L'Italia e la protezione internazionale dei diritti umani. Un rapporto problematico

Written by Antonio Marchesi Thursday, 26 June 2008 19:01 Print
Nel nostro paese non si è ancora affermata un’autentica cultura dei diritti umani. In particolare, a sessant’anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non vi è ancora piena consapevolezza del significato, della portata, delle implicazioni che una partecipazione piena al sistema internazionale di protezione dei diritti umani comporta. Gli obblighi di prevenzione e repressione della tortura, assai più impegnativi di quel che comunemente si ritiene, sono stati attuati in maniera inadeguata.
È tempo di rafforzare nella società e nelle istituzioni italiane la cultura dei diritti umani e di elaborare sul tema una politica che sia finalmente continuativa e coerente.

È ancora diffuso nel nostro paese, nei confronti del sistema di protezione internazionale dei diritti umani, un atteggiamento che può essere così riassunto: partendo dal presupposto che «siamo pur sempre la culla del diritto», la decisione di ratificare gli accordi internazionali in materia di diritti umani è una scelta poco impegnativa, visto che siamo e continueremo a essere comunque “in regola”; e ancora, «il problema dei diritti umani riguarda, in fondo, paesi meno sviluppati del nostro», mentre noi ne siamo appena “sfiorati” (le espressioni citate, pur non essendo attribuite a qualcuno in particolare, sono state ascoltate da chi scrive in più di un’occasione pubblica).

Si tratta di un atteggiamento sbagliato che, a sessant’anni dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (e dalla svolta epocale nel modo di intendere i rapporti fra lo Stato e le persone soggette al potere di quest’ultimo che a quell’atto è dovuta), suggerisce quanto sia ancora difficile l’affermazione di un’autentica cultura dei diritti umani nella società e nelle istituzioni italiane. Della protezione internazionale dei diritti umani, di quel fenomeno che nasce – appunto – con la Dichiarazione del 1948 e che tanta strada ha fatto nei sei decenni successivi, solo una minoranza, al di là delle frequenti invocazioni e delle celebrazioni inutilmente retoriche, pare comprendere pienamente il significato, la portata, le implicazioni. Le norme internazionali sui diritti umani non sono parte integrante del bagaglio culturale delle professioni legali, non sono state metabolizzate dalla pubblica amministrazione, e la loro attuazione è per lo più assente dai programmi politici. Si prenderanno qui in esame due esempi di questo diffuso fraintendimento circa la natura e il contenuto degli obblighi internazionali in materia di diritti umani che pare caratterizzare l’atteggiamento italiano. Preliminarmente, tuttavia, è bene chiarire quale sia il lascito della Dichiarazione universale, il cui significato tende a sfuggire a buona parte delle istituzioni e delle forze politiche e sociali del nostro paese.

Innanzitutto, con la Dichiarazione universale a nascere è l’idea stessa del riconoscimento internazionale dei diritti umani, che ha portato gli Stati a impegnarsi, ciascuno nei confronti di tutti gli altri, a rispettare i diritti fondamentali di ognuno, avendo rinunciato a godere di una libertà di scelta – che un tempo era pressoché illimitata – in ordine al trattamento da riservare agli individui soggetti alla propria giurisdizione. Su queste premesse, tra le altre, si sono volute ricostruire, dopo le tragedie e le devastazioni non solo materiali della seconda guerra mondiale, le basi di un nuovo ordine internazionale.

In secondo luogo, l’idea del riconoscimento internazionale dei diritti umani – la cui nascita è dovuta a un documento di natura politica quale è la Dichiarazione del 1948, ma che negli anni successivi si è tradotta in una serie di norme giuridiche vincolanti (la fitta rete dei trattati adottati a livello universale e regionale in materia di diritti umani) – ha un importante corollario: la previsione di un sistema di controlli (e, nel quadro del Consiglio d’Europa, anche di garanzie di tipo giurisdizionale) sul rispetto degli obblighi internazionali.

