Etica laica della scienza e falsi argomenti

Written by Carlo Flamigni Tuesday, 01 April 2003 02:00 Print

Il primo problema che la scienza deve risolvere oggi riguarda la prevalenza, sempre più evidente, della ricerca scientifica post-accademica, quella finanziata dall’industria, dalla quale dipende una conoscenza non sempre basata sull’oggettività, non sempre fondata sul disinteresse personale, sul comunitarismo, sull’universalismo e sullo scetticismo organizzato, cioè sugli imperativi istituzionali della ricerca scientifica. Questa nuova scienza tende a sottrarre i risultati delle indagini alla proprietà del ricercatore, vietandogli di comunicarli, di analizzarli e di criticarli; stabilisce un rapporto perverso tra ricerca scientifica e mercato; tende a far tracimare le sue regole nel terreno della scienza accademica, condizionando negativamente la credibilità del ricercatore.

 

Il primo problema che la scienza deve risolvere oggi riguarda la prevalenza, sempre più evidente, della ricerca scientifica post-accademica, quella finanziata dall’industria, dalla quale dipende una conoscenza non sempre basata sull’oggettività, non sempre fondata sul disinteresse personale, sul comunitarismo, sull’universalismo e sullo scetticismo organizzato, cioè sugli imperativi istituzionali della ricerca scientifica. Questa nuova scienza tende a sottrarre i risultati delle indagini alla proprietà del ricercatore, vietandogli di comunicarli, di analizzarli e di criticarli; stabilisce un rapporto perverso tra ricerca scientifica e mercato; tende a far tracimare le sue regole nel terreno della scienza accademica, condizionando negativamente la credibilità del ricercatore. Ne può derivare una scienza completamente imbrigliata nelle reti della prassi, in un mosaico che produce una particolare forma di conoscenza che deve essere in accordo con gli interessi finanziari, commerciali, politici e sociali degli enti che la finanziano. Il problema è complesso. La scienza occupa un posto ben preciso nella società ed è una voce importante nel bilancio nazionale, con rapporti di grande rilievo con la medicina, la tecnologia, la legge e la politica.

Difendere la scienza accademica dagli sconfinamenti della ricerca industriale non è dunque solo un problema morale: è un dovere sociale, non assolvendo il quale si consegna la società ad una pseudo-scienza priva di responsabilità, insincera e certamente non virtuosa. Ebbene, delle molte cose che si possono fare per riportare la scienza alla produzione di una conoscenza non interessata e comunque sottoposta al controllo sociale, nessun governo, a mia memoria, si è mai realmente interessato. Se la produzione di una conoscenza originale e utile può essere considerata una ricchezza per tutti, ci si dovrebbe aspettare, da chi amministra il paese, la scelta di una politica capace di consentire la competizione con le strutture che controllano il sapere nel resto del mondo. Non solo nessuno si è mai adoperato in questo senso, ma sono stati fatti concreti tentativi per andare nella direzione opposta. Ignoro se questi passi siano stati fatti per ingenuità o per ignoranza, ma non so se errori di questo genere possano comunque trovare giustificazioni. Ne cito uno per tutti: da qualche tempo si cerca di separare il secondo triennio di medicina dal primo, sottraendolo al controllo dell’Università e ponendolo sotto la tutela (e l’influenza) del ministero della Sanità. Nello stesso senso va interpretata l’ipotesi dei «dipartimenti misti», universitari e ospedalieri, il cui scopo finale sembra quello di ottenere che, ad esempio, un bravo ricercatore medico di un istituto di pediatria si occupi quasi esclusivamente di curare il morbillo. So che lo farebbe molto bene, ma so anche che questo non è lo scopo del suo lavoro. In realtà, la grande competizione che esiste in materia di ricerca applicata esigerebbe l’istituzione di dipartimenti universitari verticali, nei quali le discipline cliniche fossero «schiacciate» su quelle teoriche. Non credo che esista altro modo per ottenere una ricerca scientifica del più alto livello possibile e per evitare che la ricerca accademica venga condizionata dal supporto economico dell’industria farmaceutica. Come già evidenziato, non capire questo principio elementare (che potrebbe anche arrivare alla conseguenza, non così drammatica, di separare attività clinica da attività didattica e di ricerca, togliendo i primariati ospedalieri ai professori universitari) non può essere che la conseguenza di ingenuità, o di scarsa competenza, o peggio: perché non può essere privo di senso il fatto che la proposta sia enormemente piaciuta alle lobbies che, in molte parti d’Italia, hanno l’ultima parola sull’attribuzione dei finanziamenti e sugli impegni economici delle aziende sanitarie, condividendo al massimo questo privilegio con gli amministratori locali della sanità.

