La coperta corta degli Stati Uniti

Written by Carlo Pinzani Thursday, 26 June 2008 19:12 Print
Mancando pochi mesi alla conclusione del secondo mandato di G. W. Bush è legittimo tentare un bilancio della sua presidenza relativamente all’aspetto che l’ha maggiormente danneggiata: la politica mediorientale.
Attualmente in Iraq, nonostante i progressi registrati sul piano della sicurezza, continua a mancare un chiaro quadro politico di riferimento. Questo potrà essere raggiunto soltanto attraverso un drastico cambiamento della politica americana nei confronti dell’Iran, determinata anche dalla incondizionata
solidarietà degli Stati Uniti con il governo israeliano e con la sua ossessione per la sicurezza. Senza la paziente ricerca di un accordo politico ampio la situazione mediorientale resterà il punto più critico del sistema delle relazioni internazionali e, al tempo stesso, non consentirà agli Stati Uniti un’efficace tutela dei loro interessi economici e strategici nella regione.

La situazione in Iraq

Negli Stati Uniti si è recentemente registrato un primato storico: nessun presidente, da quando esistono i sondaggi, aveva raggiunto la soglia del 70% nell’indice di impopolarità. G. W. Bush ci è riuscito, seppure di poco, cinque anni dopo il suo trionfale arrivo sulla USS Abraham Lincoln, quando aveva proclamato il successo della guerra in Iraq. Anche se – stando a un recente, apologetico libro sulla sua presidenza – il famoso messaggio “missione compiuta” era soltanto un errore di comunicazione attribuibile ai suoi collaboratori addetti all’immagine1 e se l’attuale impopolarità del presidente non è certamente dovuta soltanto alla guerra irachena, certamente la politica internazionale è il settore nel quale il fallimento delle Amministrazioni di Bush jr. è stato più clamoroso. Il fatto che, sino dalle elezioni di midterm, il dibattito politico americano si sia concentrato sul conflitto iracheno si spiega soprattutto con l’urgenza del problema per i cittadini degli Stati Uniti, che ormai da cinque anni sono sottoposti a uno stillicidio di perdite umane (che tra caduti e feriti raggiunge quasi quota 35.000) e allo stratosferico costo di 3.000 miliardi di dollari, senza vede-re nessun risultato concreto.2 La perentorietà di questo giudizio è pienamente confermata dal più recente e approfondito bilancio della vicenda irachena svoltosi davanti alla commissione Difesa del Senato americano il 7 e l’8 aprile 2008. Anche se dopo quella data gli scontri armati in Iraq sono di nuovo in ascesa (nell’aprile le vittime americane sono state 44, un numero che non si registrava da più di un anno) restano valide le testimonianze e i giudizi espressi in quell’occasione dal generale Petraeus e dall’ambasciatore Cocker. I due maggiori responsabili della presenza americana in Iraq hanno potuto confermare, dati alla mano, la forte riduzione della violenza sul campo, grazie soprattutto al rovesciamento di posizione di buona parte della comunità sunnita. Questa, esclusa dagli apparati statali iracheni guidati dal governo dello sciita al-Maliki, ha accettato di collaborare con i militari americani nel garantire la sicurezza nelle zone ove più forte era l’attività di guerriglia d’ispirazione qaedista e circa 60.000 uomini percepiscono ora dagli Stati Uniti un salario largamente superiore a quello medio iracheno. Un fatto, questo, che è sembrato comprensibilmente sgradito ai senatori americani.

Se questi risultati sono certi sul piano militare, su quello politico il bilancio è meno incoraggiante anche per l’ovvia considerazione che su questo terreno non possono essere utilizzati dati quantitativi: in ogni caso, ha affermato Crocker, il governo e il parlamento iracheni si stanno adoprando per realizzare un sistema istituzionale funzionante e dar vita a una legislazione che avvii a soluzione i gravissimi problemi del paese. Pressato dalle domande dei senatori democratici, tuttavia, Crocker non è stato in grado di fornire dati o assicurazioni sul livello di attuazione delle misure adottate o in via di adozione. Ne consegue, hanno concluso i due auditi, che la situazione è talmente fluida che non è possibile fissare un termine preciso per la decisione di procedere a ulteriori riduzioni di truppe, una volta che, entro il prossimo luglio, saranno ritirate quelle aggiuntive inviate nel corso del 2007. Conclusione che la senatrice Clinton ha vivacemente criticato, affermando che «negli ultimi cinque anni abbiamo continuamente sentito dire dall’Amministrazione che le cose stanno migliorando, che siamo vicini a una svolta e che finalmente s’intravede una soluzione. E, ogni volta, i governanti iracheni non sono stati in grado di dare risultati».3