Ogni Stato è tenuto non soltanto a onorare gli impegni, ma altresì a rendere conto, di fronte agli organi internazionali competenti, del modo in cui gli impegni assunti vengono attuati. Ogni Stato che sia parte del sistema è, in altre parole, tenuto ad aprirsi ai controlli esterni e a collaborare in buona fede con gli organi incaricati di vigilare sul rispetto dei principi accolti. Ed è tenuto a dotarsi di meccanismi statali che assicurino l’adeguamento del proprio ordinamento giuridico (un adeguamento per quanto possibile completo e tempestivo) agli atti – sentenze, risoluzioni, raccomandazioni – degli organi di garanzia.

Infine, la nozione di riconoscimento internazionale dei diritti umani e il suo corollario in fatto di garanzie si completano e si comprendono appieno alla luce della dinamicità che caratterizza il sistema internazionale di tutela. Poiché, sia a livello universale che regionale, non ci si è limitati a fissare regole di comportamento, ma sono state altresì create istituzioni a cui è stato affidato il compito di interpretare al passo coi tempi le norme e gestire procedure di garanzia del loro rispetto, il contenuto degli impegni assunti è inevitabilmente in continua trasformazione. Sono le norme internazionali così come interpretate, specificate e precisate dagli organi di garanzia a dover essere rispettate. La ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo o del Patto internazionale sui diritti civili e politici comporta l’impegno a rispettare non tanto gli enunciati assai sintetici – e suscettibili per questo di assumere molti e diversi significati – che quegli strumenti contengono, quanto le regole che nascono dall’interpretazione che di quegli enunciati formulano, con riferimento ai casi concreti loro posti, rispettivamente il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite e la Corte europea dei diritti dell’uomo.

Si aggiunga che certi accordi sui diritti umani particolarmente evoluti, come la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, contemplano anche norme scritte assai articolate e specifiche in ordine al modo in cui gli Stati parti devono adoperarsi per prevenire e reprimere alcune violazioni particolarmente gravi. E che tali norme vengono poi ulteriormente sviluppate, a loro volta, nella prassi (come ad esempio nel caso del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura).

Un effetto particolarmente importante di questi sviluppi – in particolare dell’attività interpretativa delle corti e dei comitati che formano l’apparato internazionale di garanzia dei diritti umani, nonché della formulazione, nell’ambito di alcuni accordi più avanzati, di regole di comportamento precise – è che gli obblighi che s’impongono in materia di diritti umani non sono semplicemente degli obblighi di non fare, di astensione da certe pratiche generalmente considerate inaccettabili, come un’interpretazione restrittiva (e superficiale) potrebbe e vorrebbe far ritenere. Al contrario, agli Stati s’impone un insieme, in continuo aggiornamento, di obblighi di fare, di costruire un sistema efficace di prevenzione e repressione delle violazioni dei diritti umani; e di introdurre, a tal fine, modifiche anche significative alle norme interne e alle prassi amministrative. È soprattutto di fronte a questo compito impegnativo che l’Italia appare spesso impreparata.

Vent’anni fa – ci viene in aiuto un altro anniversario – veniva approvata una legge, la 498 del 1988, di ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura; cui seguì, un paio di mesi dopo, il deposito dello strumento di ratifica dell’Italia.

L’articolo 4.1 di quella Convenzione impone un obbligo di prevedere la tortura come reato. Se in un primo momento potevano sussistere dubbi in ordine alla necessità, per rispettare adeguatamente l’impegno preso, di introdurre un reato distinto, specifico, di tortura – e non semplicemente di “coprire” mediante reati generici (lesioni, minacce, o altri) fatti costituenti tortura secondo la definizione contenuta nella stessa Convenzione – quel dubbio è stato ormai fugato dal Comitato contro la tortura, che ha ripetutamente invitato l’Italia (restando finora inascoltato) ad integrare in tal senso il proprio codice penale.

