Ego-logia e diritti individuali

Written by Luigi Manconi Friday, 01 February 2002 02:00 Print

L’assunto di partenza di questo scritto è che nelle democrazie europee il ruolo della sinistra come «socialdemocrazia», cioè strumento di affermazione e tutela delle garanzie sociali, tende a esaurirsi. In parte perché ha realizzato quanto poteva realizzare; in parte perché si sono consumate le basi materiali (limiti dello sviluppo), che alimentavano la sua cultura e il suo programma. Accanto a ciò la necessità di un nuova sinistra ecologica si afferma non perché essa difende l’ambiente (che sarebbe il minimo della decenza), ma poiché assume un punto di vista fondato sulla coscienza della contraddizione tra domande di diritti e istanze di libertà dell’individuo, da una parte, e limiti dello sviluppo, dall’altra. La terza e connessa affermazione di partenza è che la sinistra nuova deve intendere le grandi potenzialità di ciò che (fra il serio e il faceto) chiamo ego-logia.

 

 

L’assunto di partenza di questo scritto è che nelle democrazie europee il ruolo della sinistra come «socialdemocrazia», cioè strumento di affermazione e tutela delle garanzie sociali, tende a esaurirsi. In parte perché ha realizzato quanto poteva realizzare; in parte perché si sono consumate le basi materiali (limiti dello sviluppo), che alimentavano la sua cultura e il suo programma. Accanto a ciò la necessità di un nuova sinistra ecologica si afferma non perché essa difende l’ambiente (che sarebbe il minimo della decenza), ma poiché assume un punto di vista fondato sulla coscienza della contraddizione tra domande di diritti e istanze di libertà dell’individuo, da una parte, e limiti dello sviluppo, dall’altra. La terza e connessa affermazione di partenza è che la sinistra nuova deve intendere le grandi potenzialità di ciò che (fra il serio e il faceto) chiamo ego-logia. Ovvero i grandi movimenti, visibili o latenti, che – a partire dall’intransigente affermazione del «principio di individualità» (Marcel Gauchet)1 – sperimentano dinamiche di autonomia rispetto a tutte le grandi agenzie nazionali e sovranazionali del consenso e della mobilitazione. È la sinistra, la sinistra nuova, che deve socializzare quel principio di individualità: è essa che deve assicurare la realizzazione delle garanzie sociali acquisite quale quadro di riferimento e di sostegno per il pieno dispiegarsi delle prerogative e dei diritti dell’individuo.

Mi spiego meglio. L’analisi e la teoria dell’ecologia sono riassumibili – la sintesi è brutale, ma utile – nel concetto di limiti dello sviluppo. Tale concetto ha implicazioni radicali. Non solo la scienza degli ultimi due secoli, ma l’intera cultura di quello stesso arco storico si sono basate su un concetto esattamente opposto: ovvero su uno sviluppo senza limiti. Questo ha condizionato in profondità e in una prospettiva che sembrava, alla lettera, in-finita le scienze della natura e quelle dell’economia: ma ha permeato anche le scienze sociali e le culture dell’uomo e della comunità. Di conseguenza, ha influenzato significativamente le ideologie e in particolare – è il punto che qui interessa – le ideologie e le subculture di sinistra. La questione – ridotta all’osso – è così sintetizzabile: nell’Epoca dello Sviluppo (d’ora in poi EDS), la sinistra è stata l’ideologia dell’uguaglianza e delle uguaglianze; nel Tempo della Crisi (d’ora in poi TDC), la sinistra può essere l’ideologia della libertà e delle libertà. Nell’EDS la sinistra perseguiva e tutelava le garanzie sociali; nel TDC la sinistra deve perseguire e tutelare i diritti individuali. Nell’EDS la tutela delle garanzie sociali tendeva a proteggere – attraverso la diffusione di risorse crescenti, che si voleva equamente distribuite – i diritti collettivi; nel TDC l’affermazione dei diritti individuali deve estendersi – attraverso l’inclusione nel sistema della cittadinanza e l’ampliamento e l’arricchimento di quest’ultima – a tutti gli individui di tutti i gruppi sociali. Nell’EDS è la comunità (ereditaria o elettiva) che tutela il singolo; nel TDC è l’individuo, tutelato nelle sue prerogative primarie e garantito nelle sue libertà essenziali, che sceglie – elettivamente e, in genere, transitoriamente – la propria comunità.

