Dove sbaglia Blair

Written by Laura Pennacchi Friday, 01 November 2002 02:00 Print

In questo pamphlet Tony Blair rilancia con molta passione il tema del rinnovamento dei servizi pubblici per il futuro della Gran Bretagna. Di tale passione mi preme anzitutto evidenziare tre aspetti. Il primo concerne la netta rivendicazione di appartenenza alla grande tradizione riformatrice laburista che mise in opera, subito dopo la seconda guerra mondiale, le istituzioni del welfare.

 

In questo pamphlet Tony Blair rilancia con molta passione il tema del rinnovamento dei servizi pubblici per il futuro della Gran Bretagna. Di tale passione mi preme anzitutto evidenziare tre aspetti. Il primo concerne la netta rivendicazione di appartenenza alla grande tradizione riformatrice laburista che mise in opera, subito dopo la seconda guerra mondiale, le istituzioni del welfare. La necessità di andare oltre l’assetto del 1945 – con le sue caratteristiche di standardizzazione e uniformità tipiche dell’epoca – poggia su un insistito orgoglio che configura il welfare state e l’espansione delle opportunità educative come creature del Labour, «gioielli» ideati da eroi ed eroine politiche che hanno combattuto quelli che Beveridge definì i cinque giganti del Bisogno, della Malattia, dell’Ignoranza, dello Squallore, della Disoccupazione. Le tappe di una storia di battaglie sono ricordate una per una, dalle azioni del governo Attlee, alla creazione del National Health Service nel 1948, alle iniziative di Crosland, di Wilson, di Callaghan, tutte volte a respingere, in nome del progresso, il motto Tory «more means always worse».

Il secondo aspetto è connesso con il primo. I nuovi traguardi di riforma – nel senso dell’incremento della «qualità» e delle possibilità di «scelta» – debbono «migliorare» i servizi pubblici, non certo sostituirli o smantellarli. Il valore della loro natura pubblica è ribadito da Tony Blair con vigore e con esso è ribadita la necessità di una «offerta collettiva». Infatti, «non c’è una soluzione privata di mercato» idonea a finalizzare le opportunità educative a sanare le carenze di mobilità sociale, così come la cura della salute in tempi di tecnologie crescentemente costose e di più lunghe aspettative di vita non potrà essere realizzata senza una «fornitura collettiva». Servizi pubblici essenziali offerti collettivamente – continua Blair – rimangono fondamentali per la maggioranza delle famiglie inglesi che non potranno mai rivolgersi al privato e per correggere alcune fra le più profonde disuguaglianze che affliggono l’Inghilterra. Proprio se il disegno di riforma è volto a riconciliare i due impulsi più importanti dei tempi presenti – quello a una maggiore individualizzazione e quello al rafforzamento dei legami di solidarietà in un mondo in cui scambi e tecnologie accrescono l’interdipendenza –, il bisogno di un governo (government) attivo e di forti servizi pubblici è più cruciale che mai. Sotto questo profilo Tony Blair sembra qui ridimensionare la «retorica »1 che caratterizzò i governi del suo primo mandato (esaltante il passaggio from government to governance) e tornare a sottolineare anche gli aspetti «duri» di administration intrinseci ad efficaci politiche pubbliche volte a realizzare la giustizia sociale e, dunque, «l’eguaglianza delle opportunità» e «l’eguaglianza di valore», concetti anch’essi meritevoli di ulteriori approfondimenti.

Il terzo aspetto trova nel pamphlet meno spazio dei primi due, tuttavia si manifesta in due passaggi molto chiari. Si tratta della rivendicazione che Tony Blair fa di non aver esitato ad innalzare le tasse per finanziare una strategia di lungo termine di riqualificazione dei servizi pubblici. Per un partito che dovette vincere le elezioni del 1997 cercando di contrastare la vulgata che lo rappresentava come tax and spend non è un’affermazione di scarso significato; né la sua importanza è ridotta – come molti europei ed italiani, anche di sinistra, dicono – dalla circostanza che la pressione fiscale inglese è al di sotto di quella media europea: più del 39% a fronte di circa il 42%. Essa, infatti, è cresciuta dal 1997 anche in modi indiretti e inconsueti (come la tassazione imposta ai sovrapprofitti delle imprese privatizzate). La campagna elettorale del 2001 ha visto un esplicito dibattito con i cittadini in ordine alla necessità di maggiori entrate pubbliche per migliorare trasporti e sanità. Le diminuzioni di pressione fiscale che erano state programmate in Francia, Germania, Italia – alcune ora sono state sospese per la necessità di far fronte a grandi emergenze collettive – e l’innalzamento in corso in Gran Bretagna convergono verso un livello di pressione fiscale medio per l’Europa tra il 40% e il 41%, al di sotto del quale il «modello sociale europeo» non potrebbe più essere rinnovato ma verrebbe semplicemente demolito.

