L'Unione europea contro la povertà. Coordinamento aperto e processo di inclusione sociale

Written by Maurizio Ferrera, Manos Matsaganis, Stefano Sacchi Friday, 01 November 2002 02:00 Print

Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno.

 

Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno.

Nella seconda metà degli anni Novanta si è assistito a un graduale cambiamento sia di clima sia di prospettive. Una legislazione vincolante continuava a essere percepita come un ingrediente fondamentale della dimensione sociale europea, e anzi il dibattito sui diritti fondamentali e su una possibile Costituzione europea a pieno titolo ha fatto ulteriormente avanzare il fronte delle ambizioni giuridiche al riguardo. Contemporaneamente, però, ha cominciato a essere oggetto di considerazione e sperimentazione un’altra strategia d’intervento politico, basata sulla complessa combinazione di ingredienti istituzionali relativamente «soffici», ma dotati di una forte capacità potenziale di orientare le trasformazioni in atto a livello nazionale. Applicato in origine all’area dell’occupazione, il nuovo approccio è stato poi esteso ad altri settori di policy, e in particolare alle politiche volte a combattere l’esclusione sociale, sotto il nome di «metodo aperto di coordinamento», MAC, espressione coniata nel 2000, nel corso del semestre di presidenza portoghese.

Gli ingredienti istituzionali principali del MAC consistono in linee guida comuni, piani d’azione nazionali, revisione inter pares (peer review), rapporti di valutazione congiunta e raccomandazioni. Nessuno dei suddetti strumenti ha carattere vincolante, fondato sulla possibilità di enforcement. Inoltre, pur fornendo agli attori delle policy un’agenda relativamente chiara, la miscela di tutti questi ingredienti lascia ampie possibilità di adeguamento al contesto nazionale. Il nuovo approccio rimane quindi soft e nation-state friendly: due caratteristiche che facilitano molto l’adozione di decisioni coordinate. Pur intervenendo in assenza di norme e sanzioni cogenti, il MAC genera comunque, nei confronti dei governi nazionali e subnazionali, numerosi incentivi al rispetto delle indicazioni emesse. Gli ingredienti istituzionali di cui sopra sono organizzati in «processi» relativamente strutturati che si ripetono nel tempo sulla base di un calendario regolare, processi che creano fiducia e atteggiamenti cooperativi in tutti i partecipanti e tendono a incoraggiare le dinamiche dell’apprendimento. È proprio in questo senso che il MAC presenta una forte capacità potenziale a esercitare una reale influenza sugli sviluppi delle policy, quanto meno a raffronto delle raccomandazioni una tantum o anche della classica cooperazione intergovernativa stile OCSE.

L’esclusione sociale ha fatto il suo ingresso nella sfera applicativa del metodo aperto di coordinamento nel corso del 2001. Sebbene i confini effettivi di tale area di policy rimangano, come vedremo, relativamente vaghi, il suo obiettivo primario riveste un ruolo di straordinaria rilevanza nel cosiddetto modello sociale europeo. Far sì che ogni cittadino possa contare su una piattaforma di diritti e di risorse per poter prendere parte alla società rappresenta una delle principali «questioni di interesse comune» per tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Tradizioni e sensibilità nazionali (e persino subnazionali) su come tale obiettivo debba essere raggiunto differiscono però enormemente, forse ancor più di quanto non avvenga in altre aree di politica sociale quali le pensioni o l’occupazione. Se ben concepite e ben calibrate, le politiche di coordinamento aperto contro l’esclusione potrebbero dunque condurre a una virtuosa combinazione fatta di stimoli esterni a porsi interrogativi sui vari problemi, e di sforzi interni volti a identificare (e mettere in atto) soluzioni adeguate. In quanto segue verranno ricostruite le varie fasi del cammino che ha portato al lancio del nuovo «processo di inclusione sociale» a livello comunitario, descrivendo le caratteristiche salienti del processo stesso per poi discuterne l’efficacia e le prospettive future.