Per quanto fondato e condivisibile, il giudizio di Hillary Clinton non sembra cogliere appieno la sostanza delle cose: il fatto è che, anche assu-mendo che i progressi realizzati si consolidino, il risultato sarà soltanto quello di aver rimediato a uno dei tanti errori commessi dagli Stati Uniti dopo l’eliminazione di Saddam Hussein dalla scena politica irachena: la totale epurazione degli apparati di sicurezza dai sostenitori del regime baathista, con il conseguente e decisivo indebolimento dell’apparato statale. Così, paradossalmente, la guerra continua per eliminare una delle conseguenze da essa prodotte. In realtà, è difficile trovare nella storia recente casi di guerre che abbiano visto mutare così frequentemente i propri obiettivi. Prima la guerra globale contro il terrorismo nella quale l’Iraq di Saddam non poteva non essere implicato, se non altro come componente dell’“asse del male” denunciato da G. W. Bush nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2002; poi le armi di distruzione di massa rivelatesi inesistenti; quindi la necessità di completare l’opera iniziata con la guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait con l’eliminazione del regime baathista; infine, l’esigenza di portare la democrazia in Medio Oriente.

La verità è che la politica internazionale delle Amministrazioni di G. W. Bush è stata condizionata dalle impostazioni prevalentemente ideologiche della destra americana, che risalgono assai indietro nel tempo, addirittura agli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale e allo scontro tra isolazionismo e internazionalismo. Quest’ultimo ha definitivamente prevalso nel periodo immediatamente successivo alla fine del conflitto, ma, con l’avvento della guerra fredda, ha assorbito molti dei contenuti del nazionalismo americano, che costituivano l’essenza delle posizioni isolazioniste. L’esistenza di questa continuità è confermata in pieno dal dibattito che all’interno del conservatorismo americano si è svolto dopo l’11 settembre 2001 sulla risposta da fornire al terrorismo islamico.

Basti pensare, a questo proposito, all’interpretazione fornita alla “dottrina Bush” da Norman Podhoretz (uno dei “padri fondatori” del neoconservatorismo, come egli stesso si definisce). Secondo questa tesi la guerra al terrorismo si configura, in realtà, come una sorta di quarta guerra mondiale, essendo la terza quella non militarmente combattuta contro il comunismo e l’Unione Sovietica, che rappresentavano una minaccia mortale per la civiltà americana.

A conclusione della sua analisi Podhoretz cita le frasi conclusive del “lungo telegramma” inviato da Kennan, che è generalmente ritenuto il documento fondante della guerra fredda. In quel passaggio l’inventore della teoria del containment affermava che il popolo americano doveva essere profondamente grato alla Provvidenza per aver fornito agli Stati Uniti una sfida implacabile, che li costringeva a unirsi e ad accettare le responsabilità dell’egemonia morale e politica che la storia loro chiaramente affidava. Basta sostituire, conclude il guru neoconservatore, il«terrorismo islamico» alle «relazioni russo-americane» e «ogni altra parola di questa straordinaria affermazione si applica oggi alla nostra nazione ».4 Sarà per le dimensioni del paese, sarà per la consapevolezza dell’eccezionalismo americano, ma, per la destra americana, gli Stati Uniti sono sempre soggetti a sfide globali, anche quando decidono d’invadere Grenada.