Del resto, non è un caso che il pamphlet odierno di Tony Blair sia proposto dalla Fabian society, cioè proprio da quella istituzione che negli ultimi tre anni ha dedicato una notevole mole di energie a interrogarsi sulla opportunità di una politica fiscale di sinistra. Lo studio Paying for Progress2 lamenta l’acquiescenza che c’è stata anche nel centrosinistra nei confronti della potente ideologia neo-liberale che per vent’anni ha accomunato in un unico trinomio – considerato intrinsecamente dannoso – tassazione, Stati e governi, facendo così scomparire dalla scena pubblica un dibattito meditato sulla tassazione. L’inerzia di una riflessione pubblica su tali temi – argomenta la Fabian society – ha prodotto quel fenomeno generalizzato per cui le scelte di politica fiscale non sono più sembrate appartenere alla discriminante destra/sinistra: da entrambi i lati è apparso dominante un unico slogan, diminuire le tasse, senza considerarne gli effetti ridistribuivi perversi e le implicazioni negative sul livello e sulla qualità dei servizi. Il New Labour sembra ora respingere la ridefinizione della questione fiscale nei termini angusti imposti dai conservatori e tornare a puntare su politiche attive, sull’offerta di servizi di alta qualità, sull’approfondimento dei legami coesivi tra cittadini e dei legami di fiducia tra cittadini e Stato.

A che cosa Tony Blair finalizza, nel suo pamphlet, le trasformazioni che vanno apportate al sistema dei servizi pubblici britannici per renderlo meglio in grado di far fronte alle sfide del presente e del futuro? Gli obiettivi sono sostanzialmente due: contrastare la drammatica carenza di investimenti lasciata in eredità dalla Thatcher; introdurre riforme nei sistemi pubblici in modo da sburocratizzarli, elevarne la qualità, personalizzarne l’erogazione, rafforzare la facoltà di scelta. Il tutto sintetizzato nello slogan «servizi universali, offerta personalizzata». L’importanza del primo dei due obiettivi è testimoniata da dati drammatici. Dagli anni Sessanta nessun nuovo ospedale è stato aperto in Gran Bretagna. Negli ultimi vent’anni il numero di infermieri è cresciuto di meno del 20%, a fronte del 65% dei paesi europei similari. Come conseguenza dei tagli dei Tories la Gran Bretagna ha il minor numero di medici sulla popolazione. La quota del reddito nazionale destinata all’education è diminuita significativamente, metà dei sedicenni non riceve una buona qualificazione e migliaia di giovani lasciano ogni anno prematuramente la scuola, senza aver ricevuto qualificazione alcuna.

Dalla vittoria del New Labour nel 1997 molte cose positive sono state fatte. Il numero dei componenti le classi è diminuito, ci sono ventimila insegnanti in più e lo staff di supporto è aumentato di ottantamila unità. Sono stati aperti 14 nuovi ospedali e altri 54 stanno per essere attivati, le «code» in sanità sono state ridotte (anche se di poco). Tuttavia, Tony Blair ricorda quanto rimanga da fare: gli investimenti pubblici debbono crescere nei prossimi cinque anni, in termini reali, a tassi annui mai prima sperimentati, il 7,5% nella sanità, il 6% nell’education e nei servizi sociali. È dunque fondamentale per finanziare così rilevanti investimenti, associare alle entrate pubbliche risorse private, così come accade nel quadro della Public finance initiative (PFI), con cui si finanziano i nuovi ospedali, e con la Public-private partnership (PPP), la quale fornisce nuovi metodi con cui i privati finanziano miglioramenti negli edifici e nelle facilities pubbliche. La seconda finalità mira a introdurre cambiamenti rilevanti nelle modalità di operare dei servizi pubblici e quindi nel grado di soddisfazione delle esigenze degli utenti. Tony Blair indica quattro principi di riforma: standard nazionali garantiti; decentramento di poteri e innovazione a livello locale; un new deal per il pubblico impiego; più ampia scelta per il consumatore. In realtà, l’idea di fondo è di utilizzare la capacità produttiva addizionale creata dai nuovi investimenti – nei quali sono essenziali i programmi ispirati dalla Public-private partnership – per diffondere l’eccellenza, estendere la qualità e così soddisfare meglio le aspettative dei moderni consumatori, in particolare consentendo loro più autonomia e più scelta. Scelta è, in effetti, la parola chiave.