 

La comparsa dell’esclusione sociale nell’agenda comunitaria

I trattati originari rispecchiavano la convinzione, tipica dell’età dell’oro del capitalismo industriale, che la crescita economica potesse da sola migliorare le possibilità di vita di tutti i cittadini. Tale credenza cominciò a vacillare nel corso degli anni Ottanta, e nel 1989 una risoluzione del Consiglio specificava che «la lotta all’esclusione sociale può essere considerata una parte importante della dimensione sociale del mercato interno» e postulava la «necessità di abbinare le politiche di sviluppo economico con politiche di integrazione specifiche, sistematiche e coerenti».

La nozione di esclusione sociale ha cominciato a prendere piede nel discorso relativo alle policy dell’Unione europea durante la prima fase della presidenza Delors (dal 1985 all’inizio degli anni Novanta). Nato in seno al dibattito francese, il concetto di esclusione sociale ha, nell’uso consueto, una connotazione piuttosto vaga, e viene spesso suggerito che è forse proprio questa vaghezza la fonte stessa del suo grande richiamo nei confronti dei policymakers. Quando posto a confronto con quello di povertà, il concetto di esclusione sociale viene comunemente inteso come multidimensionale, dinamico e volto a cogliere gli aspetti relazionali (laddove il concetto di povertà sarebbe unidimensionale, statico e orientato agli aspetti distributivi), ed è proprio in questi termini che è stato inquadrato nel discorso di politica sociale dell’Unione. Comunque, povertà ed esclusione sociale sono spesso inscindibilmente legate nei testi comunitari: nella relazione congiunta sull’inclusione sociale, per esempio, si legge che «i termini povertà ed esclusione sociale si applicano ai casi in cui gli individui non sono in grado di partecipare pienamente alla vita economica, sociale e civile e/o quando il loro accesso al reddito e ad altre risorse (personali, familiari, sociali e culturali) è così inadeguato da escluderli dal godimento di un tenore e di una qualità di vita considerati accettabili nella società in cui vivono. In tali situazioni gli individui sono sovente incapaci di accedere pienamente ai propri diritti fondamentali».

 

I primi passi: dalle raccomandazioni del 1992 alla strategia concertata

Dalla appena citata risoluzione del Consiglio scaturirono, nel 1992, due Raccomandazioni, che la Commissione aveva cercato, senza successo, di fare approvare come direttive. La prima, la Raccomandazione 441/92/CEE sui criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale, appare in retrospettiva di grande importanza, in primo luogo perché ha avuto il pregio di riconoscere che la crescita economica da sola non è sufficiente a garantire l’integrazione sociale e rimane quindi necessaria l’adozione di politiche specificamente mirate allo scopo. Inoltre, ha invitato gli Stati membri (giacché le Raccomandazioni non hanno forza vincolante) a riconoscere, nel contesto dei loro rispettivi sistemi di protezione sociale, «il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana» e quindi, in sostanza, a porre in essere o a mantenere degli schemi di reddito minimo o loro equivalenti funzionali.

A sua volta, la Raccomandazione 92/442/CEE sulla convergenza degli obiettivi e delle politiche di protezione sociale è importante perché ha avanzato per la prima volta l’idea di una «strategia di convergenza» che, pur nel rispetto dell’esclusiva competenza degli Stati membri in materia di protezione sociale, miri a definire «obiettivi comuni atti a guidare le politiche degli Stati membri al fine di consentire la coesistenza dei vari sistemi nazionali e di farli progredire in armonia reciproca verso gli obiettivi fondamentali della Comunità». Nella Raccomandazione si chiedeva inoltre alla Commissione di organizzare consultazioni regolari con gli Stati membri sull’evoluzione delle politiche di protezione sociale. Cinque anni dopo, nel 1997, è stato firmato il Trattato di Amsterdam, che ha incorporato l’Accordo sulla politica sociale. Basato sulla Carta sociale del 1989, l’Accordo era stato allegato nel 1992 al Protocollo sulla politica sociale, a sua volta allegato ma non incluso nel Trattato di Maastricht in ragione dell’opposizione britannica. Il governo del New Labour, al governo dal maggio 1997, ratificò immediatamente l’Accordo rendendone così possibile l’inclusione nel Trattato. Per la prima volta nella storia dell’integrazione europea, la lotta contro l’esclusione sociale veniva esplicitamente menzionata in un trattato: l’articolo 136 la indica infatti tra gli obiettivi della Comunità e degli Stati membri. Le disposizioni di maggior rilievo sono comunque quelle dell’articolo 137, dove l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro è citata tra le aree in cui la Comunità «sostiene e completa» l’azione degli Stati membri. Ne consegue che il Consiglio può, mediante la procedura di codecisione e dunque votando a maggioranza qualificata, adottare direttive volte ad introdurre «prescrizioni minime applicabili progressivamente». Con la medesima procedura, il Consiglio può «adottare misure destinate a incoraggiare la cooperazione tra Stati membri attraverso iniziative volte a migliorare la conoscenza, a sviluppare gli scambi di informazioni e le migliori prassi, a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze fatte per combattere l’esclusione sociale». Infine, alla Commissione sono oggi attribuiti i compiti di «incoraggiare la cooperazione» tra gli Stati membri e «facilitare il coordinamento» delle loro azioni in materia di politica sociale (articolo 140), laddove in precedenza si parlava semplicemente di «promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati membri».