È abbastanza evidente che, con queste premesse, anche un problema essenziale come la definizione degli obiettivi di guerra passi in secondo piano. Ma è proprio la mancanza di chiari obiettivi bellici che in Iraq ha moltiplicato gli errori, trasformando l’invasione in un pasticcio inestricabile ove non è possibile con ragionevole certezza stabilire che cosa costituisca una vittoria e dal quale, quindi, sarà comunque molto penoso districarsi. La soluzione che sembra delinearsi, sia pure senz’alcun orizzonte temporale definito, è quella di giungere in Iraq a una situazione in cui le truppe americane possano stazionare sulla base di un accordo bilaterale che dovrebbe operare a partire dalla fine di quest’anno, alla scadenza del mandato attribuito agli Stati Uniti dall’ONU.

Un accordo di questo tipo è compatibile sia con la prosecuzione di violenze in cui siano comunque coinvolte le truppe americane, sia con un crescente livello di normalità. Quest’ultima condizione potrà essere raggiunta solo nel quadro di un lungo e faticoso processo negoziale con i diversi protagonisti e nel contesto di un accordo più vasto che affronti le maggiori questioni dell’area. Se queste rimarranno irrisolte, esisteranno sempre soggetti in grado di impedire o quantomeno di ostacolare seriamente la pacificazione dell’Iraq.

Il rapporto con l’Iran

Nel contesto regionale, il ruolo di protagonista spetta senza dubbio all’Iran, i cui rapporti con gli Stati Uniti sono stati storicamente assai complessi durante la seconda metà del secolo scorso. Dall’iniziale, stretta solidarietà con il regime dello scià si è passati alla irriducibile avversità nei confronti della repubblica islamica nata dalla rivoluzione del 1979. Ma, come ai tempi dello scià non erano mancati contrasti anche gravi tra i due paesi, così durante il periodo successivo, nonostante la perdurante assenza di relazioni diplomatiche, i contatti e le convergenze non si sono mai interrotti, assumendo anche dimensioni assai rilevanti come quando, durante l’Amministrazione Reagan, gli Stati Uniti fornivano armi alla repubblica islamica per ottenere i fondi occorrenti a finanziare la guerriglia antisandinista in Nicaragua. Già in quell’occasione, un fondamentale ruolo di impulso e di mediazione nei rapporti tra Iran e Stati Uniti era esercitato da Israele, anche esso privo di relazioni diplomatiche con l’Iran e, soprattutto, bersaglio costante della propaganda antisionista del regime clericale, a questo necessaria per mantenere un collegamento con le masse arabe islamiche sciite e sunnite.

La fornitura di armi (generalmente americane) all’Iran da parte degli israeliani doveva continuare per tutta la durata della guerra irano-irachena dal 1980 al 1988 e questo singolare e clandestino rapporto era destinato a prolungarsi anche successivamente.

Fin dai tempi di Ben Gurion, di fronte all’irrimediabilità del conflitto con gli arabi, i dirigenti israeliani avevano sviluppato una teoria in base alla quale lo Stato ebraico doveva mantenere rapporti privilegiati con i paesi non arabi della periferia dell’area, e segnatamente con la Turchia e l’Iran. Questo orientamento diplomatico israeliano doveva subire un grave appannamento negli anni Novanta, dalla conferenza di Madrid (dalla quale gli Stati Uniti vollero escludere il regime iraniano) agli accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi: i governi laburisti tesero in quella fase a privilegiare i rapporti con gli arabi per giungere alla pace in Palestina, riducendo l’importanza delle relazioni con i paesi della periferia. Con la crisi del processo di pace e con il ritorno del Likud al governo d’Israele, il precedente orientamento diplomatico riprese vigore, pur se l’indebolimento del regime baathista in Iraq dopo al guerra del Golfo già ne riduceva sensibilmente l’importanza.