Secondo problema. Da molti anni è in atto una discussione, che talora prende toni piuttosto accesi, su chi abbia il diritto di controllare la ricerca scientifica. Ammesso che questo diritto esista. Per esporre la mia opinione, parto da una definizione della scienza, senza la quale non sarebbe possibile discutere con un minimo di ordine: una peculiare istituzione sociale che coinvolge grandi numeri di particolari persone che eseguono con regolarità azioni specifiche coordinate consapevolmente in progetti più vasti (T. Ziman). Ciò significa che i ricercatori godono della più ampia libertà rispetto a quando fare, ma che la loro attività individuale ha significato scientifico soltanto rispetto ad un progetto più vasto e condiviso. Ne deriva che le critiche che la società può muovere ad uno studioso che ha deciso di iniziare una sperimentazione che tutti gli altri ricercatori sconsigliano, non sono in realtà rivolte ad uno scienziato e non hanno niente a che fare con la scienza. Il secondo punto riguarda il fatto che la ricerca scientifica è un’attività umana che non può sottrarsi ai condizionamenti che riguardano tutte le attività dell’uomo: deve avere codici, vincoli, attribuiti. Deve garantire un’efficiente autodisciplina ed essere così trasparente da consentire un equilibrato controllo da parte della società. Se la scienza fosse soltanto un sistema di conoscenze, allora non sarebbe soggetta all’etica, poiché nessuno può porre limiti alla conoscenza. Ma la scienza usa strumenti, per arrivare alla conoscenza, e gli strumenti sono diventati una parte integrante del conoscere. Un controllo da parte della morale sembra dunque diventato inevitabile: è chiaro che a questo punto è necessario chiedersi qual è la morale autorizzata a giudicare la scienza. Ragionando in modo molto elementare, mi sembra che se l’acquisizione di nuove conoscenze è un interesse della collettività, se la scienza opera in favore del benessere e dello sviluppo della società, non si può accettare un controllo che sia affidato alle religioni o alle ideologie. Si può invece prevedere che a condizionare le scelte della ricerca scientifica possa essere chiamata una generale disposizione della coscienza collettiva dell’uomo che chiamerò, per semplicità, la morale di senso comune.

Questa morale, che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo utile ed efficace con la scienza, e pur essendo di per sé molto restia ad accettare i cambiamenti e persino le proposte di cambiamento, ha generalmente ceduto di fronte alle pressioni di quelle che vengono definite «le intuizioni delle conoscenze possibili » perché è riuscita a trovare, al loro interno, indicazioni relative ai vantaggi impliciti e tranquillità nei riguardi dei rischi probabili. Ma l’evoluzione della conoscenza, oggi, è così rapida che le influenze di maggior rilievo sulla morale di senso comune non possono essere affidate a morali ossificate, colme di pregiudizi, incapaci di adattarsi alle nuove proposte in tempi accettabili. È necessario che il rapporto tra morale di senso comune e intuizione delle conoscenze possibili sia mantenuto vivo ed efficace da un’etica non dogmatica, laica, capace insieme di adattarsi al nuovo e di riconoscere tempestivamente gli elementi di mistificazione e di rischio, di non inchiodare la società alla croce di un concetto antistorico di natura, ma di salvaguardare al contempo alcune caratteristiche fondamentali della specie umana. Su questa «etica laica» è stata fatta molta confusione e sono state dette molte cose strane, inclusa la richiesta di non inserirla comunque nei dizionari di filosofia, non so se per le sue contraddizioni o per le sue debolezze, apparentemente dovute alla mancanza di principi. Credo che queste critiche non siano corrette, e ripropongo alcuni concetti del manifesto di etica laica che firmai, con Mori, Massarenti e Petroni, alcuni anni or sono.