Nel 1999 la Commissione ha varato un documento che si è rivelato di fondamentale importanza nel processo iniziato con le Raccomandazioni del 1992: la Comunicazione intitolata «Una strategia concertata per modernizzare la protezione sociale». Sulla scorta della creazione della moneta unica e della sempre maggiore istituzionalizzazione della Strategia europea per l’occupazione, la Commissione riteneva che fosse giunto «il momento di approfondire la collaborazione esistente a livello europeo», al fine di assistere gli Stati membri nel compito di modernizzare la protezione sociale e di formulare «una visione politica comune della protezione sociale nell’Unione europea». Quattro obiettivi venivano quindi indicati come fondamentali per la realizzazione di una strategia concertata. Primo. Rendere il lavoro remunerativo e garantire un reddito sicuro. Secondo. Garantire la sicurezza e la sostenibilità dei sistemi pensionistici. Terzo. Promuovere l’inclusione sociale. Quarto. Garantire un’assistenza sanitaria al contempo di elevata qualità e sostenibile

Al Consiglio la Commissione chiedeva di sottoscrivere tali obiettivi nonché di predisporre il «contesto per una più stretta cooperazione nel campo della protezione sociale, fondata sullo scambio di esperienze, la concertazione reciproca» e la valutazione degli sviluppi delle policy in corso così da poter identificare le «migliori prassi». Si trattava evidentemente della richiesta formale dell’avvio, nel campo della protezione sociale, di un processo simile a quello già operante nell’ambito della strategia europea per l’occupazione, similitudine rafforzata dall’invito rivolto agli Stati membri affinché nominassero dei funzionari ad alto livello a cui affidare la gestione di tale processo, ovvero qualcosa che condividesse i tratti del Comitato per l’occupazione e modellato su di esso. Alla fine del 1999, il Consiglio adottò la strategia concertata e i quattro obiettivi, e istituì il Gruppo ad alto livello per la protezione sociale, in seguito sostituito dal Comitato per la protezione sociale.

 

La svolta: Lisbona

Il Consiglio europeo straordinario tenutosi a Lisbona nel marzo 2000 sarà senza dubbio ricordato come un momento cruciale nell’evoluzione della politica sociale nell’UE. Il vertice di Lisbona ha infatti fissato un obiettivo strategico per l’Unione, per il decennio 2000–2010: quello di «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggior coesione sociale». Il raggiungimento di tale obiettivo presuppone una «strategia globale» volta, tra le altre cose, a combattere l’esclusione sociale.

Due furono gli strumenti identificati al fine di tradurre tale strategia in realtà: l’introduzione di un nuovo «metodo aperto di coordinamento» e il potenziamento del ruolo di guida e coordinamento del Consiglio europeo, un ruolo peraltro messo in evidenza anche dal Libro Bianco della Commissione sulla governance europea. Per quanto concerne il MAC, esso ha lo scopo di diffondere le prassi migliori e conseguire una maggiore convergenza verso i principali obiettivi dell’Unione e, «concepito per assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche», adotta un’impostazione «totalmente decentrata». In estrema sintesi, il MAC consiste nel definire degli orientamenti per l’Unione secondo calendari specifici per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, nel determinare indicatori e parametri di riferimento (benchmarks) per poter confrontare le prassi migliori, nel tradurre tali orientamenti in politiche nazionali e regionali, e nello svolgere periodicamente attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter pares (peer review) con lo scopo di attivare processi di apprendimento reciproco tra gli Stati membri.

