C’è vita a sinistra oltre il destino neoliberale?

Written by Ida Dominijanni Tuesday, 17 April 2018 16:06 Print


Ho capito che le cose sarebbero potute andare come poi sono andate su un treno per la Sicilia, i primi di febbraio. Davanti a me chiacchieravano una donna pugliese trapiantata in Veneto e un uomo napoletano, entrambi, a occhio, attorno ai quarant’anni. L’una spiegava perché avrebbe votato Lega: motivazioni d’antan, contro il Sud immobile e assistito (“lo dico da meridionale”), e motivazioni salviniane, “prima gli italiani poi i migranti”. L’altro spiegava perché avrebbe votato M5S: perché a Sud va tutto a rotoli, ed è ora di mandare tutti a casa. Non erano sorprendenti questi discorsi, in sé non nuovi, bensì la pacata complicità con cui si prendevano a braccetto, invece di fare scintille come spesso accade fra meridionali e settentrionali. Ho avuto in quel momento la sensazione precisa che il 4 marzo lo scontento del Nord e quello del Sud avrebbero potuto sommarsi senza contraddirsi, come in una sorta di blocco storico al servizio non della rivoluzione di gramsciana memoria ma più modestamente di un perentorio “basta così”.

La cartina dello stivale giallo-blu, o meglio giallo-verde, uscita dalle urne ha poi confermato quella sensazione. Ci sarebbero sotto quei colori, secondo la maggior parte delle interpretazioni, il solito Nord delle partite Iva che abbocca alla promessa della flat tax, e il solito Sud assistenzialista che abbocca alla promessa del reddito di cittadinanza. Non nego che questi due miraggi abbiano avuto un’incidenza sul voto, ma suggerirei un’analisi meno gravata dalle visioni stereotipate del Nord e soprattutto del Sud che da decenni imperano nel discorso pubblico. Quell’istantanea giallo-verde fotografa oggi un paese che non è più tenuto insieme dalla logica funzionale fra sviluppo e sottosviluppo, come nella prima Repubblica, né dilaniato dalla contraddizione fra dinamismo e dipendenza o fra impresa e spesa pubblica come nella seconda. Fotografa piuttosto un paese che all’uscita da una crisi devastante si ritrova spaccato in due, con due standard intollerabilmente diseguali di cittadinanza (aspettative di vita, sanità, mobilità, lavoro, reddito, uso e abuso del territorio), dove il Nord affida benessere e ripresa più alle barriere protezioniste, securitarie e xenofobiche della Lega che all’ormai scaduta retorica berlusconiana del godimento, mentre il Sud licenzia d’un colpo le classi dirigenti locali e nazionali, di destra e di sinistra, che considera responsabili del suo declino, e che sulla gestione corrotta e corruttiva della spesa pubblica prosperano da sempre: più che un’ennesima richiesta di assistenzialismo, a me pare un impellente bisogno di uscirne.

Ora può ben darsi che il voto del Nord torni a esprimere un’istanza neoliberista di deregolamentazione e quello del Sud una richiesta di intervento pubblico nell’economia, e che questa contraddizione basti a scongiurare la formazione di un governo Lega-5 Stelle. Ma la politica non coincide con l’economia per quanto ne sia influenzata, né si esaurisce nella formazione di un governo. Politicamente, i colori della cartina dell’Italia sono due ma il messaggio è uno, ed esprime qualcosa di più di una rivolta anti establishment estemporanea: segnala per un verso il fallimento del progetto unitario (è impressionante la coincidenza fra i confini del Sud “giallo” di oggi e quelli del Regno delle Due Sicilie), e per un altro abbozza un approdo inquietante e pieno di incognite della transizione italiana cominciata all’inizio degli anni Novanta. Se di un approdo populista si tratta, esso si innesta, come peraltro sempre fanno i populismi, su caratteri e problemi nazionali antichi e irrisolti. Ma sul populismo, o sui populismi, bisogna cercare di intendersi, al di là delle ripetute cautele sull’uso e l’abuso di un termine troppo vago (ma in realtà non privo, in letteratura, di una sua consistenza).