Le ragioni sostanziali che sono alla base di tale invito (al di là del fatto ovvio che gli impegni presi vanno rispettati) sono diverse e convincenti. Innanzitutto – l’osservazione è banale ma assume un valore specifico in questo contesto – è bene chiamare le cose con il loro nome. Uno degli ostacoli principali che incontra l’azione internazionale per lo sradicamento, ovunque, del fenomeno della tortura è infatti quello degli eufemismi. Sono unanimi i rappresentanti degli Stati chiamati a rispondere dell’accusa di praticare la tortura nel ribadire che questa è vietata in maniera assoluta dal diritto e inaccettabile dal punto di vista morale e politico. I fatti di cui lo Stato in questione viene accusato, però, quando non è possibile negarli o ridimensionarne la portata scaricandone la respon- sabilità su poche “mele marce”, vengono in genere descritti con espressioni alternative, derubricati a violazioni minori. «Meri abusi» è l’espressione impiegata da Rumsfeld dopo le rivelazioni sulle torture compiute ad Abu Ghraib. Perché allora assecondare questa tendenza sempre più diffusa ad aggirare il divieto giocando cinicamente con le parole? Perché non accettare realisticamente l’ipotesi che possa essere compiuto anche nel nostro paese l’odioso reato di tortura? La rimozione è certo la meno indicata fra le soluzioni di un problema che esiste anche nei sistemi democratici. Quello di contrastare la sottovalutazione, di cui l’inclusione della tortura fra i reati di ordinaria amministrazione è una forma evidente, è del resto obiettivo dichiarato della stessa Convenzione. La previsione di un reato specifico di tortura è, per di più, l’elemento centrale attorno al quale ruota buona parte delle norme convenzionali, al punto che la sua mancanza ne rende di fatto impossibile un’attuazione adeguata. Ad esempio, la copertura mediante reati generici si traduce inevitabilmente nella previsione di una pena che non è, come prevede che sia l’articolo 4.2 della Convenzione, adeguata alla gravità del reato;1 una previsione di pena lieve porta a sua volta con sé, quantomeno nel nostro ordinamento giuridico, termini prescrizionali brevi; e questi, in presenza di tempi processuali lunghi, possono tradursi in impunità vera e propria. È quanto rischia di accadere nell’ambito del processo per i fatti – gravissimi – accaduti nel 2001 nella caserma di Bolzaneto. Sono gli stessi pubblici ministeri a spiegare, nella loro requisitoria, come la mancata previsione di un reato specifico li abbia costretti a fare riferimento, per comportamenti descritti come “inumani e degradanti”, a reati minori quali l’abuso d’ufficio (che si prescriveranno già nel 2009).

L’assenza di un reato specifico finisce poi con l’annullare l’unico elemento (almeno teoricamente) positivo dell’attuazione della Convenzione contro la tortura nel nostro ordinamento. La legge 498 del 1988, di cui si è detto in precedenza, contiene infatti una norma mediante la quale si amplia, per l’ipotesi della tortura, la giurisdizione penale del giudice italiano a: a) fatti commessi da cittadini italiani all’estero; b) fatti commessi da cittadini stranieri all’estero contro cittadini italiani; c) fatti commessi da cittadini stranieri purché siano presenti sul territorio italiano (e l’Italia non scelga di accogliere piuttosto una richiesta di estradizione proveniente da un altro Stato). Questa norma assai ambiziosa di adeguamento all’articolo 5 della Convenzione, nella quale si prevede per la tortura il criterio della giurisdizione penale universale, è però risultata del tutto inapplicabile dal momento che manca la fattispecie di reato cui riferirla. Si è accettato in sostanza di qualificare la tortura come delictum juris gentium, ossia come crimine lesivo di valori condivisi da tutta la comunità internazionale, categoria di reati a cui la giurisdizione universale è in qualche modo riservata, senza tuttavia prevederla come fattispecie autonoma.

In breve, a vent’anni di distanza dalla ratifica della Convenzione contro la tortura, l’Italia non ha onorato gli impegni assunti. La circostanza che ciò sia forse dovuto più a mancanza di consapevolezza del contenuto e del carattere di tali impegni che a una precisa volontà di non adempiere non è certo motivo di minore preoccupazione, dal momento che conferma quanto sostenuto in apertura a proposito della mancanza nel nostro paese di una autentica cultura dei diritti umani.