Per consentire al Consiglio europeo di poter coordinare efficacemente le politiche occupazionali, macroeconomiche e sociali secondo un’unica strategia coerente, da allora nota come «strategia di Lisbona», il vertice di Lisbona decise di affiancare ai due tradizionali Consigli europei di giugno e dicembre un nuovo vertice, da tenersi ogni anno in primavera, dedicato espressamente alle questioni economiche e sociali nonché, dopo il lancio di una strategia per lo sviluppo sostenibile da parte del vertice di Göteborg, ai problemi ambientali.1 Si decise inoltre che la Commissione avrebbe contribuito al vertice di primavera stilando annualmente una «relazione di sintesi», basata su indicatori strutturali concordati e determinata a valutare i progressi compiuti ogni anno nelle aree d’interesse della strategia di Lisbona.

La presidenza portoghese intendeva chiaramente dare alle politiche sociali e dell’occupazione un peso maggiore nell’ambito della definizione delle politiche dell’Unione. Oltre a porre tali processi sotto l’ala protettrice del Consiglio europeo, Lisbona tentò anche di ridurre la competenza virtualmente esclusiva del Consiglio ECOFIN sugli indirizzi di massima per la politica economica e di far sì che, in seguito, in questi si tenesse conto anche delle questioni relative all’occupazione e alla coesione sociale. Che questo sia effettivamente avvenuto è decisamente opinabile, e la tattica prescelta potrebbe anche essere stata controproducente, ad esempio per quanto riguarda il modo in cui il MAC è stato applicato alla riforma delle pensioni.

Il vertice di Lisbona decise di applicare il MAC alla lotta contro l’esclusione sociale seguendo le linee definite dalla Commissione nella sua comunicazione «Costruire un’Europa solidale», pubblicata poco prima. Tale proposta comportava la presentazione di piani d’azione nazionali da parte degli Stati membri e la realizzazione di un programma d’azione comunitario per sostenere la lotta. Il vertice rivolse al Consiglio l’invito a concordare, allo scopo di «imprimere una svolta decisiva alla lotta contro la povertà», obiettivi «adeguati» entro la fine del 2000.

 

Dagli obiettivi di Nizza ai piani nazionali: il decollo del «processo di inclusione sociale»

Il vero e proprio avvio del processo di inclusione sociale ha avuto luogo nel dicembre 2000, con il Consiglio europeo di Nizza. In tale occasione, il Consiglio europeo ha approvato gli obiettivi per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale concordati poco prima in seno al Consiglio, ovvero: primo, promuovere la partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi; secondo, prevenire i rischi d’esclusione; terzo, intervenire a favore delle persone più vulnerabili; quarto, mobilitare tutte le parti interessate.

Il Consiglio europeo invitava inoltre gli Stati membri a «sviluppare le loro priorità nel quadro di tali obiettivi, a presentare entro il giugno 2001 un piano nazionale d’azione per un periodo di due anni e a definire indicatori e modalità di controllo che permettano di valutare i progressi compiuti». Sulla base dei suddetti piani nazionali (NAP/INCL nel gergo comunitario), la Commissione veniva incaricata di presentare una «relazione di sintesi che individui le buone prassi e le impostazioni innovative d’interesse comune per gli Stati membri» in vista dell’elaborazione di una relazione congiunta da parte di Consiglio e Commissione.

Pertanto, almeno per il primo ciclo biennale del processo, l’esercizio di verifica doveva porre l’accento sulle caratteristiche positive dei NAPS/INCL, più che valutarne il contenuto. Un tale approccio «protettivo» potrebbe essersi rivelato di vitale importanza per un processo che muoveva di fatto i suoi primi passi, e ciò soprattutto alla luce delle tensioni tra gli Stati membri e la Commissione originate da alcune valutazioni che quest’ultima ha inserito nella propria bozza di relazione sull’inclusione sociale. L’atteggiamento benevolente della Commissione rappresenta tuttavia una differenza significativa di stile di guida tra il processo di inclusione sociale e quello di Lussemburgo (relativo all’occupazione).

