La sinistra che ha perso e si è persa

Written by Nichi Vendola Friday, 07 September 2018 10:47 Print

 

Nella vita degli individui ci sono accadimenti, situazioni, emozioni, i cui ricordi generano sensi di colpa e sentimenti di vergogna. La psicanalisi insegna che in questi casi può rendersi operativo il marchingegno psichico della “rimozione”, ovvero lo spostamento in un “altrove” inconscio di quelle memorie che turbano e insidiano la razionalità e il benessere del presente. Naturalmente la rimozione non cancella i traumi, semplicemente li seppellisce, li abolisce dalla propria percezione immediata, li esorcizza. Anche ai soggetti collettivi, anche alla politica, capita di rimuovere i propri capitomboli e i propri smacchi, confinando errori e sconfitte in una soffitta buia, non interrogandosi sulle ragioni e sulla natura dei propri inciampi, impedendo alla luce di verità magari scomode e talvolta ustionanti di illuminare la scena della propria crisi. È sufficiente evocare il futuro, con tutto il repertorio illusionistico della mitologia del “nuovo” e dell’innovazione, per rimuovere il passato e le sue ferite.

Ecco, per dire di noi: la sinistra a me pare da lungo tempo, e in scala non solo italiana, incapace di mettere ordine nei propri archivi, di rileggere criticamente se stessa e i propri percorsi teorici e sentimentali, di rimettere a fuoco le mappe del proprio disorientamento e del proprio fatale smarrimento. La sinistra ha perso e si è persa, e ha perso perché si è persa. Non penso solo alla lunga serie di piccole e grandi catastrofi elettorali del renzismo declinante, ma penso a qualcosa di più lungo e di più largo del pur cruciale processo elettorale, a ciò che nominerei come una sconfitta storica, una perdita di peso e di ragione sociale tutta misurabile nello sradicamento brutale della sinistra dai territori del lavoro subordinato, nella sua espulsione dal cuore delle giovani generazioni, nella sua incapacità di evocare e “inventare” un popolo e una narrazione del mondo in cui il pensiero critico diventa il nutrimento di ciò che Ernst Bloch chiamava “principio-speranza”. Se non si parte da qui, da una analisi impietosa della nostra sconfitta, il dibattito su come fare opposizione al nuovo corso giallo-verde del governo italiano rischia di impantanarsi subito nella palude di un politicismo inconcludente, accontentandosi di farsi sentinella del dilettantismo dell’homo novus grillino e dell’antico bullismo leghista, giudice delle volgarità e delle aporie del nuovo potere, ma incapace di capovolgere quell’egemonia di destra che opera nel senso comune e nell’immaginario di moltitudini fatte di cittadini orfani di comunità di riferimento, di ceti sociali disarticolati, di impoveriti di reddito e di futuro, di individui atomizzati e in guerra con le proprie paure.

A cosa e a chi faremo opposizione? Per cosa e per chi faremo opposizione? Sfideremo i barbari nel nome delle élite? Contrasteremo i sovranisti nel nome della moneta continentale? Faremo corpo a corpo con i populisti nel nome delle compatibilità di bilancio? Daremo filo da torcere al keynesismo posticcio delle destre diventando gli agit-prop dello spread? Denunceremo le pulsioni post-democratiche della terza Repubblica nel nome della libertà senza freni dei mercati? Contro il vento dell’Est che soffia a Palazzo Chigi, un palazzo abitato da orbaniani e putiniani, invocheremo l’ortodossia atlantica? E al “libro dei sogni”, come è stato sciaguratamente definito il livido e privatistico “contratto di governo”, contrapporremo la normale saggezza degli incubi generati dai dispensatori di austerità e precarietà? Non sono domande provocatorie, basta scorrere la rassegna stampa quotidiana, ogni santo giorno ricca di questa apparentemente obbligatoria alternativa: da un lato il populismo e le sue derive sovraniste e neo-autoritarie, dall’altro lato la “democrazia illiberale” del capitalismo finanziario. Si tratta di una alternativa in tutta evidenza falsa, visto che in entrambi i casi si compongono strumentazioni e geometrie di egemonia e dominio tese a occultare le ragioni storiche, politiche, economiche e culturali della crescente e folle diseguaglianza che minaccia l’umanità e convergenti nell’abolizione direi ontologica di qualsivoglia discorso pubblico sulla liberazione dalla mercificazione del lavoro e della vita.