Luigi Di Maio ha festeggiato i risultati annunciando la nascita della terza Repubblica, “quella finalmente dei cittadini”. Con la misura dello storico, che è inevitabilmente diversa dall’occasionalismo del politico, Ernesto Galli della Loggia ha visto piuttosto nel 4 marzo la vera fine della prima Repubblica, poiché il voto lascia sul campo solo due forze del tutto estranee alle culture politiche che l’avevano occupato fino al 1992, e tritura ciò che di quelle culture politiche restava nel centrosinistra. È una considerazione da tenere presente, per almeno due ragioni. Primo, perché ci consente indirettamente di vedere come la progressiva demolizione della sinistra sia stata il filo nascosto della lunga transizione italiana. Secondo, perché ci aiuta a inquadrare in una prospettiva di lungo periodo l’esito populista di oggi: che non è l’onda corta del 2013, bensì l’onda lunga del 1992. A quanti vedono nel voto la vittoria dei populismi contro la stabilità del sistema converrà ricordare che in realtà a vincere sono stati i due populismi “dal basso”, quello della Lega e quello dei 5 Stelle, contro i due “populismi dall’alto”, di Berlusconi e di Renzi, che nel corso del tempo la stabilità del sistema l’hanno ripetutamente attaccata più che garantita. Ed eccoci in piena specificità del laboratorio italiano. Pur dentro un’onda che ormai attraversa la gran parte delle democrazie contemporanee, l’Italia è l’unico paese ad avere sperimentato, fra la fine degli anni Ottanta e oggi, una sequenza di ben quattro populismi – quello etnico della Lega, quello telecratico di Berlusconi, quello digitale del M5S, quello istituzionale, come è stato definito, di Renzi –, l’uno diverso dall’altro, ma tutti accomunati da alcuni tratti precisi e ritornanti: l’appello diretto, “disintermediato” e basato su significanti vuoti al (proprio) popolo, la retorica anti establishment (impugnata da fuori e da dentro l’establishment stesso), la leadership personalizzata, l’uso intensivo dei media nella costruzione del consenso, la composizione interclassista dell’elettorato.

Non interessa qui ripercorrere le singole vicende di questi quattro populismi, né analizzare le loro differenze e le loro contiguità, e nemmeno soffermarsi sulle loro ultime mutazioni pre-elettorali (il passaggio della Lega dalla dimensione padana a quella nazionale; il ritorno simulacrale di Berlusconi nella veste rassicurante del guardiano della stabilità; l’apertura cautelativa verso i vertici di Bruxelles del M5S; il renzismo dei “cento punti” in luogo di quello rottamatorio). Interessa piuttosto rimettere a fuoco questa sequenza nel suo insieme, perché essa mostra con grande chiarezza il riconfigurarsi, lungo la seconda Repubblica, dell’intero campo politico come un “campo populista”, caratterizzato dalla fine delle identità sociali e politiche tradizionali, dalla crisi della rappresentanza, da processi di decostituzionalizzazione, dalla delegittimazione della politica, dalla mediatizzazione della sfera pubblica, dall’affermarsi della contrapposizione alto/basso come unico asse del conflitto. Detto in altri termini, la crisi della prima Repubblica coincide con un’erosione inesorabile della democrazia liberale rappresentativa, che apre la strada alla “soluzione” populista nelle sue varie espressioni, dal basso e dall’alto, d’opposizione e di governo. Il che spiega tra l’altro perché durante la seconda Repubblica Berlusconi, che del populismo resta l’insuperato maestro, abbia sempre giocato all’attacco, e la sinistra invece abbia sempre giocato un ruolo di contenimento difensivo della crisi della democrazia rappresentativa.