I quattro obiettivi di Nizza, (cinque di fatto, poiché il primo è stato diviso e trattato come se fossero due) sono intenzionalmente vaghi e suscettibili di interpretazioni diverse da parte di ciascuno Stato membro per poter tenere in considerazione quella tanto radicata eterogeneità dei vari «modi di fare» nazionali in un’area di policy così delicata. Accanto  agli obiettivi per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, il Consiglio europeo di Nizza ha inoltre approvato l’Agenda sociale europea, che definisce «priorità d’azione concrete» per il periodo 2001–2005 sulla base di «sei orientamenti strategici in tutti i settori della politica sociale». Non sorprendentemente, uno dei sei orientamenti riguarda proprio «la lotta alla povertà e a tutte le forme di esclusione e discriminazione per favorire l’integrazione sociale». Vale la pena notare che una delle azioni da intraprendere secondo l’Agenda consiste nell’«aiutare i paesi candidati a far propri gli obiettivi della lotta alla povertà e all’esclusione sociale», il che sta a significare che il processo dell’inclusione sociale è considerato parte integrante dell’acquis communautaire. Al termine del Consiglio europeo, è stato raggiunto un accordo sul Trattato di Nizza. La «lotta contro l’esclusione sociale» è oggi enumerata tra quei campi in cui la Comunità «sostiene e completa l’azione degli Stati membri» (articolo 137 del Trattato emendato). Al Comitato per la protezione sociale, CPS,  viene accordato uno status ufficiale (articolo 144): formato da due rappresentanti per la Commissione e per ogni Stato membro, esso ha «carattere consultivo, al fine di promuovere la cooperazione in materia di protezione sociale tra gli Stati membri e con la Commissione».

 

Il ruolo del Comitato per la Protezione Sociale (CPS)

Istituito da una decisione del Consiglio nel giugno 2000, ma operativo solo a partire dal dicembre dello stesso anno, il CPS ha immediatamente scoperto che avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti per difendere l’autonomia della protezione sociale dalle politiche di bilancio. Un esempio è rappresentato dal modo in cui la Commissione ha stilato la sua prima relazione di sintesi sulla strategia di Lisbona, presentata al Consiglio europeo di Stoccolma nel marzo 2001. Basata su una lista di indicatori «strutturali», la relazione di sintesi è il contributo della Commissione al vertice di primavera, e contiene una valutazione dei progressi ottenuti ogni anno nelle aree appartenenti alla strategia di Lisbona.2 I pochi e scarni riferimenti alla strategia per una maggiore coesione sociale fatti dalla relazione di sintesi 2001 scatenarono delle aspre critiche da parte del CPS, che sottolineò come il Rapporto non riflettesse a «sufficienza l’equilibrio generale di Lisbona tra politiche economiche e politiche sociali», né tantomeno «l’importanza che il Consiglio europeo di Lisbona aveva assegnato alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale». Nel corso del 2001, il CPS si è inoltre adoperato per produrre una lista di indicatori di coesione sociale definiti di comune accordo tra gli Stati membri, come prescritto dal mandato del Consiglio europeo di Lisbona. Nel dicembre 2001 il Consiglio ha adottato la lista di diciotto indicatori suggeriti nel rapporto. Gli indicatori sono divisi in due gruppi (dieci primari e otto secondari), abbracciano quattro dimensioni dell’esclusione sociale, segnatamente la povertà finanziaria, la situazione lavorativa, la salute e l’istruzione e sono destinati ad essere utilizzati dagli Stati membri nei NAP/INCL e da Consiglio e Commissione per la relazione congiunta sull’inclusione che verrà presentata nel secondo round del processo di inclusione sociale. In altre parole, mentre nei NAP/INCL del 2001 gli Stati membri sono stati liberi di utilizzare gli indicatori a loro avviso più adeguati, a partire dal 2003 dovranno fare ricorso a quelli concordati congiuntamente e accomodare le specificità nazionali nell’ambito di un terzo gruppo di indicatori che non saranno armonizzati a livello comunitario.

 

La prima fase del processo di inclusione sociale

I NAP/INCL, strutturati secondo un indice comune per facilitare il loro utilizzo nell’ambito di un esercizio di apprendimento reciproco, sono stati presentati dagli Stati membri nel giugno 2001.