Quando si dice, come se si trattasse di una constatazione scientifica, che è finita la contesa tra destra e sinistra, si intende in realtà dire questo: che è finita per autocombustione la sinistra e che tutta la contesa è a destra, che la dialettica politica non può che svolgersi dentro il pluralismo mummificato di diverse ipotesi di subordinazione delle nostre società. Non capisco perché faccia paura (giustamente) il ritorno delle nevrosi identitarie su cui investono i populisti che riesumano il primato della nazione e della confessione e della tradizione, ma non mette i brividi leggere i sofisticati ideologi liberali che teorizzano, sulle pagine della più altolocata stampa americana, la necessità di temperare, limitare, irretire la democrazia e il costituzionalismo democratico. Se la dialettica è tra il basso e l’alto, se muore la consapevolezza di ciò che lega l’alto e il basso, se cioè non si sa più conoscere la formazione e la funzione delle gerarchie sociali, allora può succedere che il vendicatore dei poveri e degli impoveriti diventi Donald Trump. Può succedere che la classe operaia, sepolta dalle sinistre governiste, risorga come invocazione al protezionismo doganale o al protezionismo etnico. Il razzismo è il perfetto surrogato della lotta di classe, visto che il lavoro salariato è ormai orfano sia di lotta che di classe.

Mi chiedo: non è giunto il tempo di rivisitare criticamente il liberalismo e le sue parabole? Non ci dice proprio nulla il tramonto di quell’Occidente che si era presentato come fabbrica globale di civilizzazione e che oggi innalza muri e affonda vite e diritti? Nulla ci dice la macchia nera che sporca, con lo stesso lessico di settant’anni fa, il Vecchio continente e che oggi spinge i propri detriti xenofobi e razzisti fin dentro il Mediterraneo? E ancora chiedo: non è giunta l’ora di vedere cosa non funziona in quella parola, “riformismo”, la cui traiettoria si è giorno dopo giorno andata invischiando con il cattivo realismo della “dittatura del presente”? Ecco, possiamo saziarci di ripetere giaculatorie e formule politiche che giocano con le nostre biografie e con il nostro immaginario: ma sono al massimo esercizi di stile che non ci salvano da questa specie di dannazione per cui il cosiddetto “popolo” o è in appalto alla destra politica o è in subappalto alla destra economica. Il nostro passato non è un modello da emulare ma il campo da arare, non il luogo in cui cercare rivincite ma quello in cui cercare le radici della nostra sconfitta. Eppure un popolo, largo e non rancoroso, c’era. E non solo in altre epoche. C’era e ha bussato tante volte alle nostre porte. C’era a cavallo del nuovo millennio, una moltitudine planetaria che innalzò le bandiere della pace, così forte da essere temuto come una potenza mondiale. Ma a sinistra c’era chi considerava anacronistica o velleitaria persino la parola “disarmo” e c’erano i teorici della guerra come strumento di esportazione della democrazia e dei diritti umani. C’era un popolo a Genova, in quel caldo luglio del 2001, a dire di un’altra globalizzazione e di una diversa costruzione dell’Europa. C’era in tutte le battaglie contro la precarizzazione del mercato del lavoro, contro la privatizzazione della formazione e del sapere, contro l’assuefazione alla violenza maschilista e sessista. C’era ancora in quel 2011 quando, qui nella nostra Italia oggi regalata a Salvini, 27 milioni di elettori votarono in un referendum affinché la politica tutelasse i “beni comuni” e “l’acqua pubblica”. Ma ogni volta che questo variegato popolo sporgeva lo sguardo sulla vita e sul futuro incrociava le ciglia aggrottate e pensose dei realisti, dei riformisti, della sinistra della resa.

Al netto di tutte le pur significative differenze che hanno agito nella sinistra, possiamo dire così: la sinistra ha congedato il proprio popolo in nome della modernità. Una modernità posticcia e bugiarda, fatta di vaghezze semantiche e di brutalità sociale, compensata appena dai residui di un welfare sempre meno universalistico. La sinistra si è presentata dunque come uno stato d’animo, come l’almanacco dei diritti dei consumatori, come stratificazioni di sottogoverno. Si è presentata come puro potere: non come il verbo potere, che allude alla vita, ma come il sostantivo potere, che allude alla separazione e alla sclerotizzazione degli apparati.

Mi fermo qui, sapendo che ho solo evocato, con molto dolore e qualche rabbia, un immenso campo di ricerca. Ma fare senza capire oggi mi sembrerebbe solo patetico, fare opposizione senza sapere chi siamo e da dove veniamo lo sentirei solo come un modo di continuare a perdere illudendoci di continuare a esistere.