L'insostenibile leggerezza delle astrazioni

Written by Anna Meldolesi Tuesday, 01 April 2003 02:00 Print

Una maggiore concretezza nei rapporti tra scienza, bioetica e politica: potrebbe essere individuata come la richiesta che ha legato gli interventi di tanti esponenti della comunità scientifica, che hanno preso parte all’incontro organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, Einaudi e Sacro Convento di San Francesco di Assisi («Dialogo sulla vita umana. Un seminario bioetico tra laici e credenti» Assisi, 29 gennaio 2003). Al di là delle diverse esperienze e discipline di riferimento, il messaggio che è arrivato da chi lavora dentro o in prossimità dei laboratori è la richiesta urgente di un confronto costruttivo sui problemi concreti.

 

Una maggiore concretezza nei rapporti tra scienza, bioetica e politica: potrebbe essere individuata come la richiesta che ha legato gli interventi di tanti esponenti della comunità scientifica, che hanno preso parte all’incontro organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, Einaudi e Sacro Convento di San Francesco di Assisi («Dialogo sulla vita umana. Un seminario bioetico tra laici e credenti» Assisi, 29 gennaio 2003). Al di là delle diverse esperienze e discipline di riferimento, il messaggio che è arrivato da chi lavora dentro o in prossimità dei laboratori è la richiesta urgente di un confronto costruttivo sui problemi concreti. La scienza chiede una più consapevole assunzione di responsabilità da parte del mondo politico nella gestione dell’innovazione e del dibattito pubblico che l’accompagna. E una più forte assunzione di responsabilità da parte della bioetica, chiamata a non confrontarsi con gli avanzamenti della biomedicina a partire da astrazioni che rischiano di imprigionare il dialogo in un labirinto senza uscita. Chi come Hans Magnus Enzensberger accusa gli scienziati diinsofferenza quando i «non scienziati» discutono di scienza si sbaglia.1 I ricercatori, soprattutto in Italia, si aspettano dalla politica, dal mondo della cultura e dalla società un impegno maggiore, non minore, sulle questioni scientifiche. Chiedono soprattutto un impegno più attento alla specificità dei problemi, più basato sull’analisi dei dati empirici, che non si fermi alle generalizzazioni in cui è facile cadere ogni qualvolta s’improvvisa un’analisi attraverso filtri culturali inadeguati. Quello di cui la scienza si lamenta semmai – e a ragione – è la visione caricaturale del mondo della ricerca che troppo spesso sta alla base dei giudizi espressi da scrittori, filosofi, politici. E che troppo spesso riverbera in un certo modo di intendere e praticare la bioetica in Italia, un approccio astratto e difensivo che rischia non soltanto di non contribuire come potrebbe alla risoluzione dei problemi, ma di aggravarli. 