Oltre che dall’annosa questione della mancata previsione di un reato ad hoc,2 il rapporto problematico del nostro sistema con le norme internazionali sulla tortura è bene illustrato da una vicenda recente che mette in relazione gli obblighi di prevenzione della tortura con il dibattito in tema di espulsioni. Com’è (o dovrebbe essere) noto, alla libertà piuttosto ampia degli Stati di espellere gli stranieri che si trovino sul proprio territorio il diritto internazionale impone alcuni limiti ben precisi: fra i limiti di carattere generale ve n’è uno che deriva dal principio di non refoulement, originariamente previsto dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e divenuto in seguito un elemento portante del diritto internazionale dei diritti umani.

Nel febbraio 2008, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha applicato tale principio nell’ambito di una sentenza relativa al nostro paese, la sentenza Saadi, alla quale la stampa ha riservato pochissima attenzione. I giudici di Strasburgo hanno dato ragione al ricorrente, un cittadino tunisino, il quale sosteneva che, qualora fosse stato eseguito il provvedimento di espulsione emesso nei suoi confronti dalle autorità italiane, l’Italia avrebbe violato l’arti- colo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, secondo una giurisprudenza consolidata, implica il divieto di rimpatriare chi rischia di essere sottoposto a torture una volta giunto a destinazione. Del caso, della cui complessità non è possibile dare conto in questa sede, si vogliono sottolineare due aspetti, uno di carattere generale, l’altro più specifico.

Il primo riguarda la tesi, portata avanti in origine dal Regno Unito e sposata in questa occasione dall’Italia, secondo cui sarebbe possibile, pur in presenza di diritti assoluti quale è il diritto a non subire torture, operare un bilanciamento fra il rispetto di questi ultimi, da un lato, e le esigenze di tutela della sicurezza della collettività, dall’altro. La Corte ha chiarito che «non è possibile bilanciare il rischio di maltrattamenti contro le ragioni in favore dell’espulsione», aggiungendo che «i concetti di ‘rischio’ [di subire torture] e di ‘pericolosità’ [dell’espellendo] in questo contesto non si prestano a un balancing test, essendo nozioni che possono essere valutate solo in modo indipendente l’una dall’altra. La circostanza – prosegue la Corte – che questa possa rappresentare una minaccia per la comunità se non viene rimpatriata non riduce in alcun modo il grado di rischio di maltrattamento della persona una volta espulsa».

La conseguenza immediata di queste precisazioni è che la lunga spiegazione offerta dall’agente italiano in ordine alla presunta pericolosità di Saadi risulta, nel caso di specie, irrilevante. Il messaggio di fondo, invece, è che nessun argomento può giustificare la sospensione del godimento di uno di quei diritti, fra i quali figura il diritto a non subire torture, che nella Convenzione europea vengono qualificati come diritti inderogabili (anche con riferimento all’ipotesi della protezione indiretta di coloro che rischiano di essere vittime di una violazione in conseguenza dell’espulsione e dell’estradizione verso un altro Stato).

Il secondo punto riguarda invece il valore da attribuire alle assicurazioni eventualmente fornite dallo Stato di destinazione sul fatto che non verrà praticata la tortura nei confronti dell’espellendo. L’idea di chiedere assicurazioni in tal senso è mutuata dalla prassi di molti Stati abolizionisti di chiedere garanzie che non verrà applicata la pena di morte quale condizione per l’accoglimento di richieste di estradizione per reati capitali. Si tralascia, però, una differenza fondamentale. La pena di morte è dagli Stati mantenitori prevista per legge, la scelta di mantenerla essendo difesa pubblicamente e giudicata non in contrasto con le norme internazionali sui diritti umani. Tale circostanza comporta che sia ben possibile che la promessa di non applicarla in un caso specifico venga rispettata (e di fatto in genere lo è). Gli Stati che praticano la tortura, invece, essendo questa oggetto di un divieto assoluto, ovviamente negano di praticarla. E nel momento in cui vengono invitati a offrire assicurazioni che non la praticheranno in un caso specifico, risponderanno – come hanno fatto le autorità tunisine sollecitate dall’Italia – che la tortura è vietata dalle proprie leggi e che non viene praticata affatto; solo eventualmente aggiungendo che, «come conseguenza di tale ripudio generale», questa non verrà praticata neppure nel caso specifico. Non essendo, però, veritiera l’affermazione generale, non si vede come sia possibile dare credito alle assicurazioni eventualmente fornite con riferimento al caso specifico.