Dal canto suo, la repubblica islamica se continuava ad alimentare costantemente la propaganda antisionista tendeva anche a perpetuare la linea di fondo della diplomazia iraniana fino dai tempi dello scià, volta a ottenere la diffusa accettazione dello status di potenza regionale mediorientale. In questa visione, e al di là della contrapposizione propagandistica, Israele era una pedina essenziale per il riconoscimento di questa realtà da parte degli Stati Uniti, che nello stesso periodo venivano confermando la propria stabile presenza militare e la propria egemonia nella regione.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 dovevano incidere profondamente su questo complesso di rapporti. Inizialmente, l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan contro al Qaeda e il regime talebano, faceva emergere una proficua collaborazione diplomatica tra Stati Uniti e Iran, e apriva una serrata competizione tra Israele e Iran per ottenere l’appoggio americano alle proprie aspirazioni di egemonia regionale: bruscamente si accendeva un aspro conflitto propagandistico che poneva fine alle precedenti intese clandestine. Ormai gli israeliani percepivano l’Iran come la principale minaccia alla propria condizione di potenza regionale egemone, visto anche il durevole e sostanziale indebolimento dell’Iraq baathista. Per questo motivo, Israele ha subìto piuttosto che caldeggiato l’invasione americana dell’Iraq, che appariva un diversivo rispetto all’obiettivo principale di con-tenere la repubblica islamica. Così, anche la destra israeliana rinunciava alla teoria della periferia.

L’Iran, a sua volta, con la sconfitta di Saddam, si trovava a essere completamente accerchiato dal “grande Satana” americano o direttamente (con la presenza militare nel Golfo, in Iraq e in Afghanistan) o indirettamente (tramite gli alleati turchi e pakistani). Si comprende così come nella primavera del 2003, appena terminate le ostilità in Iraq, il governo Khatami, con l’approvazione della “guida della rivoluzione” Khamenei, abbia proposto agli Stati Uniti una piattaforma negoziale complessiva (tramite l’ambasciatore svizzero a Tehran che li rappresentava e continua a rappresentarli). La proposta comprendeva il riconoscimento della soluzione dei due Stati in Palestina o, come aveva già riconosciuto a suo tempo Khomeini, di qualsiasi altra soluzione gradita ai palestinesi e anche un serio negoziato sui programmi nucleari dell’Iran.5

Con grave scorno del regime iraniano, l’iniziativa rimase senza risposta. Da allora, grazie anche alla sconfitta elettorale dei riformisti e all’avvento dell’estremismo di Ahmadinejad, i toni propagandistici si sono fatti infuocati, focalizzandosi da parte iraniana sul tema dell’inaccettabilità dell’esistenza d’Israele per tutto l’Islam e giungendo sciaguratamente fino alla negazione della Shoah.6 Gli Stati Uniti hanno invece posto l’accento sui programmi nucleari iraniani, a proposito dei quali tuttavia sussistono incertezze relative alle loro implicazioni militari, ricevendo in questo il deciso appoggio israeliano.

Si comprende così il crescente appoggio iraniano agli sciiti libanesi e al loro movimento, l’Hezbollah, e a quelli del sud dell’Iraq soggetti all’occupazione americana. In questo modo, l’Iran cessava, almeno in parte, di essere “periferia” e veniva a disporre di strumenti d’intervento nel cuore del conflitto israelo-palestinese, soprattutto attraverso l’Hezbollah che, resistendo all’offensiva israeliana del 2006, ha assunto in Libano un peso determinante, come dimostrano gli eventi dello scorso maggio.

D’altro canto, il quadro della situazione irachena delineato all’inizio lascia pochi dubbi sull’influenza determinante che, attraverso le divisioni e le mosse tattiche dei gruppi sciiti, l’Iran può esercitare sull’andamento del conflitto e, quindi, sulla gravosità dell’ impegno militare degli Stati Uniti in Mesopotamia.

Il quadro complessivo mediorientale

A questo punto, è possibile fornire una spiegazione plausibile all’intervento americano in Iraq, al di là degli obiettivi di volta in volta illustrati: si è trattato di una forma di iper-reazione alla minaccia reale rappresentata dal terrorismo islamico.

Nella logica neoconservatrice, gli interventi in Afghanistan e in Iraq sono componenti di una più vasta strategia volta a eliminare, politicamente o militarmente, tutti i governi mediorientali ostili agli Stati Uniti, rispondendo alla minaccia terroristica per affermare stabilmente in Medio Oriente la propria egemonia diretta o, eventualmente, esercitandola tramite Israele.

Da ciò consegue che il prossimo regime da sconfiggere dovrebbe essere quello iraniano.