Sulla base dei quindici NAP/INCL e di una tornata di incontri bilaterali con gli Stati membri organizzati nel corso dell’estate, la Commissione ha adottato nell’ottobre del 2001 un progetto di relazione congiunta sull’inclusione sociale. Tale bozza è stata poi discussa dalla Commissione stessa e dai rappresentanti degli Stati membri nel CPS, e in tale occasione sono emerse alcune tensioni, generate da quelle sezioni della bozza che classificavano i NAP/INCL sulla base della loro qualità.3 Dopo la rimozione delle sezioni incriminate, la bozza così emendata è stata adottata come relazione congiunta sull’inclusione sociale dal Consiglio, riunito nella formazione «Occupazione e politica sociale» nel dicembre 2001.

 

La relazione congiunta sull’inclusione

La relazione congiunta è un documento di 250 pagine, suddiviso in tre parti: la prima riguarda l’Unione nel suo insieme, la seconda esamina ciascun NAP/INCL e la terza riporta l’elenco degli indicatori utilizzati e gli esempi di buone prassi menzionate dai NAP/INCL. In ciò che segue limiteremo la nostra attenzione alla prima parte della relazione.

Seppure in misura e intensità variabili, anche considerevolmente, tra Stato membro e Stato membro, tutti i NAP/INCL affrontano otto «sfide cruciali»: 1) sviluppare un mercato del lavoro inclusivo e promuovere l’occupazione come un diritto e un’opportunità per tutti; 2) garantire reddito e risorse adeguate a condurre una vita dignitosa; 3) combattere lo svantaggio in materia di istruzione; 4) salvaguardare la solidarietà familiare e tutelare i diritti dei bambini; 4) garantire una buona sistemazione abitativa per tutti; 6) garantire uguali possibilità d’accesso a servizi di qualità (salute, trasporti, servizi sociali, assistenza, cultura, tempo libero, assistenza giuridica); 7) migliorare l’erogazione dei servizi; 8) riqualificare le aree caratterizzate da una molteplicità di svantaggi.

È interessante notare che i punti deboli dei vari NAP/INCL emergono chiaramente dalla relazione congiunta. Nonostante la vocazione di quest’ultima non sia quella di «giudicare le politiche degli Stati membri e la loro efficacia» ma semplicemente «trarre una lezione dalle impostazioni adottate nei vari Stati membri» in modo tale da «contribuire all’identificazione e allo scambio delle buone prassi», un certo numero di lacune dei NAPS/INCL viene identificato esplicitamente. Manca sovente una valutazione rigorosa delle politiche attuate, il che rende estremamente difficoltosa l’individuazione delle misure che davvero meritano lo status di «buone prassi»; in parte a causa del poco tempo disponibile per la loro preparazione, la maggior parte dei NAP/INCL tende a concentrarsi sulle politiche già in atto piuttostoche lanciare nuove iniziative e nuovi approcci di policy; la maggior parte delle politiche proposte non include alcuna stima relativa ai costi loro associati; solo pochi NAP/INCL si spingono oltre generiche aspirazioni per fissare traguardi quantitativi allo scopo di poter valutare i progressi compiuti; alla questione della parità di genere è accordata ben poca visibilità; sebbene le parti sociali e i rappresentanti delle organizzazioni non governative siano stati formalmente consultati nella maggior parte dei paesi, sulla base delle sole informazioni fornite è risultato difficile valutare quale sia stato il loro reale contributo ai NAP/INCL; in generale, il loro coinvolgimento appare limitato; non viene riportata evidenza sufficiente per valutare il reale coinvolgimento degli enti locali e regionali nella stesura NAPS/INCL. 