Gli standards indicano i target e i livelli sotto i quali nessun servizio pubblico deve scendere. Il principio del decentramento è volto a rafforzare le leadership locali – nelle scuole, negli ospedali, nelle authority preposte ai servizi di abitazione – dando loro più autonomia e più responsabilità per promuovere una pluralità di esperienze, anche con la possibilità di una tensione tra la necessità di rispettare gli standard nazionali e la sollecitazione a far fiorire le diversità locali, ma – dice Blair – senza riprodurre la versione Tory celebrante un «nuovo localismo». Ai dipendenti dei servizi pubblici viene offerta la prospettiva di una maggiore professionalizzazione e di contribuire a creare un nuovo ethos pubblico, in cui più investimenti, maggiori ingressi, migliori paghe e condizioni di lavoro, nuove opportunità di carriera si saldino con più elevato impegno professionale, maggiore flessibilità, minore frustrazione, nuova formazione. Più che nel passato, e consapevole della lunga mortificazione a cui le politiche thatcheriane hanno condannato i dipendenti pubblici, Tony Blair si propone di valorizzare la forza della loro motivazione e delle loro vitali qualità, come la lealtà, l’altruismo, la cura, la socialità, l’orgoglio della professione. I programmi PPP e la maggiore facoltà di scelta sono speculari gli uni all’altra ed entrambi convergono verso soluzioni volte a dare maggiore spazio al privato. Anche qui le affermazioni di Tony Blair sono molto nette: nessuno pensa a forme di privatizzazione surrettizia; ciò che rende i servizi pubblici così speciali è il fatto che essi sono goduti sulla base della cittadinanza e del bisogno, non della disponibilità a pagare; la scelta e la qualità vanno offerte universalisticamente e non soltanto a una minoranza in grado di esercitare l’opting out, cioè di fuoriuscire dal sistema pubblico e di ricorrere alla scuola o alla sanità privata o di utilizzare un’assicurazione privata.

Dunque, sono proprio le indicazioni relative alla Public-private partnership e alla facoltà di scelta che vanno vagliate con maggiore attenzione e sottoposte a un rigoroso esame critico. Si possono fare diversi tipi di osservazioni. Alcune sono più generali. Per esempio, la qualità, che dovrebbe essere l’obiettivo più importante, non coincide con la libertà di scelta. Presumere che coincidano, o fare sì che coincidano, induce a trascurare molti fattori e politiche di incremento della qualità che, viceversa, potrebbero essere attivate, siano esse o meno associate con una maggiore facoltà di scelta. In alcuni casi la facoltà di scelta è limitata o inesistente, ma questo non esime dal cercare una maggiore qualità. In altri la libertà di scelta può essere effettiva e tuttavia non riuscire a trainare un incremento della qualità. Inoltre, la libertà di scelta può essere innalzata anche rimanendo all’interno del settore pubblico. Un esempio è dato dalla scuola pubblica quando questa espande la possibilità di scegliere fra vari curricula al proprio interno. Anche le pratiche di associazionismo civile legate all’offerta pubblica integrata di servizi possono essere viste come modalità di dilatazione della possibilità di scelta.

Altre osservazioni sono più specifiche e riguardano i meccanismi applicativi, in ordine sia all’equità che all’efficienza. Le preoccupazioni possono essere più o meno rilevanti nei diversi casi, i quali andrebbero presi in considerazione singolarmente, a seconda della natura del servizio erogato e della struttura attraverso cui avviene l’erogazione: il caso delle metropolitane, ad esempio, differisce da quello dei sistemi sanitari e questo dall’istruzione, e così via. Tuttavia, per i «beni sociali» fondamentali, le estensioni della facoltà di scelta che si risolvano nell’introduzione di elementi di mercato nei servizi pubblici hanno molte controindicazioni sul piano dell’equità. In primo luogo la segmentazione inevitabile fra individui appartenenti a gruppi socio-economici diversi farebbe sì che i più abbienti, privati di un contatto diretto con gli altri, o ignorino le esigenze altrui o, quand’anche non le ignorino, maturino estraneità e persino diffidenza verso i diversi, venendo con ciò leso quel principio di affinità e di omogeneità culturale che è la base della cittadinanza. Anche le propensioni alla redistribuzione potrebbero così venire intaccate, così come potrebbe essere influenzata, risultandone innalzata, la tolleranza verso le ineguaglianze. La concessione di bonus in cui concretizzare la facoltà di scelta potrebbe indurre a sottovalutare il carattere complesso dello svantaggio individuale, differenziato a seconda che si sia sani o malati, che si possieda o no la casa in cui si abita, che si sia giovani o anziani, ecc.