Ma, a parte le enormi difficoltà politiche e militari di perseguire un obiettivo del genere, è abbastanza chiaro che il gioco non vale la candela: la complessità della situazione mediorientale esclude ogni soluzione diversa dalla paziente e durevole ricerca di accordi politici, bilaterali o multilaterali, che conducano all’accettazione generalizzata da parte dei protagonisti locali dell’importanza fondamentale che la regione ha per gli Stati Uniti e, da parte di questi, al riconoscimento dell’impossibilità di modificarne stabilmente l’assetto e le tradizioni se non nella lunga durata.

La rivalità tra Israele e Iran – nella quale è in gioco non già l’esistenza di uno dei due contendenti, come potrebbe apparire dagli scambi propagandistici, ma soltanto l’egemonia regionale – può anzi costituire un buon filo conduttore per valutare i problemi della politica mediorientale degli Stati Uniti, vale a dire di buona parte della loro politica estera. I problemi di Israele sono legati prevalentemente alla questione palestinese, la cui gravità è giunta a un livello tale da porre in discussione la sola possibile soluzione di medio periodo, quella fondata sull’esistenza di due Stati sovrani e pacificati, seppur di diversa potenza. Non mancano certo i sintomi di un possibile avvicinamento tra l’Iran e il movimento integralista sunnita di Hamas, assediato a Gaza in un processo che, continuando invariato, è destinato ad accentuare la radicalizzazione dello scontro. Ma i problemi posti da Hamas, più che l’Iran, riguardano i rapporti inter-arabi e in particolare l’Egitto, ove il regime di Mubarak non può essere eterno e ove incombe la minaccia della Fratellanza musulmana, della quale Hamas è diretta filiazione. Per questo è assai più probabile che gli sforzi iraniani si concentrino più sull’Hezbollah e sul Libano. Qui, fra l’altro, possono godere anche dell’appoggio della Siria, interessata non soltanto al recupero del Golan, ma anche a mantenere una certa influenza nel paese dei cedri, come del resto la comunità internazionale aveva riconosciuto per i tre lustri successivi alla guerra civile libanese.

Per gli Stati Uniti è dunque indispensabile e urgente il rilancio del processo di pace in Palestina, nonostante l’ormai evidente fallimento dello sforzo avviato lo scorso anno ad Annapolis. Si tratta, tuttavia, di un obiettivo che, ormai, sembra fuori portata per la declinante Amministrazione Bush, ma non per quella del futuro presidente, se riuscirà a sottrarsi alle pressioni della destra americana e dell’attuale governo israeliano.

Quella irachena è l’altra questione fondamentale che gli Stati Uniti devono affrontare non tanto nei termini, peraltro inevitabili, di un ritiro delle loro truppe, ma anche e soprattutto di un diverso approccio nei confronti dell’Iran. Questo detiene la chiave dei rapporti tra le comunità etniche irachene, che è il fattore decisivo dell’evoluzione politica in Mesopotamia e, più generalmente, in tutto lo scacchiere. Non si può dimenticare, infatti, che in Iraq si gioca anche la questione del popolo curdo, le cui aspirazioni non possono essere eternamente ignorate dalla comunità internazionale. Si tratta di una partita in cui sono coinvolte anche la Turchia e lo stesso Iran e che è potenzialmente dirompente. Né è pensabile, a meno di non immaginare la trasformazione dell’egemonia americana in un vero e proprio impero di tipo t r a d i z i o n a l e , che gli Stati Uniti vogliano approfondire e sfruttare ai propri fini la contrapposizione tra le due principali confessioni islamiche, che si è manifestata drammaticamente nel corso della vicenda irachena. Una politica di questo genere non solo finirebbe per destabilizzare l’intera area del Golfo e anche alcuni tra i maggiori paesi arabi alleati degli Stati Uniti, ma darebbe anche un forte impulso alla visione califfale del panarabismo che sembra essere il principale messaggio politico di al Qaeda, cioè dell’organizzazione che con il suo terrorismo ha fornito alla destra americana la giustificazione del proprio ideologismo.