In Italia siamo tuttora privi di una legge sulla procreazione medicalmente assistita, e quella in discussione al parlamento secondo l’unanime giudizio degli specialisti comporta seri rischi per la salute delle donne. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di laboratori per le diagnosi genetiche, ma a fronte di un uso tanto forte di test si riscontrano gravi carenze nei servizi di consulenza genetica che dovrebbero venire in aiuto del paziente sia prima sia dopo l’analisi. Un’ordinanza del ministero della salute vieta alle partorienti – anche quelle che hanno già figli affetti da gravi malattie genetiche – di conservare le cellule staminali del cordone ombelicale in strutture private nella speranza che, in caso di necessità, possano essere utilizzate a scopo terapeutico dal nascituro o dai suoi familiari. Come ha efficacemente ricordato ad Assisi Cinzia Caporale, il paese rischia di chiudere le porte alla ricerca sulle cellule staminali embrionali attraverso commi di leggi che parlano d’altro e convenzioni ratificate a camere sciolte. I problemi concreti su cui discutere insomma sono tanti, eppure il dibattito bioetico italiano rischia di avvitarsi intorno a falsi problemi, che si originano da una radicata diffidenza nei confronti della scienza e degli scienziati e si sviluppano come costruzioni teoriche dalle fondamenta estremamente fragili. In nessun paese come in Italia trovano eco e attenzione, persino in sedi autorevoli, le tesi degli intellettuali più spaesati di fronte agli avanzamenti della biomedicina, anche quando sono talmente deboli e mal argomentate da prestarsi a facili confutazioni. Quando Jürgen Habermas boccia gli organismi geneticamente modificati come orribili chimere che provocano ripugnanza, per esempio, dimostra di conoscere bene il pesce-fragola immaginato dai creativi ingaggiati per le campagne pubblicitarie delle catene di supermercati e affatto la ricerca reale che si svolge nei laboratori di biotecnologie vegetali.2 Quando Enzensberger accusa le scienze biologiche di essere in una fase maniacale tipica della pubertà o di sciamanesimo, non sta parlando della biologia ma della fantabiologia profetizzata da Jeremy Rifkin o da Francis Fukuyama. E insieme con loro confonde l’attività scientifica con i comunicati scritti dagli uffici stampa per gli istituti di ricerca a caccia di finanziamenti o con le provocazioni di qualche guru a caccia di riflettori. Quando entrambi gli intellettuali tedeschi condannano la ricerca sulle cellule staminali embrionali o le diagnosi genetiche preimpianto, perché aprirebbero la strada a un processo di reificazione dell’uomo destinato a sfociare fatalmente in un allevamento eugenista e razziale, dimostrano di conoscere assai poco la genetica. Il gene della matematica non esiste e non è possibile progettare novelli Einstein in laboratorio, così come non è immaginabile costruire caste genetiche di uomini programmati per svolgere specifiche funzioni. Forse tra alcuni decenni si porrà davvero la questione se e come consentire interventi genetici migliorativi sul patrimonio genetico umano, ma si porrà in modo del tutto diverso da quello caricaturale che viene rappresentato oggi e schierarsi in due fazioni  opposte sin da ora non è di grande aiuto per affrontare le problematicheposte dagli avanzamenti della biomedicina. Non a caso il Nuffield Council on Bioethics britannico, pur raccomandando prudenza, tra liberali e conservatori dell’eugenetica migliorativa preferisce non prendere posizione, perché le possibili applicazioni al momento sono difficili da immaginare e finché non sarà possibile ragionare di applicazioni concrete qualsiasi giudizio è soltanto un esercizio teorico.3 C’è da chiedersi dunque che senso abbia arrivare, per esempio, a una condanna della ricerca sulle cellule staminali embrionali a partire dalle paure sollevate da qualche incubo destinato a non avverarsi. E c’è da domandarsi se la classica argomentazione dell’argine che si rompe non funzioni ormai come una sorta di trappola, che utilizzando congetture sul futuro remoto impedisce di affrontare con lucidità i problemi del presente e del futuro prossimo.