Ma spiega soprattutto perché, se il 4 marzo segna la vera fine della prima Repubblica, a siglarla sono due formazioni, e due giovani leader, interamente figli della seconda. Due populismi, dunque, di nuovo diversi fra loro nei contenuti, nell’orientamento e nell’insediamento, ma riconducibili alla stessa epoca e alla stessa koinè. È rilevante però che a prevalere siano stati i due populismi “dal basso” su quelli “dall’alto”. Non perché diano per ciò stesso garanzia di democraticità, tutt’altro: non ne dà né il comunitarismo etnico della Lega, prossimo alle piattaforme dell’estrema destra europea, né la formula mista di penetrazione territoriale e connessione digitale a conduzione aziendale dei 5 Stelle. Tuttavia, dal loro successo traspare un bisogno dell’elettorato di sperimentare vie d’uscita dalla crisi della democrazia rappresentativa più partecipate di quanto non consentissero le varianti populiste verticali e iper-personalizzate di Berlusconi e Renzi.

C’è un compiacimento diffuso nel definire “storica” qualunque sconfitta della sinistra, ed è la ragione per cui di solito bisogna evitare di usare questo aggettivo. Che però stavolta è purtroppo l’aggettivo giusto. E dunque anche qui lo sguardo deve necessariamente allungarsi dal breve periodo all’indietro. Nel breve periodo, fatti e misfatti parlano con una certa evidenza. L’inizio della fine è l’insediamento dall’alto del governo Monti nel 2011, senza il rito elettorale che avrebbe consentito una sepoltura simbolica del berlusconismo a vantaggio del centrosinistra. La “non vittoria” della coalizione guidata da Bersani nel 2013 ne è stata conseguenza diretta, per i prezzi troppo alti pagati alla religione dell’austerity; colpevole inoltre, già allora, la mancata intuizione e comprensione dell’exploit dei 5 Stelle, e la mancata registrazione della fine del centrosinistra in un sistema diventato tripolare. La resistibile ascesa di Matteo Renzi ha poi impresso un’accelerazione vorticosa alla crisi – congenita – d’identità e di proposta strategica del PD: con la rottamazione brutale di ciò che nel PD restava della tradizione di sinistra, con l’interiorizzazione dell’agenda (Jobs Act, Buona scuola, controriforma costituzionale) e delle forme (partito personale, sovraesposizione televisiva) del berlusconismo, con l’arroganza e la spericolatezza di Renzi e del suo giglio magico, con l’oscillazione su temi e valori dirimenti come l’Europa e l’immigrazione, con operazioni spregiudicate e autolesioniste come il varo a colpi di fiducia di una legge elettorale che ha finito col favorire gli avversari. L’emorragia di voti a sinistra era certa, e probabilmente messa nel conto dallo stesso Renzi nella prospettiva di un recupero al centro, che invece non c’è stato.

Più interessante è chiedersi perché questa emorragia non sia andata a vantaggio di Liberi e Uguali, malgrado l’indubbio merito di alcuni dei suoi promotori, penso soprattutto a Massimo D’Alema, nello smuovere con il No al referendum prima e con la separazione dal PD poi una situazione ingessata. Le ragioni, anche in questo caso, sono tutt’altro che oscure: un messaggio troppo moderato, uno sguardo troppo rivolto al PD e al suo elettorato “disperso nel bosco”, una prospettiva incentrata non, come a tante/i di noi era parso all’inizio, sulla costruzione di una nuova sinistra ma sulla riproposizione senza autocritica del vecchio centrosinistra, priva di qualunque presa su un elettorato che si stava radicalizzando verso destra e verso sinistra. E ancora, un nome controverso (quanto ha pesato sull’elettorato femminile quel doppio maschile-universale riproposto contro due secoli di critica femminista, nonché l’assenza di qualsivoglia richiamo ai movimenti femministi oggi in campo, dal #metoo a Non una di meno?), liste asserragliate sul ceto politico, leader scoordinati. E vorrei aggiungere, pressoché nessun riferimento al quadro internazionale in subbuglio, in una competizione elettorale il cui esito rischia di allineare l’Italia più al blocco di Visegrád, alla Russia di Putin e agli USA di Trump che a Bruxelles.