Alcuni servizi hanno tipica natura di «beni associativi»3 e il loro godimento non può che avere carattere associativo, i cittadini debbono cioè consumarli insieme perché il loro valore sia estrinsecato. L’istruzione è uno di questi beni, non fruibile se non per via associativa. Ciò a maggior ragione – vista l’enfasi che si attribuisce all’eguaglianza delle opportunità – se l’incremento di qualità più importante è per coloro che provengono da ambienti svantaggiati e per i quali, dunque, è fondamentale la socializzazione con coloro che provengono dagli ambienti più avvantaggiati. Infine, la minimizzazione dei costi combinata con la libertà di scelta può generare pratiche di «scrematura» che discriminano i soggetti più costosi da trattare, le persone più malate o gli studenti più difficili da istruire.4 I più poveri sono peraltro maggiormente penalizzati da eventuali pratiche di «scrematura» e, dunque, lesione potrebbe esserci anche per gli obiettivi ridistribuivi. Né la discriminazione a danno dei casi costosi può essere agevolmente neutralizzata dalla differenziazione degli schemi di pagamento, resa problematica dalle asimmetrie informative. Il piano Dekker in Olanda, che si proponeva di realizzare un sistema di buoni diversificato in base all’esposizione al rischio, si è scontrato contro la difficoltà di selezionare i beneficiari. D’altro canto, la difficoltà dell’azione di controllo è direttamente proporzionale alla potenza degli incentivi e quest’ultima, a sua volta, può esasperare gli effetti negativi da controllare.5 Pertanto, di fronte ad asimmetrie informative profonde ed estese, gli incentivi non di mercato propri dell’azione pubblica potrebbero rivelarsi più efficaci degli incentivi di mercato.6

Non meno importanti sono le controindicazioni sul piano dell’efficienza e dell’efficacia. Innanzitutto con soluzioni di mercato i costi amministrativi possono crescere esponenzialmente. Sia quelli propriamente tali, per esempio connessi alla moltiplicazione delle pratiche di rimborso a cui saranno tenute le assicurazioni sanitarie o connessi alla necessità di arginare la «selezione avversa», fenomeno intrinseco alla produzione mercatistica di «beni sociali». Sia quelli più strettamente di controllo, per verificare, ad esempio, l’appropriatezza delle prescrizioni e delle prestazioni. I costi dei controlli di quest’ultimo tipo sono propri anche dell’ambito pubblico, specie se dotato di una metodologia di standard. Ma esiste una spinta aggiuntiva all’incremento di tali costi imputabile esclusivamente all’introduzione di elementi di mercato, come dimostra il sistema pensionistico, per il quale il controllo sull’appropriatezza non appare importante, e dove tuttavia le soluzioni private presentano costi amministrativi pari al 30-40% dei premi, a fronte del 2% delle soluzioni pubbliche.7 Più in generale, in presenza delle asimmetrie informative proprie dei «beni sociali», i costi di controllo sono enormi, anche per quanto riguarda l’opportunismo: dipendenti pubblici «lavativi» potrebbero essere stimolati ad un maggiore sforzo dall’introduzione di elementi di mercato, ma questi stessi elementi, date le imperfezioni informative, possono risolversi nella pura e semplice sostituzione di una forma di opportunismo con un’altra.