Il primo principio della laicità è quello dell’autonomia: tutti gli individui hanno la stessa dignità e non possono esistere autorità superiori che presumano di poter scegliere per gli altri per le questioni che riguardano la vita e la salute. Il secondo principio è quello di garantire il rispetto delle convinzioni religiose di tutti i cittadini, nella convinzione che dalla fede non possano derivare prescrizioni e soluzioni in materia di bioetica, ma senza dimenticare che la dimensione religiosa contribuisce alla formazione di un’etica diffusa. Il terzo principio è quello di garantire ad ogni individuo una qualità di vita quanto più alta possibile, riconoscendo a tutti il diritto di vivere e morire con il minimo di sofferenza possibile e garantendo a tutti l’accesso alle migliori cure mediche possibili, naturalmente in rapporto alle risorse disponibili. Secondo l’etica laica, per fare un riferimento più preciso all’argomento di questo articolo, la legislazione in campo biomedico deve essere guidata dall’idea di lasciare ad ogni studioso la più ampia sfera di decisioni autonome compatibili con l’interesse della collettività. In una società complessa come la nostra, caratterizzata dalla convivenza di molte visioni differenti dell’uomo e della morale, non si può pensare che possa esistere un canone etico a vocazione universale, soprattutto su un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell’uomo. La bioetica laica non è una versione secolarizzata della bioetica religiosa e non vuole rappresentare una nuova ortodossia: tra l’altro, in molte questioni gli stessi laici sono in disaccordo tra loro. La bioetica laica non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse, ma si limita a cercare mediazioni, evitando di trasformare i contrasti in conflitti, considerando peraltro irrinunciabili i valori sufficientemente forti da rappresentare la base per regole di comportamento giuste ed efficaci: l’equità, la libertà della ricerca, l’autonomia delle persone. In questo modo, l’etica laica si può proporre come un metodo utile per affrontare i problemi più complessi, anche quelli apparentemente irrisolvibili, un metodo reso particolarmente utile ed efficace dalla forza dei principi su cui è fondato.

Poiché la sinistra – in genere, e in particolare quella italiana – è stata spesso accusata di essere una sorta di religione, posso capire cosa deve essere passato per la testa di Angelo Petroni quando ha scritto1 che essa è afflitta da un’ideologia antiscientifica, conseguenza di una congenita diffidenza nei confronti della scienza, in quanto impresa per sua natura elitaria e perciò non governabile dalla logica del potere politico democratico (e anche perché il progresso scientifico è uno dei motori fondamentali del capitalismo). Mi viene in mente che in un altro contesto (un documento sul caso Di Bella) lo stesso Petroni ha auspicato «il controllo democratico delle conoscenze scientifiche» e ha affermato che «il percorso della conoscenza ha le stesse regole della democrazia», tutte espressioni che mal si conciliano con l’idea che la scienza sia di per sé elitaria. In realtà, nelle parole di Petroni c’è anche molto di vero. È vera la diffidenza nei confronti dei professori universitari, una diffidenza solo in parte giustificata e che comunque avrebbe, semmai, dovuto sollecitare la sinistra a dare peso e prestigio ai «vassalli». Ed è vera, purtroppo, la connivenza tra certi ambienti politici e alcune cupole universitarie, che hanno formato cupole ancora più grandi, impenetrabili, sedi di traffici e di pasticci innominabili. Ed è altrettanto vero il disinteresse nei confronti della ricerca di base che la sinistra ha dimostrato quando si è trovata al governo. Senza contare l’assoluta mancanza di attenzione nei confronti del reclutamento dei nuovi ricercatori, mai sceso a livelli tanto bassi da quando io ho cominciato a lavorare nell’università. Ma il problema vero, quello che dovrebbe essere oggetto di un dibattito pubblico molto più ampio di quello al quale ho assistito fino ad oggi, è quello che si può definire come «la questione cattolica».