Molte di queste lacune sono simili a quelle identificate nei piani nazionali d’azione per l’occupazione nei primi anni del processo di Lussemburgo. Inoltre, non è comunque da escludere che, pur insoddisfacenti e disarticolati, i NAP/INCL del 2001 possano aver contribuito alla lotta contro l’esclusione sociale per almeno tre ragioni. Primo. I NAP/INCL hanno dato prova di costituire una notevole fonte di informazioni «dal basso», gettando luce su quelli che ciascuno Stato membro percepisce come gli aspetti importanti e ben funzionanti delle proprie politiche, facilitando così la policy discovery da parte degli  altri Stati membri. In breve, i nuovi NAP/INCL hanno mostrato un «potenziale euristico». Secondo. La necessità di elaborare i NAP/INCL ha spinto molti dei governi nazionali e locali coinvolti a consolidare o addirittura creare dal nulla delle strutture (e delle capacità) volte alla progettazione e al monitoraggio delle politiche di contrasto all’esclusione sociale: i nuovi NAP/INCL hanno pertanto messo in mostra un «potenziale di costruzione delle capacità istituzionali». Terzo, infine. Nel redigere i NAP/INCL, i responsabili politici nazionali hanno avuto occasione di mettere alla prova l’adeguatezza delle basi informative delle varie politiche e di individuare debolezze nell’efficacia o nell’equità delle politiche stesse o strozzature e tensioni nei meccanismi di coordinamento istituzionale (ad esempio tra i livelli nazionali e quelli locali). In questo senso i NAP/INCL hanno dato prova di un  potenziale maieutico».4 Resta ovviamente da vedere  se in futuro queste potenzialità si tradurranno in realtà.

 

Conclusioni e raccomandazioni di politica pubblica

Come la precedente discussione dimostra, il nuovo «processo di inclusione sociale» dell’Unione europea segna uno sviluppo importante nella lotta contro la povertà e l’esclusione sociale in Europa. Una nuova fase è dunque cominciata, caratterizzata da un’impostazione più strutturata e, forse, da una maggiore determinazione a raggiungere risultati reali, che si traducano cioè in miglioramenti tangibili negli standard di vita di almeno una parte di quegli europei che sono stati (o rischiano di essere) lasciati indietro. Inutile dire che l’esito finale di questa nuova fase è ancora sconosciuto, giacché tante sono le possibilità e tanti i rischi. Le circostanze sono note a tutti. Come per la politica sociale in senso lato, la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale è un’area gelosamente custodita dagli Stati membri. Se è vero che la coesione sociale è un principio che nessun politico può permettersi di non avere a cuore, all’atto pratico il grado di priorità che le viene attribuita è determinato da una vasta serie di fattori, che vanno dalla «visibilità» del problema, all’esistenza di strutture di policy adeguate, alla forza delle organizzazioni non governative, all’influenza dei gruppi di pressione, all’atteggiamento delle forze politiche e così via. Il fatto che queste componenti possano differire (e differiscano) significativamente da uno Stato membro all’altro pone un limite alla profondità e velocità del coordinamento delle policy e vanifica dal punto di vista politico qualsiasi approccio che non adotti un «metodo aperto». I rischi sono altrettanto evidenti: in mancanza di sanzioni (come nel caso del traguardo dell’Unione economica e monetaria) o anche soltanto di linee guida (come nel caso della Strategia europea per l’occupazione), l’intero processo potrebbe scadere in un mero rituale in cui ogni due anni si «mette il vestito buono» alle politiche già esistenti, almeno per quanto riguarda quei governi che hanno poca inclinazione a dedicare energia e risorse a questa area di policy.

In ragione di quanto detto, è lecito porsi il seguente interrogativo: può il nuovo processo generare risultati politici significativi? Per noi la risposta è affermativa, purché vi sia l’impegno sufficiente e a condizione che si adottino misure supplementari per sostenere e rendere più efficace il processo. In primo luogo, i processi inevitabilmente separati dei piani d’azione nazionale per l’occupazione e per l’inclusione sociale dovrebbero essere progressivamente avvicinati. La prima ragione è piuttosto ovvia: il lavoro rimane il modo più efficace per affrancarsi dall’esclusione sociale. La seconda è più sottile e forse più controversa. Il binomio «sicurezza e flessibilità» (flexicurity) è divenuto un paradigma di politica pubblica di importanza primaria, ma implica che si agisca su entrambi i fronti: dal lato della politica per l’occupazione (uno sforzo graduale e negoziato per rendere i mercati del lavoro più flessibili) e da quello della politica sociale (un chiaro impegno a elevare gli standard di protezione sociale e a rendere le reti di protezione sociale più forti e più fitte). Collegare i due processi è fondamentale per creare fiducia e per convincere coloro che nutrono scetticismo nei confronti della flexicurity: Occorre in altre parole promuovere la credibilità dell’operazione come strategia capace di migliorare contestualmente tanto l’efficienza che la giustizia sociale.