Eppure questo approccio astratto che mette in guardia la società dai rischi ipotetici di una scienza futuribile non si ferma sulle pagine di qualche libro polemico scritto da pensatori che si avventurano con una certa leggerezza nei temi delle scienze della vita. Il recente documento contro la clonazione a fini riproduttivi del Comitato nazionale di bioetica, per esempio, contiene un chiaro riferimento al pensiero di Habermas, anche se alcuni membri laici – Piazza, Caporale, Flamigni, Neri, Battaglia – hanno espresso ufficialmente le loro riserve su questo genere di argomentazioni.4 Che incursioni filosofiche così deboli dal punto di vista scientifico vengano utilizzate in Italia da chi avrebbe ragioni assai più robuste per opporsi alla clonazione riproduttiva, probabilmente è il sintomo di un malessere nel rapporto tra scienza e bioetica. Se si guarda al mondo della bioetica partendo da un background scientifico e laico, non si può non dubitare dell’utilità di una bioetica tanto speculativa, tanto slegata dalla realtà. Il rischio è che occupandosi di problemi teorici finisca per non contribuire a risolvere i problemi reali, e questo accade in un momento in cui la genetica, ma più in generale le scienze della vita, sollevano molti problemi concreti di cui sarebbe eticamente doveroso occuparsi. Oggi possiamo continuare a discutere di scenari di fantasia e correre dietro a tutti i sassi che vengono via via lanciati, nel frattempo però le questioni reali sollevate dall’innovazione restano senza una risposta efficace. E i rapporti tra scienza e società si deteriorano. Quando Enzensberger ricorre all’arma della provocazione paragonando ai trafficanti di armi e droga i ricercatori che affermano di essere pronti a lasciare la Germania per paesi che consentono la ricerca sulle staminali embrionali – come ha fatto nel 2001 su «Der Spiegel» e recentemente sulla stampa italiana – non offre alcun contributo per impostare un ragionamento, urgente quanto complicato, sulla frattura che si è creata tra scienza e società e che spinge i ricercatori ad affermazioni e gesti estremi. Chi segue la scienza oggi, dall’interno, non vede una scienza onnipotente e tracotante, vede invece una scienza difficile da comprendere e vede un dibattito pubblico sulla scienza improvvisato e avvitato intorno a cortocircuiti, trappole, suggestioni. Il fatto che tanti interventi anche autorevoli fomentino il sospetto sulla ricerca privata dipingendola come la culla di tutti i mali, per esempio, è piuttosto paradossale soprattutto in Italia, dove il contributo dell’industria alle spese per ricerca e sviluppo è inferiore alla già bassa media europea e tutti concordano, almeno a parole, sul fatto che debba assolutamente crescere se il paese vuole ancora sperare di giocare un ruolo attivo nell’economia della conoscenza.5 A volte muovere aspre critiche alla ricerca industriale diventa quasi un pedaggio da pagare per poter difendere la ricerca scientifica nelle aree di frontiera senza essere accusati di chissà quali interessi o collusioni. Eppure mentre si continua a riproporre una contrapposizione semplicistica tra ricerca pubblica e privata, in Italia il diffuso sospetto contro le multinazionali delle agrobiotecnologie si è paradossalmente trasformato in un’arma contro la ricerca pubblica. Tre anni fa un ministro dei Verdi ha chiuso da un giorno all’altro sperimentazioni condotte da istituti di ricerca pubblici, fantasticando di oscuri disegni dell’industria biotech e di Chernobyl genetiche degne di Michael Crichton. Si trattava di sperimentazioni che sono consentite ovunque nel mondo e non comportavano alcun rischio particolare, come è ovvio perché altrimenti non avrebbero mai ricevuto le autorizzazioni del caso dalla commissione interministeriale competente. Il risk assessment, forse è il caso di ricordarlo, è un’attività scientifica verae propria: quando la politica si occupa di risk management dovrebbe avere più rispetto delle valutazioni tecniche e da queste dovrebbe ricavare gli elementi di base per poi prendere le decisioni più appropriate. In quell’occasione comunque, tre anni orsono, la comunità scientifica ha rotto per la prima volta il suo tradizionale silenzio. E da allora il tema della libertà di ricerca è rimasto un tema caldissimo, anche se qualcuno ha cercato di giocare sull’equivoco attribuendo alla scienza desideri di impunità e tentazioni antidemocratiche che non trovano alcuna conferma nella realtà dei fatti.