Comincio col citare Carlo Viano: «Sembrava che il regresso delle ideologie totalitarie dovesse far svanire l’ultima minaccia sulla libertà della scienza, e invece le trasformazioni delle scienze biologiche hanno posto fine alla pace tra religione e scienza. Giovanni Paolo II è stato esplicito: finché si tratta di mondo inorganico sta agli scienziati dirci come stanno le cose e la Bibbia può ricevere un’interpretazione figurata, ma quando si tratta del mondo della vita la Chiesa non rinuncia alla credenza che essa dipenda da un’anima, e perciò gli scienziati non possono pretendere di dire l’ultima parola in merito. Oggi le minacce alla libertà della scienza vengono dal fronte religioso, nelle società occidentali dall’integralismo cattolico e dal fondamentalismo protestante, e da ideologie deboli, come il femminismo, il multiculturalismo e l’ambientalismo che, non più favorevoli all’idea di stato totalitario, contestano tuttavia la legittima possibilità per la scienza di porsi qualsiasi domanda, per irrispettosa che sia delle convinzioni di qualcuno, e di mettere alla prova le possibilità di alterare i processi naturali. Finora queste pretese non hanno avuto ospitalità negli ordinamenti giuridici, anche se hanno condizionato il finanziamento delle ricerche perfino in un paese liberale come gli Stati Uniti. In Italia si è profilato l’intervento diretto del braccio politico. Mentre il presidente degli Stati Uniti, personalmente favorevole ai movimenti religiosi di difesa della vita in tutte le sue forme, si è tuttavia pronunciato per la sperimentazione sulle cellule embrionali, il ministro della Sanità dell’attuale governo, che pure ha revocato il divieto indiscriminato della clonazione, ha dichiarato che nella sperimentazione sulle cellule staminali bisogna attenersi ai vincoli dettati dal riconoscimento che gli embrioni sono persone. La classe politica italiana, qualche che sia il suo colore, non sembra affatto disposta a difendere i cittadini dalle imposizioni della Chiesa cattolica e a garantire che le scelte ispirate a credenze religiose non possano essere imposte a chi non le condivide».2 Condivido appieno queste parole come peraltro quello che scrive Antonello La Vergata sulla stessa rivista:

«È in atto, credo, un tentativo di costruire sulle lacerazioni del mondo cattolico e sul dramma dei cattolici non integralisti un blocco culturale antidemocratico e un blocco politico clerico-industriale, in cui gli interessi dell’impresa sono presentati come gli interessi della società tout court, e i valori della tradizione cattolica come i valori costitutivi dell’identità italiana. I liberali tacciono. E così il Papa non solo interviene contro le coppie di fatto, le unioni omosessuali, la fecondazione assistita, l’aborto, l’eutanasia e la clonazione, ma addirittura incita avvocati e giudici all’obiezione di coscienza contro il divorzio. La via italiana al liberalismo sembra passare per il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche. Dunque meglio non disturbare i vescovi impegnati nella comune battaglia contro la “sinistra”. Meglio ancora dire che il liberismo non è antireligioso, ma anzi intrinsecamente religioso, attaccare come “ammuffito” il laicismo di Bobbio, trovare consonanze fra la tradizione liberale e “la libertà morale che Papa Woityla rivendica per la persona umana” e ricordare che “anche i laici hanno un loro Papa: Benedetto Croce”, il quale “in questo dopoguerra è continuamente ritornato sull’età dell’Anticristo nella quale stiamo entrando”.3 E poi si può sempre firmare con la mano sinistra una manifesto di bioetica laica e con la mano destra un “Manifesto per un nuovo ambientalismo, umanista, liberale e cristiano”,4 con enfasi sul concetto di “persona” (un concetto di cui la bioetica cattolica fa un uso militante)».

