I diritti alla frontiera dell'innovazione

Written by Andrea Ranieri Monday, 01 April 2002 02:00 Print

In una riflessione dedicata al futuro, al cambiamento epocale che l’economia, la società e il lavoro stanno attraversando, vorrei soffermarmi sul concetto di resistenza. Sapendo che in tempi di grande cambiamento è pressoché inevitabile che emerga la tendenza non solo delle grandi istituzioni politiche e di rappresentanza, ma anche delle persone in carne ed ossa, a ricercare delle sicurezze – il senso da dare alla propria vita e al proprio lavoro – nella memoria del passato, in quegli istituti e in quelle modalità di confronto che hanno permesso non solo alla nostra economia di crescere e svilupparsi, ma anche alle persone di fare figli e di allevarli, di comprarsi una casa, di avere una pensione dignitosa.

 

In una riflessione dedicata al futuro, al cambiamento epocale che l’economia, la società e il lavoro stanno attraversando, vorrei soffermarmi sul concetto di resistenza. Sapendo che in tempi di grande cambiamento è pressoché inevitabile che emerga la tendenza non solo delle grandi istituzioni politiche e di rappresentanza, ma anche delle persone in carne ed ossa, a ricercare delle sicurezze – il senso da dare alla propria vita e al proprio lavoro – nella memoria del passato, in quegli istituti e in quelle modalità di confronto che hanno permesso non solo alla nostra economia di crescere e svilupparsi, ma anche alle persone di fare figli e di allevarli, di comprarsi una casa, di avere una pensione dignitosa. E la direzione del futuro, i tempi della trasformazione, il numero e la collocazione sociale delle vittime che rimarranno sul campo, sono stati il più delle volte segnati dalla capacità di resistere al cambiamento dei diversi attori in lotta. È ciò che è successo nella «grande trasformazione» della fine del XVII secolo, all’inizio della rivoluzione industriale, ogni volta che è cambiato radicalmente il paradigma scientifico, economico e sociale di riferimento.

Quando si parla di resistenza ci si riferisce di solito al sindacato. Vorrei tuttavia riflettere sugli elementi di resistenza che caratterizzano le strategie neoliberiste e in particolare quelle messe in atto dal nostro governo. E vorrei farlo partendo proprio dal concetto di flessibilità che è connaturata al modo in cui si sta riorganizzando nel mondo la produzione di merci e servizi. Le tecnologie della comunicazione e dell’informazione permettono di associare imprese anche molto lontane tra loro in uno stesso progetto, permettono di differenziare prodotti a costi molto inferiori rispetto al passato, e di passare dall’economia di scala a quella di scopo e all’economia del sapere a della conoscenza. Permettono anche di rispondere in tempo reale al mutamento della domanda di beni e servizi, al cambiare dei desideri e dei bisogni delle persone, riducono i costi fissi e quindi le barriere di accesso alla creazione di nuove attività.

La stessa necessità di un coinvolgimento più attivo dei lavoratori nel processo, la messa in gioco delle loro risorse di responsabilità e di creatività, è una delle ragioni della stessa flessibilizzazione del rapporto di lavoro. Non è di per sé la fonte di tutte le sciagure, né la base da cui si sviluppa la cultura neoliberista che si innesta nel percorso di cambiamento per la difficoltà di costruire nuove regole che governino tale percorso, dopo la crisi della relazione fra grande industria, grande lavoro, grande Stato che ha caratterizzato la fase del fordismo e del keynesismo. La crisi delle vecchie regole, della vecchia cultura dello Stato, senza che si affermino nuove modalità di governo della trasformazione, sollecita la cultura della deregolazione, la rinascita dell’individualismo esasperato e acquisitivo, l’idea della libertà come semplice liberazione dai vincoli, giocata contro solidarietà ed eguaglianza.

Il mondo oggi si interroga su quanto questa linea sia in grado di supportare l’innovazione sia dal lato dei processi produttivi sia dal lato della crescita culturale e professionale delle persone. Su come il just in time finanziario scoraggi i progetti a lungo termine; su come l’individualismo esasperato sia d’ostacolo allo sviluppo della comunità delle reti, agli elementi di cooperazione più che mai necessari per competere. E si ragiona, alla frontiera dell’innovazione, sull’allargamento dello spazio pubblico della ricerca e della formazione. Ma attorno a quella logica si sono ormai saldati – il caso italiano è da manuale – gli interessi proprietari che alla flessibilità e alla deregolazione del lavoro sono interessati non per innovare ma per proteggere la loro incapacità di innovare, e che vedono nella deregolazione contrattuale e dei diritti la via per competere sui costi nelle mutate condizioni indotte dal processo di globalizzazione e dalle nuove regole della nuova Europa. Sono loro oggi – e non gli innovatori – la più potente base di massa del neoliberismo.