La comunità scientifica, è vero, rivendica il diritto alla libertà di ricerca, ma questo avviene in un momento in cui la scienza non è affatto selvaggiamente libera di violare ogni confine. Al contrario la scienza non è mai stata così controllata e regolamentata, attraverso direttive europee, leggi nazionali, pareri di comitati tecnico-scientifici e bioetici, persino decreti e circolari ministeriali di dubbia legittimità giuridica che tutti sono obbligati a rispettare. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 condanna la clonazione riproduttiva umana (articolo 3) prima ancora di condannare la tortura (articolo 4) e la riduzione in schiavitù (articolo 5). Le paure tecnoscientifiche del futuro sembrano avere addirittura la precedenza sugli orrori, questi sì reali, che l’umanità ha conosciuto a lungo nel passato e di cui non è ancora riuscita a liberarsi del tutto nel presente. Le nanotecnologie di fatto non sono ancora uscite dai laboratori, e questo settore è così diversificato e acerbo da non prestarsi ad alcuna semplice definizione, ma esistono già gruppi di pressione che invocano restrizioni in nome di rischi teorici e panel di bioeticisti che si interrogano sui possibili risvolti bioetici. L’allarme insomma è partito ancor prima della tecnologia. Seppure siamo abituati a sentirci ripetere che la scienza corre troppo in fretta perché la bioetica e la politica possano tenere il passo, a volte negli ultimi tempi sembra di assistere a un ribaltamento di prospettiva, con l’etica che minaccia di paralizzare la ricerca. E se questo è il clima culturale, si fatica poi a comprendere come da più parti si continui a parlare di una liberalizzazione selvaggia della scienza e della tecnologia. Il fatto che il settore della procreazione medicalmente assistita in Italia non sia ancora stato regolamentato, del resto, non è certo il frutto delle resistenze della comunità scientifica, quanto invece di contrapposizioni politiche e religiose. E se la clonazione umana riproduttiva non è ancora vietata per legge ma soltanto attraverso una circolare del ministero della Salute che deve essere periodicamente rinnovata, questo non è dovuto certo alle resistenze degli scienziati che anzi hanno chiesto una legge a gran voce. È dovuto semmai a un disegno politico, che vuole legare il no alla clonazione riproduttiva ad altri obiettivi, come un rafforzamento della tutela dei diritti dell’embrione. Ha ragione Gilberto Corbellini, quando sostiene che la strada intrapresa dai ricercatori italiani per rivendicare libertà di ricerca sugli organismi geneticamente modificati – sia chiaro nel pieno rispetto del quadro normativo europeo che disciplina le sperimentazioni con piante transgeniche – è il segnale di un problema serio. In Italia non esistono meccanismi attraverso i quali la politica possa ascoltare la voce della comunità scientifica, i comitati tecnico-scientifici sono troppo spesso «cencellizzati», passivi o delegittimati, e i leader politici non hanno mai sentito la necessità di avvalersi di consulenze scientifiche di alto livello come invece accade nei paesi anglosassoni. La scienza però non può procedere a forza di appelli. E il rapporto tra scienza, politica e bioetica non può essere risolto con un braccio di ferro.

La bioetica, purtroppo, non è stata di grande aiuto nel favorire il dialogo tra scienza politica e società in Italia e non ha svolto come avrebbe potuto un ruolo di guida nell’istruzione delle policies, ovvero degli atti normativi e di indirizzo con cui la politica disciplina la ricerca e l’innovazione tecnologica. In paesi come la Gran Bretagna si è sviluppata una bioetica empirica che contribuisce efficacemente al policy-making e i risultati di questo approccio sono tangibili. Il Regno Unito è uno dei pochi paesi che hanno varato una legge che vieta l’impianto in utero di embrioni clonati, bloccando quindi la clonazione a fini riproduttivi e consentendo invece la clonazione a fini conoscitivi e terapeutici. Il Regno Unito dispone di una legge che disciplina la procreazione assistita dal 1990 e rappresenta un punto di riferimento a livello internazionale per la tempestività con cui vengono individuati i problemi posti via via dal progresso scientifico e per la trasparenza con cui questi problemi vengono discussi e affrontati. In confronto la bioetica difensiva, quella che secondo molteplici dichiarazioni della presidenza del Comitato nazionale di bioetica dovrebbe salvare l’umanità dagli eccessi della scienza, sortisce ben pochi risultati. Non solo contribuisce ad esacerbare le incomprensioni tra scienza e società danneggiando l’immagine pubblica della scienza e le prospettive di sviluppo culturale ed economico del paese come argomenta Gilberto Corbellini. La bioetica difensiva rischia anche di sacrificare una reale tutela dei cittadini in nome dei dogmi e delle astrazioni. L’auspicio di Ignazio Marino che invita laici e credenti a lavorare insieme in direzione di una bioetica alta e universale ispirata al rispetto della vita merita ovviamente attenzione. Il lungo vuoto legislativo sulla fecondazione assistita in Italia però dimostra che inseguendo una bioetica ispirata al bene astratto si rischia di non essere in grado di attuare neppure quella bioetica empirica che lo stesso Marino chiede.

Il bene ultimo cui tendere non è per tutti lo stesso, e mentre laici e credenti si confrontano sui grandi temi della vita e della morte, non possono dimenticare che i compromessi della bioetica empirica non hanno minor valore quando servono a risolvere problemi concreti. Gli scienziati che rivendicano di essere allo stesso tempo laici e credenti, come Gianfranco Di Segni, sono probabilmente più numerosi di quanto non si potrebbe pensare e non rappresentano soltanto una felice eccezione. Ma la contrapposizione tra laici e credenti nel dibattito bioetico italiano è ancora estremamente attuale e difficilmente potrà essere superata finché la bioetica resterà tanto astratta.