Ci sono alcuni esempi che evidenziano quanto spesso l’accanimento antiscientifico della religione cattolica sia affidato a persone che non risparmiano nessuno sforzo e che sono disposte a molti compromessi pur di umiliare quello che loro considerano «l’avversario», ignorandone valori e dignità. Come primo esempio riporto la vecchia querelle sulla definizione di fase preembrionale dello sviluppo, sostenuta da molti biologi, nei confronti dei quali vengono indirizzate le critiche più acide e malevole. In effetti, gli embriologi avevano cominciato a dibattere questo problema molti anni or sono: già nel 1930, in alcuni libri di ostetricia americani, si leggeva la proposta di considerare separatamente il pre-embrione (l’embrione non ancora impiantato in utero) e l’embrione (l’embrione dopo l’impianto). Per i tempi più recenti vale la pena di ricordare la relazione della Commissione per la scienza e la tecnologia del Consiglio d’Europa (1988) che propone di utilizzare il termine pre-embrione per il periodo di tempo che va dal concepimento alla conferma della linea primitiva (quattordicesimo giorno). Questa definizione di «fase pre-embrionale» è stata accettata da molti, tanto che la legge spagnola e la legge inglese sulla procreazione medicalmente assistita ne hanno tenuto conto. Rispondendo a chi sostiene che questa definizione rappresenterebbe solo un esercizio di ingegneria linguistica, utile per rendere accettabile al pubblico la ricerca scientifica sull’embrione, R. McCormick, professore di etica cristiana nel dipartimento di teologia della Notre Dame University, ricorda che le intenzioni dell’American Fertility Society nello scegliere questa definizione non hanno niente a che fare con i problemi morali e di ricerca, ma tengono solo conto del fatto che i primi stadi di sviluppo dei mammiferi riguardano la formazione del trofoblasto non embrionale e non dell’embrione. Non ho nessuna intenzione di riportare qui tutta l’enorme bibliografia disponibile sull’esistenza di un fase pre-embrionale. Ma cito alcuni brani da un articolo di Maria Luisa Di Pietro e Angelo Fiori:5 «Una vittima della manipolazione semantica è l’embrione umano. Il neologismo pseudo-scientifico di pre-embrione è stato coniato per consentirne l’impiego a scopi scientifici. Eppure nessun manuale scientifico reca traccia di tale entità». Parlando poi di contraccezione d’emergenza: «Per poter sostenere che la contraccezione d’emergenza non è abortiva è stata necessaria una duplice manipolazione semantica: l’ampliamento del concetto di contraccezione, la ridefinizione del concetto di gravidanza». E ancora, a proposito di clonazione terapeutica: «L’aggettivo terapeutico è la chiave dell’eufemismo semantico abilmente escogitato per bloccare ogni obiezione». Infine, nelle conclusioni: «Preferiremmo che si evitasse il ricorso all’inganno». Dunque, questi due illustri ricercatori e scienziati sembrano avere ben poca fiducia nella moralità e nell’onestà intellettuale di chi la pensa diversamente da loro. Questo atteggiamento ha una sua particolare legittimità, che non desidero discutere. Ma al di là di questo – ed è l’unico punto sul quale voglio esercitare la mia critica, visto che mi serve perfettamente da esempio – è impossibile non sottolineare il fatto che i due autori ignorano completamente la lettura scientifica relativa ai temi che trattano. Il tema del pre-embrione è stato già trattato, e sia chiaro che ho rinunciato a riportare l’opinione di decine e decine di ricercatori e scienziati. Mi limito a ricordare come un gruppo di genetisti e di embriologi, anche cattolici – in risposta a un documento firmato da docenti dell’università di Roma che definisce la vita umana come un continuum che ha nella fase embrionale e nell’invecchiamento l’inizio e la fine del suo percorso naturale, manifestano grandi perplessità –, ricordano come il genoma finale non sia sempre quello presente al concepimento, sottolineano come stabilire l’esistenza di uno stretto collegamento tra genoma e risultato finale significhi abbracciare una teoria scientificamente scorretta, quella del determinismo, e invitano i colleghi romani a rivedere una posizione che contiene, tra l’altro, anche una velata proposta di censura. Quanto alla contraccezione d’emergenza, vorrei che i due autori dell’articolo mi citassero una sola ricerca empirica che dimostri che l’effetto della somministrazione post-coitale di steroidi si esercita sull’impianto. Per quello che so – ma anche i miei riferimenti sono teorici – gli endocrinologi si stanno orientando su un effetto di inibizione dell’ovulazione o su mutamenti strutturali dell’ovocita che impedirebbero la fertilizzazione. Ma, lo ribadisco, non ci sono prove di meccanismi diversi da questi. Quanto poi alla definizione di gravidanza, mi limito a riportare l’opinione della Federazione internazionale di ginecologia e ostetricia (elaborata su richiesta dell’OMS nel 1985) che afferma che si può parlare di gravidanza solo dopo l’annidamento dell’uovo fecondato.

