Ma su informazione e giustizia si rischia il regime

Written by Nicola Tranfaglia Monday, 01 April 2002 02:00 Print

Da molte settimane, ormai, si discute su una questione abbastanza singolare: nei dieci mesi di governo Silvio Berlusconi ha lavorato per costruire una sorta di regime ed è già a buon punto nell’impresa o, al contrario, ha svolto soltanto una politica di centrodestra già annunciata dalla Casa delle Libertà, durante la lunga campagna elettorale che ha preceduto il 13 maggio 2001? A questo interrogativo le risposte sono state molte e molto diverse tra loro. La mia risposta, condivisa peraltro da alcuni osservatori stranieri e italiani, è che il regime non ci sia ancora ma che, se il governo non modifica la linea perseguita negli ultimi otto mesi, è molto probabile che a esso si arrivi. Naturalmente, pur nei limiti di spazio previsti dalla rivista, vorrei argomentare con la maggior chiarezza possibile le ragioni che mi spingono a una simile conclusione.

 

Da molte settimane, ormai, si discute su una questione abbastanza singolare: nei dieci mesi di governo Silvio Berlusconi ha lavorato per costruire una sorta di regime ed è già a buon punto nell’impresa o, al contrario, ha svolto soltanto una politica di centrodestra già annunciata dalla Casa delle Libertà, durante la lunga campagna elettorale che ha preceduto il 13 maggio 2001? A questo interrogativo le risposte sono state molte e molto diverse tra loro. La mia risposta, condivisa peraltro da alcuni osservatori stranieri e italiani, è che il regime non ci sia ancora ma che, se il governo non modifica la linea perseguita negli ultimi otto mesi, è molto probabile che a esso si arrivi. Naturalmente, pur nei limiti di spazio previsti dalla rivista, vorrei argomentare con la maggior chiarezza possibile le ragioni che mi spingono a una simile conclusione.

È riconosciuto da pressoché tutti gli studiosi della democrazia che Alexis de Tocqueville, nella sua Democrazia in America (1835), aveva ragione a indicare nell’autonomia e indipendenza della magistratura e nella libertà di espressione e diffusione del pensiero i due pilastri fondamentali di una società libera e democratica. Ebbene oggi, nel nostro paese, sono proprio questi due pilastri a essere gravemente in pericolo e mi pare che nessuno possa negarlo. Silvio Berlusconi è, nello stesso tempo, il capo del governo, il leader del maggior partito e della coalizione che ha ottenuto, sia pure di misura, la vittoria nelle elezioni, e il proprietario o controllore della parte preponderante delle radio e delle televisioni via etere, della stampa quotidiana e settimanale, del sistema pubblicitario per i media, del mondo editoriale, per non parlare delle assicurazioni.

Una concentrazione di poteri e di controllo di questo genere non hanno l’uguale in alcun paese europeo e occidentale, come ha dichiarato con chiarezza Freimut Duve, commissario dell’OSCE per la libertà dei media. Berlusconi si trova ad essere, nello stesso tempo, il concessionario per l’esercizio televisivo e quello che deve concedere le licenze. In campo editoriale è, nello stesso tempo, il maggior editore italiano e il politico che deve proporre e decidere la politica del governo in campo editoriale. E potremmo continuare nell’esemplificazione anche perché il disegno di legge Frattini, destinato a essere approvato entro il maggio prossimo, pur con l’inasprimento di alcune possibili sanzioni, non prevede di tagliare alla base l’intreccio, che possiamo chiamare conflitto d’interesse, che assicura a Berlusconi l’assoluto dominio dei media. Del resto sono alcuni mesi che verifichiamo il cambiamento politico di alcuni grandi testate come il «Corriere della Sera» e «La Stampa». Ma anche «La Repubblica» comincia a mutare registro e a diventare cauta in molte questioni.