Evitare nella misura del possibile di compiere solo operazioni cosmetiche implica necessariamente un’apertura dei piani d’azione nazionali alle parti sociali e alle organizzazioni non governative. Realisticamente, la responsabilità generale rimane nelle mani dei governi, e non potrebbe essere altrimenti, ma la partecipazione attiva della società civile è assolutamente essenziale per assicurare che i piani nazionali d’azione raggiungano il proprio scopo. Il coinvolgimento di tali organizzazioni (e, presumibilmente, dei rappresentanti dei poveri e dei socialmente esclusi) potrebbe essere reso più sostanziale se procedure semiformali di consultazione fossero istituite a livello nazionale ed europeo.

Il significato della Raccomandazione 441/92 per l’evoluzione di una politica europea contro la povertà e l’esclusione sociale è oramai ampiamente riconosciuto. La mera adozione di una Raccomandazione sulle «risorse sufficienti» nel contesto politico dei primi anni Novanta è un riflesso del fatto che, nonostante le discrepanze tra regimi di welfare, tradizioni istituzionali, preferenze politiche, l’esistenza di un minimo garantito al di sotto del quale non si può vivere decentemente rappresenta una componente chiave del «modello sociale europeo». Dieci anni dopo, forse è giunto il momento per una nuova iniziativa politica dal duplice scopo: estendere la portata della Raccomandazione 441/92 al di là del reddito garantito per includere garanzie su sanità, alloggio e formazione continua, ma anche incoraggiare la messa in atto di schemi di reddito minimo (o equivalenti funzionali) pienamente sviluppati in tutti gli attuali Stati membri dell’Unione europea e in quelli destinati ad esserne parte in futuro.5

 

 

Bibliografia

1 Si noti che la lotta all’esclusione sociale è parte di tale strategia.

2 Gli «indicatori strutturali» riguardanti la protezione sociale si riferiscono essenzialmente alla dispersione dei redditi, alla povertà e alla persistenza in stato di povertà, alla disoccupazione e all’abbandono scolastico.

3 La Commissione aveva diviso i NAP/INCL in quattro gruppi: il primo comprendeva quelli di Danimarca, Francia e Paesi Bassi, che danno prova di «un approccio olistico, teso a sostenere il mutamento strutturale» e di una risposta proattiva alle sfide chiave, inserita in un quadro che include orizzonti temporali, obiettivi e traguardi quantitativi. I NAP/INCL di Portogallo, Finlandia, Svezia e Regno Unito comparivano nel secondo gruppo: essi venivano definiti «solidamente fondati sulle diagnosi dei rischi e delle sfide fondamentali, fissando degli approcci ragionevolmente coerenti e strategici». I NAP/INCL di Belgio, Germania, Spagna, Italia ed Irlanda venivano inseriti nello stesso gruppo in quanto «contengono elementi di una strategia nazionale alla quale si stanno apportando dei miglioramenti, così da riflettere le nuove realtà o da renderla maggiormente coerente», ma non fissano traguardi nazionali e neppure, nel caso dei primi quattro paesi, regionali o locali. Nel quarto gruppo sono finiti i NAP/INCL di Grecia, Lussemburgo ed Austria, che «forniscono essenzialmente un’istantanea della situazione della povertà e dell’esclusione sociale e delle politiche in vigore» senza presentare traguardi quantitativi a lungo termine.

4 Questo potrebbe essere il caso della situazione descritta dalla relazione congiunta laddove, per quanto riguarda i senzatetto, essa nota che «la maggior parte degli Stati membri ammette di sapere troppo poco sulle dimensioni e la natura del problema, ciò che li ostacola nell’elaborazione di misure maggiormente strategiche e preventive».

5 Pubblicato come Open co-ordination against poverty: the new EU «social inclusion process», in «Journal of European Social Policy», III 2002. Copyright © Sage Publications Ltd, 2002, www.sagepub.co.uk. Un’altra versione del saggio è in corso di stampa su «L’assistenza sociale».