Vediamo ora cosa si può dire della clonazione terapeutica. Il termine è brutto, forse è sbagliato, lo ammetto. Ma non si può ignorare un’ampia bibliografia scientifica che dimostra come sia possibile, variando le condizioni sperimentali, eseguire un trasferimento nucleare e poi evitare la formazione di un embrione dirigendo la nuova cellula verso la produzione di corpi embroidi, o in alternativa, inducendo una aploidizzazione con relativa formazione di un nuovo gamete. Le ricerche si basano su trasferimenti di nuclei diploidi in cellule del trofoblasto in ovociti privati del nucleo, e nessuno ha mai detto che ci possiamo accontentare di questi primi risultati. Ma la ricerca è possibile e i dati riguardanti le sperimentazioni potrebbero trovare conferma negli studi relativi all’uomo. Sono particolarmente interessato al problema dell’ectogenesi – e, perciò, dei cosiddetti uteri artificiali – perché la prima esperienza in questo campo fu portata a termine a Bologna, nel mio istituto, più di dieci anni or sono. La polemica è recente: un gruppo di ricercatori americani ha ottenuto l’impianto di un embrione umano in un sistema che è stato definito – dai giornali specializzati – un «utero artificiale». Conosco da più di vent’anni il medico americano che dirige il gruppo che ha eseguito la ricerca. Per quello che so, la sua intenzione è quella di sperimentare, nei prossimi anni, farmaci che dovrebbero facilitare l’impianto dell’embrione, ragione per cui la possibilità di avere un modello sperimentale utile per questo studio deve averlo impegnato molto. La sua scelta è stata quella di preparare un tessuto adatto su una matrice non biologica: conosco la tecnica, e ho una pubblicazione in corso su di essa su «Fertility and Sterility». Tutto ciò ha ben poco a che fare con l’ectogenesi: in effetti noi non abbiamo nessuna tecnologia che ci permetta di costruire organi, ma possiamo solo preparare tessuti. Non c’è neppure bisogno di dire che per l’ectogenesi ci vuole un utero, non del tessuto uterino. Malgrado ciò, e sebbene molti di noi abbiano cercato di spiegare che l’ectogenesi non c’entrava per niente, l’attenzione dei bioeticisti si è concentrata sul problema del povero bambino nato in una macchina.

Negli ultimi vent’anni, a partire da differenti esperienze, gli psicologi hanno parlato della possibilità che il feto possieda una personalità prima della nascita. Queste supposizioni dovrebbero essere confrontate da vari racconti individuali in ipnosi che hanno ricordato esperienze vissute nel periodo prenatale o particolari relativi alla nascita. In base al presupposto che il feto possa essere cosciente, consapevole e capace di memoria, è stato anche ipotizzato che le esperienze che vive durante il periodo prenatale possano influire sullo sviluppo della sua emotività e della sua mente. Vari studi avrebbero dimostrato che l’attitudine della madre vero il feto ha un forte impatto sulla salute fisica e psichica del nascituro: le cosiddette cool mothers, quelle che per problemi di carriera hanno la gravidanza «in gran dispetto» partorirebbero figli letargici e apatici. È stato coniato il termine toxic womb per indicare le madri che influenzerebbero negativamente «l’umanizzazione » del bambino in utero ed è stata applicata questa definizione alle madri surrogate. Il più elaborato di questi programmi appartiene (si faccia attenzione al nome) alla Pre-natal University della California e si basa sulla stimolazione (con stimoli tattili e uditivi) del bambino a partire dalla ventottesima settimana di amenorrea. Ho utilizzato molti condizionali, perché tutte queste teorie sono in contrasto con quanto sappiamo sullo sviluppo del sistema nervoso del feto, che non è mielinizzato e non dovrebbe essere assolutamente in grado di fissare ricordi (e quindi di rievocarli in seguito) e di provare emozioni. Lo statuto scientifico di tutto quanto si sostiene in questo campo è debolissimo se non inesistente e i miei collaboratori si sono rifiutati di iniziare una ricerca in questo settore nonostante le mie insistenze. Non esiste una sola ricerca empirica che autorizzi a pensare che tra madre e feto passi qualcosa di non molecolare, «un afflato dell’anima» che il laboratorio non è in grado di verificare; ma che cementa un rapporto d’affetto che non si incrinerà mai. Il mio punto di vista è fastidioso, perché poco romantico e, in qualche modo, materialista ma sono disponibile a mutare d’avviso, di fronte a una sola prova concreta.