La manovra del governo – dal Libro bianco, alla Finanziaria, alla stessa politica della scuola e della ricerca – si rivolge soprattutto a loro: il tratto distintivo è sganciare la politica dell’occupazione da quella della qualità del lavoro. Una linea di deregulation, di incentivi fiscali – e non solo – ai più ricchi, ottenuti riducendo gli investimenti in università, ricerca, scuola e formazione. La deregulation è proposta come lo spazio comune degli spiriti imprenditivi del nuovo e del vecchio, accomunati dall’idea del mercato come risolutore unico dei problemi, in attesa di ritornare a chiedere ulteriori risorse proprio allo Stato, verso cui le aspettative «assistenziali» sembrano crescere proporzionalmente alla svalorizzazione di ogni spirito pubblico. È un progetto che entrerà in clamorose contraddizioni, perché la flessibilità «difensiva», quella tesa a mantenere impossibili ragioni di competitività da costi, si mangia la flessibilità «innovativa», quella di cui hanno bisogno le persone e le imprese, i sistemi territoriali e i distretti, che oggi vivono alle frontiere dell’innovazione. L’articolo18 è da questo punto di vista emblematico. Il governo che proclama la crisi del sindacato e della contrattazione collettiva in ragione del fatto che il lavoro e il suo mercato si fanno sempre più individuali, comincia tagliando un diritto della persona che lavora, riduce la sua libertà di scelta, punta alla pura e semplice disponibilità delle imprese sulla forza lavoro. Resistere su questo punto non è solo difendere i lavoratori e il sindacato, come libera associazione scelta da persone libere di scegliere, ma combattere quella saldatura rovinosa per il paese del fronte imprenditoriale sul minimo comune denominatore della deregolazione.

Siamo d’accordo che non basta difendere l’articolo 18. Ma la sua difesa è essenziale per andare avanti. Il lavoratore, che l’articolo 18 garantisce dall’arbitrarietà del licenziamento, è una persona che deve fare i conti con il fatto che il suo lavoro si confronterà con la discontinuità molto più della generazione precedente. Qualunque sia il suo status, dipendente o autonomo, sa che il suo lavoro cambierà, di posto e nel posto. E sa di avere bisogno di strumenti per reggere questa discontinuità, per contribuire a decidere il cambiamento anziché subirlo. Sta finendo la fase (ci è sembrata lunghissima, ma in realtà è stata breve) in cui era possibile far coincidere dequalificazione e sicurezza, il massimo di subordinazione e il massimo di tutela. Ed è finita anche per effetto delle lotte di quegli operai fordisti, proprio contro quel lavoro che si basava sulla totale alienazione di sé, per recuperare spazi di vita, aria per respirare, anche dentro la catena di montaggio. È finita perché i giovani sono andati a scuola, e a quei giovani non è più possibile prospettare un lavoro in cui il loro sapere e la loro intelligenza non trovino spazio. Perché l’economia del sapere e la società del sapere sempre meno potranno convivere con luoghi in cui il pensiero è in contrasto con l’efficienza produttiva. Ricordate il «non siete pagati per pensare» con cui si aprì in Italia l’era dell’industrializzazione e del consumo di massa? Non c’è scampo: non potremmo più promettere ai «dannati della terra e della fabbrica» l’utopia dell’eguaglianza come risarcimento della loro miseria presente, e nemmeno il più modesto risarcimento socialdemocratico di una più equa distribuzione della ricchezza che proprio la loro subordinazione ha reso possibile.

La giustizia e l’eguaglianza possibile sarà sempre più legata alla nostra capacità di proporre qui ed ora al mondo del lavoro una prospettiva di crescita culturale, professionale, umana. I tempi non sono e non saranno brevi; convivranno per lungo tempo esigenze di liberazione e di tutela e risarcimento. Il rifiuto di lasciare vittime per la strada non è solo un imperativo di solidarietà, ma l’affermazione più concreta di quella cura delle persone che la stessa innovazione economica e sociale rende necessaria. Del resto, non è un paese granché flessibile quello che predica la flessibilità per gli operai esecutivi, e lascia invariate le bardature precapitalistiche degli ordini professionali. Occorre però progressivamente integrare il diritto del lavoro passivo, che tutela la subordinazione, con un diritto del lavoro attivo, in grado di regolare, di far vivere i crescenti spazi di autonomia e di responsabilità delle persone che lavorano. Se è richiesta più responsabilità deve essere chiaro anche quali possibilità di controllo sono date sul proprio modo di lavorare e sui risultati del proprio lavoro. Si deve poter codecidere la stessa organizzazione del lavoro, perché da essa dipende la possibilità di crescere professionalmente e culturalmente. Le tute arancioni di Matrix in un sito recentissimo, chiamato significativamente Open Source, lanciano la parola d’ordine della flessibilità offensiva, capace di far valere i bisogni e i desideri delle persone nello scambio con le esigenze dell’impresa della conoscenza. A un certo punto parlano anche del bisogno di divertimento nel lavoro e oltre il lavoro. Non è strano: nel momento in cui il produrre coinvolge sempre di più la vita e i desideri delle persone (altro che fine del lavoro!) un’alternativa possibile è quella fra gli hacker di Pekka Hymanen – quelli che programmano con passione, con desiderio e divertimento, e proprio per questo sono capaci di innovazione – e quelli che dopo aver programmato come schiavi, nel tempo libero, invece di andare a giocare a tennis, «vanno a lavorare sul rovescio».