Inoltre, l’introduzione di elementi di mercato può non consentire il raggiungimento degli obiettivi desiderati. Si consideri l’obiettivo della qualità. Studi americani8 hanno empiricamente dimostrato che la privatizzazione delle carceri è associata ad un incremento delle esplosioni di violenza all’interno del sistema carcerario e alla diminuzione del numero di carcerati recuperati a una vita più corretta. Più in generale, la spinta alla minimizzazione dei costi, le remunerazioni incentivanti e la concorrenza rischiano di generare esiti opposti a quelli desiderati, e cioè di ridurre la qualità, specie per gli aspetti meno osservabili e per quelli in grado di generare «effetti esterni positivi»9, come è accaduto in sanità con la riduzione delle pratiche di «ascolto» dei pazienti. Si valuti anche l’obiettivo di una maggiore appropriatezza delle prescrizioni. Dall’osservazione del servizio sanitario lombardo apprendiamo che la concorrenza attivata dagli utenti può condurre ad un’esplosione della spesa per servizi senza alcun riguardo per la appropriatezza. Tra il 1995 e il 1999, mentre i ricoveri negli ospedali pubblici crescevano del 3,6%, quelli negli ospedali privati sono aumentati del 58% e una buona quota di questo incremento è dovuta ai ricoveri più remunerativi secondo le tariffe esistenti, tanto che il pubblico realizza per 1,5 milioni di ricoveri remunerazioni pari a 2,75 miliardi di euro e il privato realizza per 300.000 ricoveri remunerazioni per ben 790 milioni di euro. Lo stesso accade per le prestazioni ambulatoriali dove al privato va il 78% dei ricavi e al pubblico solo l’8%.10

Anche il puro e semplice contenimento dei costi monetari non è affatto detto che possa avvenire nella misura auspicata. Proprio l’esperienza inglese in sanità mostra la seguente banalità: investire con la finanza di progetto e con società a capitale misto può allentare i vincoli finanziari ma richiede pur sempre garanzie pubbliche e ciò alla fine produce un costo non diverso da quello a cui danno luogo i tradizionali strumenti di indebitamento.11 In tutti i casi il rischio dell’investimento non viene affatto trasferito sul privato. Non diversamente, la concessione in affitto è difficile che incentivi la manutenzione delle strutture, così come l’innovazione può essere scoraggiata se i diritti di proprietà non sono chiari. Quando, viceversa, l’innovazione sia comunque alimentata, può esserci il rischio che, allo scopo di sfruttare pienamente le tecnologie disponibili, venga attivata una domanda artificiosa e impropria, con conseguenze tanto sull’appropriatezza delle prescrizioni quanto sulla proliferazione della spesa e dei costi. Infine, una maggiore produzione privata, a cui sia stata data vita con processi di esternalizzazione inevitabilmente accompagnati da limiti alla contendibilità e da obblighi alla continuità della prestazione, potrebbe generare gruppi di pressione in grado da un lato di contrastare eventuali sanzioni, dall’altro di imporre costose rinegoziazioni delle tariffe.

 

 

 

Bibliografia 

1 R. A. Rhodes, The Governance Narrative, Economic and Social Research Council, London 1999.

2 Commission on taxation and citizenship, Paying for Progress, Fabian Society, London 2000.

3 H. Hansmann, The Changing Roles of Public, Private and Nonprofit Enterprise in Education, Health Care and Other Human Services, in V. Fuchs, Individual and Social Responsibility: Child Care, Education, Medical Care, and Long-Term Care in America, Chicago University Press, Chicago 1996.

4 J. Le Grand, The Quasi Market Experiments in Public Service Delivery: Did they Work?, documento presentato alla conferenza di Pontignano, 6-8 Aprile 2001.

5 E. Granaglia, Mercato e welfare, in «Parole chiave», 2002.

6 O Williamson, Public and Private Bureaucracies: a Transaction Cost Economic Perspective, in «Journal of Law, Economics, and Organizations», 15, 1999.

7 P. R Orszag., J. Stiglitz, Rethinking Pension Reform: Ten Myths About Social Security Systems, in «New Ideas About Old Age Security: Toward Sustainable Pension Systems in the 21st Century», World Bank, Washington D. C., 2001; N. Barr, The Welfare State as Piggy Bank, Oxford University Press, Oxford, 2002.

8 O. Hart et al., The Proper Scope of Government: Theory and Applications to Prisons, in «Quarterly Journal of Economics», 112, 1997.

9 E. Granaglia, op.cit.

10 L. Carra, G. Padovani, Sanità: modelli a confronto, in «Le Scienze», maggio 2002.

11 S. Boyle, A. Harrison, Investing in Health Buildings: Public-Private Partnership, Institute of Public Policy Research, London 2000.