Questa prova non c’è stata, almeno fino a oggi. Comunque, sulla base di queste considerazioni, molti bioeticisti hanno accolto la notizia di una possibile ectogenesi con alti lai, ripetendo fino alla noia che non ci può essere umanità intera, nel nuovo nato, senza un precedente rapporto positivo con una madre affettuosa e tenera (e geneticamente giusta). Sciocchezze. Con l’aggravante di sollevare particolari sospetti sull’umanità dei bambini dati in adozione, certamente nati, almeno in gran parte, da toxic wombs, da cool mothers o da «madri ambivalenti». Senza contare il gran numero di donne che partoriscono dopo aver detestato per nove mesi la creatura che cresceva nel loro grembo e poi sono diventate madri affettuose e tenere di bambini perfettamente normali. Si portano dunque, nella discussione bioetica relativa alle nuove proposte della scienza, falsi argomenti, fingendo di derivarli da una letteratura scientifica che o non esiste o ha assai poco di scientifico. Al tempo stesso, si ignorano le ragioni degli altri, anche quando queste ragioni sono supportate da una letteratura seria e attendibile. Riesco a capire, pur disapprovandole, le ragioni di questa «malafede»: chi vive troppo intensamente la propria religione o, più genericamente, i propri principi morali, può arrivare al punto di dimenticare che esistono, per tutti, limina certa ma cercare di prevalere sulle opinioni degli altri – quando queste divengono minacciose per le proprie – anche contro l’evidenza e la verità, non è più soltanto «malafede», è mala-fede. Un altro, nuovo tipo di prevaricazione ideologica da aggiungere ai numerosi che l’analisi della storia consente di elencare. Del resto, fare luce sui meccanismi più intimi della biologia della riproduzione non è privo di effetti sulle differenti visioni metafisiche della procreazione e soprattutto sul concetto di sacralità della vita, che si sgretola lentamente.

Ma c’è di più. Leggete, per capire meglio quali danni può fare il progresso delle conoscenze, le accorate parole che Bertold Brecht mette in bocca a Fulgenzio nella sua «Vita di Galileo»: «Permettete che vi parli di me? Sono cresciuto in campagna, figlio di genitori contadini: gente semplice che sa tutto della coltivazione dell’ulivo, ma del resto ben poco istruita. Quando osservo le fasi di Venere, ho sempre loro dinanzi agli occhi. Li vedo seduti, insieme a mia sorella, sulla pietra del focolare, mentre consumano il loro magro pasto. Sopra le loro teste stanno le travi del soffitto, annerite dal fumo dei secoli, e le loro mani spossate dal lavoro reggono un coltelluccio. Certo, non vivono bene; ma nella loro miseria esiste una sorta di ordine riposto, una serie di scadenza: il pavimento della casa da lavare, le stagioni che variano nell’uliveto, le decime da pagare (…). Le sventure piovono loro addosso con regolarità, quasi seguendo un ciclo. La schiena di mio padre non s’è incurvata tutta in una volta, ma un poco più ogni primavera, lavorando nell’uliveto: allo stesso modo che i parti succedendosi a intervalli sempre uguali, sempre più facevano di mia madre una creatura senza sesso. Donde traggono la forza necessaria per la loro faticosa esperienza? Per salire i sentieri pietrosi con le gerle colme sul dorso, per far figli, per mangiare perfino? Dal senso di continuità, di necessità, che infonde in loro lo spettacolo degli alberi che rinverdiscono ogni anno, la vista del campicello e della chiesetta, la spiegazione del Vangelo che ascoltano la domenica. Si son sentiti dire che l’occhio di Dio è su di loro, indagatore e quasi ansioso; che intorno a loro è stato costruito il grande teatro del mondo perché vi facciano buona prova recitando ciascuno la grande o piccola parte che gli è stata assegnata (…). Come la prenderebbero ora, se andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e che gira intorno a un astro, uno tra tanti, e neppure molto importante? Che scopo avrebbe tutta la loro pazienza, la loro sopportazione di tanta infelicità? Quella sacra scrittura, che tutto spiega e di tutto mostra la necessità: il sudore, la pazienza, la fame, l’oppressione, che potrebbe ancora servire se scoprissero che è piena di errori? No: vedo i loro sguardi velati di sgomento, e il coltelluccio cadere sulla pietra del focolare; vedo come si sentono traditi, ingannati. Dunque, dicono, non c’è nessun occhio sopra di noi? Siamo noi che dobbiamo provvedere a noi stessi, ignoranti, vecchi, logori come siamo? Non ci è stata assegnata altra parte che di vivere così, da miserabili abitanti di un minuscolo astro, privo di ogni autonomia e niente affatto al centro di tutte le cose? Dunque, la nostra miseria non ha alcun senso, la fame non è una prova di forza, è semplicemente non aver mangiato! E la fatica è piegare la schiena e trascinar pesi, non un merito! Così direbbero; ed ecco perché nel decreto del sant’Uffizio ho scorto una nobile misericordia materna, una grande bontà d’animo».6