In Italia non esiste una tradizione di policy-making. Non esiste nemmenouna parola per indicare le policies. Ora che all’orizzonte si profila un controverso riordino degli enti di ricerca pubblica si discute giustamentedella necessità di sottoporre questi enti a un benchmarking esterno al fine di migliorare il sistema ricerca nazionale alle prese con una drammatica penuria di finanziamenti e con fenomeni degenerativi. Sesolo applicassimo un benchmarking esterno ai pareri dei comitati tecnico-scientifici ministeriali e governativi, non solo attuali ma anche degli anni passati – ivi incluso il Comitato nazionale di bioetica – scopriremmo che a volte i contributi di questi comitati sono di qualità discutibile dal punto di vista scientifico. Quando poi questa debolezza scientifica viene trasferita agli interventi normativi di carattere ambientale e sanitario, a risentirne è proprio l’efficacia dell’azione politica che risulta inadeguata a tutelare al meglio ambiente e salute. Lo scorso maggio, nel suo discorso sull’importanza della scienza tenuto alla Royal Society, Tony Blair ha annunciato di voler sottoporre la scienza governativaa un benchmarking esterno.6 In Italia una simile proposta suonerebbe come una vera e propria rivoluzione e con ogni probabilità sarebbe accusata di tecnocrazia. Questo genere di sospetti e di equivoci però merita di essere respinto una volta per tutte: quello che si chiede non è certo il primato della scienza sulla morale o sulla politica, quello che si chiede è che bioeticisti e politici esprimano i propri giudizi morali e faccianole proprie scelte di policies sulla base di informazioni scientifichecredibili, senza piegarle o selezionarle secondo i propri desiderata politici o religiosi. Troppo spesso, come documenta Carlo Flamigni nel suo intervento, la bioetica finisce per inventarsi una biologia a uso e consumo della politica. Ma se la bioetica ha un compito concreto, quello di contribuire alla definizione e alla risoluzione dei conflitti che possono nascere tra cittadini-pazienti, medici-ricercatori e società, deve opporsi a questa deriva e farsi maggiormente carico delle conseguenze concrete delle posizioni cheassume. Get real è il titolo di un recente editoriale sulla bioetica difensiva pubblicato da «Scientific American», che pur essendo una rivista incline al pluralismo ha attaccato duramente l’approccio tecnocinico dei bioeticistida bestseller.7 Ricordando che chi ama la scienza non può che essere favorevole al pensiero astratto, ma anche che a un certo punto l’astrazione deve trovare necessariamente un contatto con la realtà. E la realtà assomiglia davvero poco alle congetture su cui troppo spesso si esercita questa strana bioetica che coniuga preoccupazioni filosofiche e teologiche sulla dignità umana a scenarida horror movie. Se la bioetica non raccoglie questo invito a tornare alla realtà, rinuncia ad essere utile e tradisce la sua stessa missione. A discapito degli scienziati e della scienza. Ma soprattutto a discapito delle esigenze della società e dei diritti dei cittadini, che non hanno nulla da guadagnareda policies costruite sulla fantabiologia perché meritano di essere tutelati efficacemente dai rischi reali prima che da quelli teorici. E meritano di non essere privati senza valide ragioni delle opportunità offerte dall’innovazione tecnologica.

 

 

Bibliografia

1 G. Bosetti, I golpisti della scienza, in «Repubblica» 6 marzo 2003; H.M. Enzensberger, Putschisten im Labor, in «Der Spiegel» 2 giugno 2001.

2 J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002.

3 Nuffield Council on Bioethics, Genetics and human behaviour: the ethical context, rapporto ottobre 2002.

4 Mozione sulla clonazione umana a fini riproduttivi, approvata il 17 gennaio 2003.

5 Third European Report on Science & Technology Indicators 2003. 

6 T. Blair, PM speech: Science matters, 23 maggio 2002 in https://www.number-10.gov.uk/output/Page1715.asp.

7 S.A. editors, Get Real, in «Scientific American» aprile 2003.