla diplomazia aperta, sulle regole del diritto e dell’eguaglianza non solo teorica ma anche pratica di tutte le nazioni. La fine miserevole della SdN è ben nota. Tuttavia il medesimo errore venne compiuto, pur con il limiti espressi dal diritto di veto, dall’ONU. Ma proprio questa è la ragione della paralisi dell’organizzazione e della incapacità verso la quale essa si è avviata di apparire come motore e garante di un sistema di norme giuridiche efficaci. Sinché l’ONU fu controllata dalle superpotenze, sopravvisse l’illusione che essa fosse una sede legittimante: in effetti essa era la sede nel cui ambito si potevano assumere posizioni contraddittorie, senza provocare conseguenze, o assumere deliberazioni efficaci, purché concordate dalle superpotenze: tutto ciò era ed è altra cosa rispetto a un diritto internazionale formato legittimamente e unanimemente condiviso. È politica di potenza, rivestita di panni curiali.

Quando la fine della guerra fredda tolse anche questo velo, allora apparve in tutta evidenza il fatto che o le Nazioni Unite accettavano, legittimandola, l’egemonia americana, traducendo così il diritto internazionale in abbellimento esteriore della politica estera degli Stati Uniti; oppure negavano tale egemonia, la consideravano diversa o contraria rispetto al diritto internazionale partorito dall’ONU stessa, ma in tal modo si condannavano all’inefficacia. Il dilemma legittimità-effettività si traduceva crudamente nel dilemma: coerenza con la politica estera degli Stati Uniti o inefficacia. Ciò può apparire scandaloso a coloro che imprimono di moralismo la loro visione della vita internazionale. Ma lo scandalo può produrre manifestazioni di piazza, non serve per dare efficacia a norme basate sul vento delle buone (o cattive) intenzioni.

Sono, in sintesi, questi i problemi che stanno alla base di un dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite. Il punto dominante del dibattito sta nel fatto che la nozione di eguaglianza giuridica delle nazioni non può essere assunta come criterio fondamentale per la formulazione di un sistema normativo condiviso. Chi ha soggettività ma, a causa delle sue dimensioni politiche più che limitate, non ha responsabilità, nel sistema attuale dispone di un diritto di rappresentanza e di un potere di voto eguali a quelli di chi ha, in grado diverso, maggiori dimensioni e responsabilità più complesse: regionali o globali che esse siano. Nel momento stesso in cui l’iperpotenza americana elabora una strategia globale per la creazione di un nuovo ordine internazionale e si avvia, con iniziative concrete a porre in essere tale strategia, il Consiglio di sicurezza rimane composto dalle cinque grandi potenze del 1945 (fra le quali non vi sono né l’India, né il Brasile, né l’Unione europea in quanto tale, ma solo le velleità francesi o i vincoli atlantici della Gran Bretagna) più dieci paesi scelti a rotazione, per rappresentare le varie parti del mondo: scelti secondo criteri che sfuggono al diritto ma esprimono la logica della rotazione, quella del compromesso o quella dell’egemonia regionale. Così, per paradosso, l’Europa potrebbe essere rappresentata da Malta o da San Marino (con tutto il rispetto dovuto alle due piccole nazioni) in assenza di paesi che portano responsabilità e pagano oneri ben più rilevanti alla vita dell’Organizzazione. E lo stesso identico discorso potrebbe ripetersi per tutti gli altri continenti. Il che getta luce sulle ragioni, anzi sulla ragione che impedisce all’ONU di essere davvero il soggetto che regola o genera norme valide per tutto il globo.

Ciò che deve essere rimesso in discussione è il principio dell’eguaglianza politica degli Stati nel sistema internazionale. È inconcepibile che oltre la metà dei paesi dell’ONU siano governati da oligarchie più o meno autoritarie o da dittature militari più o meno feroci e, al tempo stesso partecipino alle decisioni di fondo relative alla formazione delle norme della convivenza internazionale. È, del pari, inconcepibile che all’interno dell’ONU chi esiste per essere stato creato dal colonialismo occidentale abbia la medesima legittimità politica di chi fonda la sua ragion d’essere su secoli di storia civile. E, ancora, è inconcepibile che i paesi dai quali dipende la vita finanziaria, la capacità militare e la forza politica dell’Organizzazione contino di fatto, nel Consiglio di sicurezza o nell’Assemblea generale come i microstati di poche migliaia di abitanti. Ma del pari è inconcepibile che un solo paese, per quanto potente esso sia, come lo sono gli Stati Uniti, possa operare nella vita internazionale senza norma o controllo da parte altrui.

Questa argomentazione può apparire iperrealistica e ingiusta. Tuttavia essa è il frutto ineludibile della recente esperienza irachena. L’ONU può recuperare il suo ruolo, anzi è necessario che l’ONU recuperi il suo ruolo ma perché ciò accada è necessario che essa sia non la sede dove si esprime in maniera grossolana l’antiamericanismo che circola nel mondo, come sempre è circolata nel mondo l’ostilità verso una potenza egemone. È invece indispensabile che si ripensi seriamente alla diversità dei ruoli, alla ponderazione delle potenze, alla elaborazione di regole che non pretendano di possedere un valore universale, che non verrà mai loro riconosciuto, ma costruiscano un sistema normativo costruito su pochi principi, tale tuttavia da garantire che la sopraffazione del più forte non accada e, al tempo stesso, si possa collaborare con il più forte per consentire che le risorse dell’intelligenza e della creatività umana si manifestino. Del resto è verosimile che nemmeno gli Stati Uniti vogliano disfarsi di questo filtro che consente di orientare il consenso, di trovare formule di mediazione, di concertare ipotesi di compromesso.

A tutto ciò si dovrebbe riflettere non in vista di un progetto utopistico di pace universale e permanente, ma in vista di un progetto capace di recepire i mutamenti dei rapporti di forza reali razionalizzandoli all’interno di una cornice che consenta la soluzione pacifica delle controversie. È la quadratura del cerchio? L’esempio dell’Europa dopo il 1945 mostra come sia possibile che paesi da secoli nemici e spesso dominati dal vicino più forte (si pensi alla posizione del Belgio tra la Francia e la Germania) possano, guidati dalla volontà di evitare le sanguinose esperienze del passato, tradurre i conflitti da scontri di civiltà in controversie politiche superabili mediante negoziati. Così l’illusione di un governo mondiale verrebbe accantonata almeno sino a che non ne esistano le condizioni pratiche a favore della nascita di regionalismi forti, in grado di collaborare pacificamente alla pace del mondo.