Editoriale 3/2018

Written by Roberto Speranza Saturday, 16 June 2018 16:26 Print


Il voto del 4 marzo ha prodotto un vero e proprio sconvolgimento dello status quo, chiudendo il ciclo politico che si è aperto all’inizio degli anni Novanta e che si è declinato attorno al bipolarismo centrosinistra- centrodestra, e dando l’avvio a una crisi istituzionale senza precedenti. La potenziale maggioranza parlamentare giallo-verde è apparsa da subito come qualcosa di nuovo e inedito nella storia d’Italia. È prematuro parlare di terza Repubblica o immaginare già nuovi cicli lunghi. Non credo servano o aiutino formule preconfezionate o giudizi superficiali che rischiano di essere smentiti alla prima occasione. Quel che è certo è che siamo dentro una crisi repubblicana dallo sbocco incerto per il paese. La sinistra non può restare a guardare. Occorre riflettere immediatamente sul nuovo assetto del sistema politico italiano e sulla funzione che le forze democratiche e progressiste devono esercitare. Questa riflessione è fondamentale per capire quale iniziativa politica costruire in Parlamento e nel paese.

La saldatura tra Lega e 5 Stelle non era affatto scontata e credo che potesse essere evitata nell’interesse del paese. Si sarebbe aperto uno scenario diverso per l’Italia. Marine Le Pen non avrebbe esultato come invece ha fatto nelle ore del conferimento dell’incarico a Giuseppe Conte, rivendicando con giubilo che i suoi alleati italiani sarebbero finalmente arrivati al governo. Le cose però non sono andate così. Il PD e, in modo particolare, Matteo Renzi hanno scelto di sbarrare la strada al dialogo con i 5 Stelle favorendo nei fatti l’accordo giallo-verde. Chi ha tifato per questo scenario ha una parte non secondaria di responsabilità sullo stato in cui siamo. Non lo ha fatto per caso, ma perché ha in testa un nuovo schema di gioco su cui provare a sviluppare il proprio protagonismo politico. È l’idea di costruire in Italia un nuovo bipolarismo, non più imperniato sulle categorie classiche del centrodestra e del centrosinistra, per come le abbiamo conosciute dall’inizio degli anni Novanta, ma costruito attorno alla nuova frattura sistema-antisistema. È un’idea che vive non solo in una parte consistente dei principali partiti sconfitti alle ultime elezioni politiche, PD e Forza Italia, ma che pare essere dominante nella lettura di gran parte dell’establishment italiano di cui è espressione fedele la grande stampa del nostro paese. Da una parte ci sono i nuovi barbari, populisti, sovranisti, antisistema e antieuropei. Dall’altra parte i liberaldemocratici, europeisti e sistemici, ligi alle regole del mercato e in sintonia con le classi dirigenti economiche e finanziarie. A me pare un disegno politico vero e proprio che, portato al suo compimento, rilancia l’idea di un nuovo grande partito della nazione, erede del vecchio patto del Nazareno, trasversale a destra e sinistra e garante dello status quo precedente al 4 marzo.

Noi dobbiamo opporci con ogni energia a questo scenario e lavorare invece coraggiosamente alla costruzione di un nuovo orizzonte progressista nel nostro paese che riparta dalla centralità del lavoro e dal rispetto della Costituzione, tanto più dentro un passaggio politico istituzionale così drammatico. È chiaro che i due disegni che ho provato a delineare sono incompatibili. Da una parte il progetto neo renzusconiano di una forza politica liberale o al massimo liberaldemocratica alla Macron, dall’altra l’idea di una nuova prospettiva socialista, democratica e costituzionale, capace di capire le ragioni storiche della sconfitta del 4 marzo e di affrontare con spirito nuovo i grandi nodi che sono dinanzi a noi. Mi riferisco a un ripensamento del capitalismo, a una nuova lettura della globalizzazione, a una necessaria revisione del progetto europeo.

Lo stesso dibattito interno al Partito Democratico, che oggi appare più che mai nelle sabbie mobili, non potrà eludere questo bivio politico di fondo e credo che difficilmente quella comunità potrà restare come è ora rispetto a una scelta così profonda e così urgente.

Le forze politiche che hanno ottenuto la maggioranza in Parlamento portano un carico notevole di aspettative a cui non sarà facile fare fronte, ma di cui non si può sottovalutare la portata. Milioni di italiani le hanno scelte per scardinare il sistema politico del nostro paese. Si tratta di forze che non si possono interpretare con le categorie con cui abbiamo declinato la politica negli ultimi decenni. Non sono liberali o socialisti, non sono conservatori o progressisti. Non sono cattolici o popolari. Servono lenti nuove per leggere quanto sta avvenendo. E la sinistra, nel suo complesso, ne ha bisogno più di chiunque altro.

Quel che non può essere sottovalutato è la portata della rappresentanza elettorale, con il Movimento 5 Stelle che ha raccolto più di ogni altro la rabbia e la domanda di protezione del Mezzogiorno e con la Lega che ha invece rappresentato larga parte dello spirito di autonomia e di libertà del Nord. Sono due spinte diverse, non facili da conciliare. Chiedere più protezione significa nella sostanza chiedere più Stato. La proposta sul reddito di cittadinanza è un esempio che va in questa direzione. Chiedere più autonomia significa invece battersi sostanzialmente per meno Stato.

La flat tax è sicuramente il progetto più insidioso del contratto sottoscritto da Salvini e Di Maio ma aiuta a fare chiarezza. Propone limpidamente un modello di società diametralmente opposto a quello che dovrebbe indicare una nuova forza socialista. Il costo enorme di questa misura, valutato attorno ai 50 miliardi di euro, sarebbe pagato prevalentemente dai ceti più deboli in termini di indebolimento del sistema di protezione sociale. Penso soprattutto alla grande questione della sanità pubblica. Nei prossimi cinque anni andranno in pensione in Italia oltre 45.000 medici. Senza un nuovo significativo piano di investimenti e di assunzioni nel sistema sanitario nazionale l’universalità delle prestazioni è a rischio. La flat tax è il primo passo verso un modello di welfare all’americana, basato da una parte su assicurazioni e sanità privata di eccellenza per chi può permetterselo e dall’altra parte, invece, su un servizio pubblico accessibile a tutti sempre più fragile e inadeguato.

Al fondo la nostra vera sfida è ricostruire un pensiero autonomo della sinistra. Ci vorranno tempo e fatica, studio e capacità di ascolto. La sinistra per troppo tempo è stata subalterna culturalmente al liberismo. L’interpretazione ottimista della globalizzazione, la rinuncia a una critica seria del capitalismo e delle sue disfunzioni, l’aver consentito un impianto europeo basato su austerità e rigore ci ha fatto pagare un prezzo enorme in termini di rapporto con la società e in modo particolare con i ceti più deboli che abbiamo preteso di rappresentare.

Ripensare la sinistra non può per me significare rinunciare al sogno europeo. L’Europa resta la nostra prospettiva strategica e non dovremo mai rassegnarci al bivio o questa Europa o nessuna Europa. La mia opinione è che oggi sarebbe un errore assai grave immaginare che dopo il blairismo, la versione della sinistra europea subalterna al liberismo e all’ideologia del mercato senza regole, si apra, sempre a sinistra, una nuova stagione di subalternità verso il sovranismo. La nostra sfida è un’altra. Il nostro pensiero autonomo può e deve invece rilanciarsi a partire dal recupero del significato autentico della parola socialismo come chiave per costruire un nuovo equilibrio tra uomo, società e ambiente nel tempo nuovo in cui siamo.