Infine, l’andamento della situazione in Afghanistan non è certo incoraggiante per gli Stati Uniti e per la coalizione che li appoggia, tanto più che la stabilità del Pakistan di Musharraf, il principale alleato degli Stati Uniti, non è certamente molto sicura per fronteggiare la minaccia di un ritorno in forze del regime talebano. Anche su questo versante la soluzione non può essere che politica. Anche se il regime iraniano è una teocrazia autoritaria e brutale, non è possibile continuare a considerare il nazionalismo persiano soltanto come espressione di chierici impazziti; è invece necessario riconoscere all’Iran il ruolo di potenza regionale, coinvolgendola per quanto possibile nel processo di stabilizzazione mediorientale. Anche la questione dei progetti nucleari iraniani può essere affrontata in un contesto negoziale serio, che tenga inoltre conto dello status di potenza nucleare di Israele, tanto più che in questo campo esistono norme e procedure consolidate che consentono alla comunità internazionale di far rispettare con chiarezza le regole di diffusione delle tecnologie nucleari.

Il rapido excursus delle complessità mediorientali è sufficiente a dimostrare il fallimento della politica mediorientale delle Amministrazioni Bush.

Questo è apparso evidente anchenell’ultimo, recente viaggio di G. W. Bush nella regione, durante il quale il presidente ha nuovamente ribadito il permanente e acritico sostegno alle posizioni dell’attuale governo israeliano e addirittura condannato ogni ipotesi di trattativa con l’Iran, smentendo fra l’altro la posizione espressa pochi giorni prima dal suo segretario alla Difesa, favorevole a un efficace negoziato con Teheran. Ma il dato principale della situazione è l’inanità dell’approccio unilaterale ed esclusivamente militare che, oltretutto, non può continuare a lungo: nelle attuali condizioni d’impegno e di organizzazione, le risorse degli Stati Uniti stanno giungendo ai loro limiti. Il fatto è che, proseguendo nella linea attuale, la coperta americana si farà sempre più corta, con gravi conseguenze non solo per i popoli mediorientali, ma anche per gli stessi Stati Uniti e per l’intera comunità internazionale.

[1] Cfr. R. Draper, Dead Certain. The Presidency of George W. Bush, Simon & Schuster, New York 2007, pp. 192-96.

[2] Si veda a questo proposito la prefazione a J. E. Stiglitz, L. J. Bilmes, The Three Trillion Dollar War. The True Cost of the Iraq Conflict, W. W. Norton & Company, New York-Londra 2008, pp. IX-XX.

[3] Il dibattito nella commissione Difesa del Senato è consultabile alla pagina: www.washingtonpost.com/wp-srv/politics/ documents/Iraq_hearing_040808.html.

[4] Nel 2005 Gary Rosen ha raccolto in un volume una serie di saggi di diversi esponenti della destra americana e che costituiscono una silloge delle teorie che hanno influito sulla politica internazionale delle Amministrazioni Bush. In essa sono illustrate anche le differenziazioni all’interno di quell’orientamento politico, con i realisti alla Kissinger e i neoconservatori più intransigenti come Norman Podhoretz e quelli ancor più legati all’isolazionismo come Pat Buchanan. Cfr. G. Rosen (a cura di), The Right War. The Conservative Debate on Iraq, Cambridge University Press, Cambridge e New York 2005. Per il saggio di N. Podhoretz si vedano le pagine 102-170. È interessante osservare che, nella sua ammirazione per Bush jr. Podhoretz lo paragoni ripetutamente a Harry S. Truman, che lo segue immediatamente nella classifica dei presidenti meno popolari alla fine del loro mandato. Vero è che l’impopolarità di Truman era legata alla sua resistenza nei confronti delle pressioni della destra repubblicana, mentre quella di G. W. Bush dipende dall’eccesso di condiscendenza verso le stesse pressioni.

[5] Cfr. T. Parsi, Treacherous Alliance. The Secret Dealings of Israel, Iran and the U.S., Yale University Press, New Haven- Londra 2007, pp. 243-57.

[6] Tuttavia, come notava di recente il premier israeliano Olmert a proposito della retorica di Ahmadinejad: «Dobbiamo ascoltarlo: ma questo non significa che dobbiamo credere a tutto quello che dice» (si veda l’intervista di Olmert al “Washington Post” dell’8 maggio 2008).