Si aggiunga che l’Italia è uno dei pochi Stati abolizionisti ad aver abbandonato, nel 1996, la prassi della richiesta di assicurazioni con riferimento all’ipotesi della pena di morte (in favore della prassi del rifiuto tout court dell’estradizione per reati punibili con la pena di morte). La Corte costituzionale ha ritenuto infatti che il meccanismo della richiesta, e della valutazione di affidabilità caso per caso, di assicurazioni diplomatiche non fosse garanzia sufficiente a fronte della possibile compressione di un diritto fondamentale quale il diritto alla vita.3 Se, dunque, con riferimento all’ipotesi della pena di morte – rispetto alla quale, per le ragioni indicate poc’anzi, è quantomeno difendibile (tanto che continua ad essere utilizzato dalla maggioranza degli Stati abolizionisti) – il meccanismo delle assicurazioni diplomatiche è stato giudicato contrario alla nostra Costituzione, è a dir poco incoerente invocarlo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento all’ipotesi della tortura.

In sintesi, l’atteggiamento italiano – che rispetto a entrambe le questioni evidenziate (quella del bilanciamento con la sicurezza e quella delle assicurazioni diplomatiche) pare essere cambiato in funzione dell’esigenza di avanzare una difesa nel caso specifico – risulta anche da questo secondo esempio caratterizzato più da ciò che è utile al mo- mento, anche a costo del sacrificio di posizioni più ragionate assunte in precedenza, che da una visione complessiva.

Non è questa la sede per ricostruire la storia dell’atteggiamento italiano a fronte dello sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani a partire dalla Dichiarazione universale del 1948. Questa storia, che va ben oltre il profilo degli obblighi in materia di tortura, vede l’alternarsi di alcuni episodi felici (come l’iniziativa di presentare in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite una risoluzione che invita a stabilire una moratoria delle esecuzioni capitali) e di altri assai poco edificanti (si pensi alla parabola della Corte penale internazionale).4 L’Italia, del resto, non è certo l’unico paese, e nemmeno l’unico paese democratico, ad avere un rapporto talvolta difficile con il sistema internazionale di protezione dei diritti umani. Il divario tuttora esistente fra l’obiettivo di una partecipazione pienamente soddisfacente a tale sistema – che non si proponga unicamente di salvare le apparenze – da una parte, e l’atteggiamento tuttora prevalente nel nostro paese, dall’altra, è tuttavia notevole (gli esempi addotti ne danno un’idea). La speranza è che una riflessione seria, possibilmente non condizionata unicamente dall’emergenza di turno, possa rafforzare la cultura dei diritti umani nella società e nelle istituzioni italiane e che si pongano le basi per l’elaborazione di una politica dei diritti umani che sia finalmente continuativa e coerente.

[1] «Frammenti sparsi della definizione di tortura; reati per lo più minori, puniti con pene leggere»: così i reati che secondo il governo italiano avrebbero “coperto” l’ipotesi della tortura sono stati descritti qualche anno fa dal rapporteur sull’Italia del Comitato ONU contro la tortura, Gil Lavedra (Committee against Torture, CAT/C/SR. 214, n. 19).

[2] Per un esame più approfondito della questione ci permettiamo di rinviare a A. Marchesi, Implementing the UN Convention Definition of Torture in National Criminal law (with Reference to the Special Case of Italy), in “Journal of International Criminal Justice”, 6/2008, Oxford University Press, Oxford 2008, pp.195-214.

[3] Sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 27 giugno 1996.

[4] Da un impegno importante per la sua istituzione, che ci ha visti ospitare la Conferenza diplomatica nella quale è stato adottato lo Statuto “di Roma” della Corte penale internazionale, si è giunti alla situazione attuale, che ci vede praticamente unici in Europa a non avere introdotto una legislazione di attuazione di quello Statuto.