Concludo. Trovo, innanzitutto, molto difficile da accettare il fatto che la sinistra italiana sia finita a formare una coalizione senza aver prima chiarito al proprio interno, i molti punti di divergenza che esistono tra le sue differenti anime. Non si possono far esplodere le contraddizioni sulla bioetica nelle aule del parlamento. È inaccettabile che si consenta il voto secondo coscienza quando si trattano problemi che riguardano le libertà individuali (rispetto alle quali, me lo consenta il compagno Violante,7 le libertà di coscienza dovrebbero fare un finale passo indietro). Pur essendo iscritto ai Democratici di sinistra, non credo che voterò mai più per un cattolico che non mi dia garanzia in questo senso, quali che siano le disposizioni del partito.

Inoltre, se mi è consentita una ultima critica, debbo dire che nella terza parte del convegno di Assisi organizzato da Italianieuropei, quella nella quale hanno avuto la parola gli esponenti del mondo politico, sono state espresse alcune opinioni che hanno stupito gran parte dei ricercatori presenti. Cosa possa autorizzare un uomo politico a fare dichiarazioni tanto avventurose a proposito di argomenti che invitano alla massima cautela anche i tecnici più preparati, proprio non lo so. Penso che nella maggior parte dei casi si tratti di letture superficiali di articoli divulgativi, o di interpretazioni sbagliate di memorie scientifiche. Il fatto è che queste dichiarazioni assumono una valore particolarmente importante per la credibilità e l’autorità di chi le ha pronunciate, rendendo così del tutto inutile la lunga e faticosa sessione scientifica di esordio. Ebbene, io non credo che questo sia giusto. Dichiarare la propria ostilità nei confronti «dell’eugenetica positiva migliorativa» dopo che i poveri ricercatori e alcuni esperti di bioetica si sono affannati a dimostrare che non esiste, niente del genere, né nel presente, né nel futuro immaginabile, vuol dire mandare un messaggio pericoloso e profondamente scorretto. Si tratta, volenti o nolenti, di un atto di ostilità nei confronti degli scienziati, un atto che non può essere ignorato e sul quale sarebbe opportuno intervenire immediatamente.

 

 

Bibliografia

1 A. Petroni, «Il Giornale», 12 febbraio 2001.

2 C. Viano, in «Rivista di filosofia», 2/2002

3 N. Matteucci, L’ondata anticlericale, «Il Giornale», 15 febbraio 2001.

4 F. Adornato, E. Boncinelli, C. Caporale, A.M. Petroni, L.H. Rockwell, F. Smith Jr., «Liberal – Fondazione», 8/2001.

5 M.L. Di Pietro, A. Fiori, Manipolazioni lessicali e semantiche in bioetica, in S. Zaninelli (a cura di) Scienza, tecnica e rispetto dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2001.

6 B. Brecht, Vita di Galileo, trad. it. E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, pp. 72-73.

7 L’on. Violante ha sostenuto, in un breve articolo pubblicato dall’Unità, il diritto dei parlamentari di votare secondo coscienza quando sono in discussione norme che potrebbero limitare le libertà individuali, come nel caso della donazione di gameti.