Inoltre il problema delle libertà di informazione non è costituito soltanto, come sanno tutti quelli che studiano la comunicazione, dalle tesi politiche sostenute dall’uno o dall’altro mezzo, ma dal silenzio che giornali e televisioni praticano di fronte a problemi e avvenimenti segnalati da chi non fa parte della maggioranza di governo o dai partiti che la sostengono. In un saggio sull’informazione appena uscito in un volume collettivo edito da Laterza intitolato Governo Berlusconi: le parole, i fatti, i rischi, ho già segnalato una serie di casi che riguardano giornali e telegiornali proprio a proposito del silenzio o dell’informazione gravemente incompleta su questioni importanti. E questo avveniva prima ancora che Berlusconi estendesse di fatto il suo controllo alle tre reti RAI attraverso la nomina della maggioranza del nuovo consiglio di amministrazione. Sono convinto da tempo della necessità di modificare la situazione attuale nel campo delle telecomunicazioni, e so anche che il centrosinistra non ha fatto nei cinque anni di governo trascorsi quello che avrebbe dovuto. Questo però non può impedire di denunciare come la situazione intervenuta dopo il 13 maggio 2001 sia ancora peggiore che in passato.

Il secondo dei pilastri fondamentali della nostra democrazia che sintetizzerei nella difesa della legalità e di una magistratura indipendente dall’esecutivo è, senza dubbio alcuno, in pericolo. Basta ricordare la legge sulle rogatorie, quella sul rientro dei capitali illegali, ormai vigenti, e soprattutto il disegno di legge per le modifiche al sistema di elezione del CSM. A ciò si aggiunge la piattaforma della legge delega che intende riformare l’ordinamento giudiziario italiano e che vuol porre i magistrati dell’accusa sotto il controllo del potere esecutivo, concedendo alla maggioranza parlamentare il potere di determinare di volta in volta la priorità dei reati da perseguire. In una situazione come quella italiana, contrassegnata da una commistione tra politica e affari ancora assai forte, come dimostrano vicende anche recenti (il caso Odasso in Piemonte, per non citare che l’ultimo) e da indici di illegalità assai ampi, il pericolo rappresentato da questa politica del governo è che la magistratura diventi prossimamente un braccio dell’esecutivo e discrimini tra i cittadini e i politici. Se così fosse anche l’altro pilastro della nostra democrazia crollerebbe. Non parlo di altri provvedimenti in via di approvazione che, a mio avviso, intervengono pesantemente sullo spirito democratico della Costituzione repubblicana e che riguardano campi diversi, da quello della scuola a quello dell’immigrazione, ma, restando ai due settori iniziali, credo sia difficile non esprimere preoccupazioni forti; e ciò non in quanto uomini di sinistra, ma in quanto democratici che si oppongono all’instaurazione di una sorta di regime.

Parlare, come qualcuno ha fatto in queste settimane, di un nuovo fascismo non ha senso giacché quel fenomeno è consegnato alla storia del periodo tra le due guerre e di uno stadio di sviluppo, nel passaggio dal modello agricolo o agricolo-industriale a quello industriale, che non è più attuale in questi tempi. Penso invece al delinearsi di un regime populista e plebiscitario che riduca di molto la possibilità di un’alternativa democratica, renda assai difficile attuare un’opposizione efficace, conduca all’inevitabile riscrittura di ambedue le parti della Costituzione repubblicana del 1948. Parlo di «regime» non attuato ma già visibile e destinato a realizzarsi proprio pensando alle difficoltà di mantenere un’alternanza di fronte alla evidente sproporzione dei mezzi a disposizione ma anche all’agibilità sempre più scarsa dei mezzi di comunicazione come dell’autonomia dei giudici. Girando l’Italia, invitato non solo e non tanto da organizzazioni politiche dell’opposizione, quanto da circoli culturali giovanili e da iniziative di cosiddetti «autoconvocati», nelle ultime settimane ho sentito sempre più interventi di persone che il 13 maggio hanno votato per la Casa delle Libertà. Questi cittadini immaginavano una riedizione dei governi democristiani di antica memoria, ma sono giunti oggi alla conclusione che ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo che con quello ha scarse parentele. Ed è questo che da molti mesi penso anch’io.