Occorre progettare un diritto attivo alla mobilità, attraverso ammortizzatori sociali capaci di dare sicurezza nei percorsi, subiti o scelti, di cui la vita lavorativa sarà sempre più fatta. I lavoratori pomposamente nominati imprenditori di se stessi continuano ad aver bisogno di sicurezza per sposarsi, per fare figli, per comprarsi una casa, per curarsi, per avere una vecchiaia dignitosa. L’assenza di sicurezza su questi terreni genera rigidità, indebolisce la possibilità di scelta, immiserisce lo stesso contributo che ciascuno può portare alla crescita economica, sociale e civile del paese. E soprattutto occorre riconoscere la formazione lungo tutto l’arco della vita come nuovo diritto «attivo» – base per una strategia capace di collegare sicurezza e nuove opportunità – che interfaccia con tutti i soggetti che popolano oggi il mondo del lavoro. Un diritto per i lavoratori a professionalità bloccata, mai coinvolti in percorsi di riqualificazione e considerati spesso da rottamare a cinquant’anni; per coloro che vedono cambiare il proprio posto di lavoro e non hanno gli strumenti per cambiare se stessi; per chi si muove da un posto all’altro senza strumenti e sostegni per fare sì che la mobilità sia riconosciuta come un arricchimento della propria professionalità e identità; per i giovani «imprenditori» di se stessi, per cui l’investimento nel proprio sapere, il suo continuo aggiornamento, è la radice stessa della sicurezza; per le imprese che davvero scelgono l’innovazione e per questo devono investire nella crescita della ricchezza culturale e professionale dei propri lavoratori.

Questo è il punto decisivo per regolare e contrattare il nuovo scambio fra organizzazioni e persone di cui è fatta l’economia della conoscenza. Ed è il punto su cui ritrovare coerenza fra diritti universali, esercizio collettivo della contrattazione, e storie di vita e di lavoro che sono e saranno sempre di più personali. Ma in una società di mercato la formazione è come i soldi: va a chi ce l’ha già. Il diritto generalizzato alla formazione permanente diventa effettivo se si innalza per tutti il livello culturale con cui si entra nel mondo del lavoro. Era quello che ci eravamo proposti tutti assieme con la riforma della scuola della scorsa legislatura – la scuola di tutti e di ciascuno – capace attraverso l’autonomia di personalizzare i percorsi di apprendimento e capace di tenerli in un orizzonte di eguaglianza, non gerarchizzandoli, ma integrando sapere e saper fare con l’obiettivo di non perdere per strada nessuno. Il governo ci propone un’altra cosa, che è uno degli emblemi più significativi della sua lettura della modernità. Riduce – di questi tempi, in quest’Europa! – l’obbligo scolastico. Separa nettamente la scuola dalla formazione professionale. Introduce la canalizzazione precoce quando il sistema duale è in crisi nei paesi che più a lungo lo hanno sperimentato per le stesse ragioni per cui è in crisi il fordismo, e con esso le professionalità rigide e che si imparano per la vita. E soprattutto introduce la cultura del bonus, che lascia a chi se lo può permettere l’iniziativa d’investire nel futuro dei propri figli e libera dai doveri della solidarietà, dell’accoglienza, dell’apertura ai più deboli che sono invece la caratteristica della scuola pubblica. Al nostro «non uno di meno», risponde con un «si salvi chi può», dove chi può è chi ha le risorse culturali ed economiche per fare da sé, dando per scontata la crisi inarrestabile della scuola pubblica.

Mi sembra che niente meglio di questo chiarisca la differenza fra la loro idea dell’individuo e la nostra idea della persona; tra la chiusura nel particolare, nel proprietario, nell’acquisitivo, e l’apertura agli altri, alla relazione insopprimibile fra libertà ed eguaglianza, su cui si basa la nostra idea della persona. E rafforza la nostra convinzione che il dispiegarsi pieno dell’innovazione, la possibilità stessa che l’economia e la società della conoscenza diventino un obiettivo condiviso, una speranza per tutti e non solo il sogno dei ricchi, hanno bisogno di queste persone. Per queste ragioni, il riformismo oggi non può più essere pensato come una via di mezzo tra il liberismo e il grande Stato della socialdemocrazia: è, decisamente, un’altra cosa.