Possono sembrare considerazioni risapute (e per molti versi lo sono davvero: fino all’ovvietà), ma qui mi preme sottolineare, di quell’analisi, tre implicazioni politiche meno scontate. La prima, come si è detto, è la qualità ecologica della crisi nella quale ci troviamo ad agire: il fatto, cioè, che i limiti dello sviluppo sono fissati in primo luogo dal consumo fisico del pianeta. E ciò riguarda direttamente non solo il Sudan e il Bangladesh, ma anche Treviso e Castrovillari. La seconda implicazione è che i limiti dello sviluppo e la sua brutale finitezza inducono a verificare (e, per certi versi, esigono come «risarcimento») un’altra direttrice di sviluppo: ovvero la più ampia e radicale affermazione dei diritti individuali. La terza implicazione è che i diritti individuali sono (possono essere, devono essere) la nuova costituzione della sinistra. Ed è solo la sinistra, proprio perché viene da un secolo e mezzo di vittorie e di sconfitte sulla questione altissima e terribile dell’uguaglianza, che può «socializzare» quei diritti individuali e operare per diffonderli e renderli tendenzialmente «uguali». Tanto più che «la socialdemocrazia classica» ha dovuto riconoscere che «i suoi strumenti di ridistribuzione» hanno «esaurito le proprie potenzialità» (si veda ancora Gauchet). È sotto tale profilo, come si è detto, che la sinistra nuova deve farsi ecologica: perché assume come fondamento quell’analisi sugli effetti che il consumo fisico delle risorse naturali induce nella produzione economico-sociale. Sia chiaro: il ragionamento che segue riguarda la sinistra delle democrazie europee e per le democrazie europee, e l’Italia in particolare. È a partire da questa consapevolezza (e da questa concretezza di prospettiva) che si potrà sviluppare l’elaborazione della sinistra e per la sinistra del «resto del mondo».

Nelle democrazie europee, dunque, la sinistra nuova può assumere il punto di vista ecologico senza alcuna indulgenza verso il catastrofismo, ma con la piena coscienza che i limiti dello sviluppo hanno evidenziato impietosamente i limiti delle ideologie dello sviluppo: innanzitutto, quelle affidate alla «trascendenza del collettivo rispetto all’individuo»; succede così che dopo due secoli, infine, «il principio di individualità ha la meglio su tutto ciò che ancora lo subordinava a qualcosa di più alto, sia sotto forma di nazione e Stato, sia sotto forma di classe e avvenire comune».2 Questo si deve non solo a ragioni storico-sociali: si deve anche – forse soprattutto – al realizzarsi di quei processi che sono causa ed effetto, insieme, del manifestarsi dei limiti dello sviluppo. L’esito è la constatata impossibilità di affidare le speranze e le opportunità di emancipazione e di benessere del maggior numero possibile di individui alla competizione per una più equa distribuzione di una massa sempre maggiore di risorse. Questa prospettiva tende a esaurirsi ed entrano in crisi, di conseguenza, tutte le culture e i programmi che si fondavano sulle categorie dell’essereinsieme e dell’essere-in-società, quali esclusivi strumenti di emancipazione. Attenzione: la crisi di quelle categorie deriva anche dal loro inveramento e dalla loro piena (alle condizioni date) realizzazione; insomma, dal loro successo. E non solo. Come scrive ancora Gauchet, «la prospettiva classica di potenza dell’insieme (…) è sempre largamente presupposta»; e «occorre, comunque, che tale potenza sussista». È un nodo cruciale, questo: il principio di individualità non si afferma in assenza o contro il collettivo, ma presuppone che l’insieme, e le conseguenti garanzie sociali, si siano a loro volta realizzati. In altre parole, la tutela dell’individuo non può che coniugarsi – faticosamente e contraddittoriamente – con la tutela dell’organizzazione sociale. In ogni caso, deve tendere a questo.

In termini più strettamente politici e tutti soggettivi (miei, cioè), ciò richiede che sia la sinistra a battersi per la piena affermazione di quel principio di individualità: insomma, la concentrazione sui diritti individuali non comporta in alcun modo la sottovalutazione del conflitto in corso su previdenza e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Solo la sinistra, a mio avviso, può realizzare la socializzazione del principio di individualità. Solo una sinistra coraggiosa, capace di comprendere che oggi l’uguaglianza dei moderni è il risultato combinatorio di molte e diverse libertà (non tutte integrabili), può avere un ruolo radicalmente innovativo. Una sinistra coraggiosa, che tenga ferme, fermissime le garanzie sociali, ma che faccia giustizia una volta per tutte di ogni residua concezione toponomastica dello spazio politico. Quella concezione, cioè, che disloca le diverse formazioni politiche lungo la linea del continuum destra-sinistra, secondo una gerarchia di «intensità» di sinisteritas (Massimo Cacciari).

Per dimostrare quanto sia fragile quella rappresentazione toponomastica dello spazio politico, ricorro ad alcuni esempi. Uno assai facile, altri più scivolosi e uno difficile e, persino, un po’ «ambiguo». Secondo quella scala di valutazione–misurazione, un presunto indicatore della sinisteritas, come il rifiuto del rientro dei Savoia in Italia, collocherebbe nella casella estrema di quel continuum Giorgio La Malfa, Rifondazione comunista e alcune componenti e alcuni esponenti della sinistra tradizionale. Ma, tanto per capirci, il principio della responsabilità individuale – in una vicenda come quella dei Savoia – mi sembra assai più qualificante di una concezione matura di sinistra nuova (o, meglio, di «terza sinistra»,3 per distinguerla da quella antagonista e da quella socialdemocratica) rispetto al principio della responsabilità dinastica ed ereditaria. In questo caso, a determinare la posizione di «falsa sinistra» (mi si passi la brutta formula), è la convinzione del primato dello Stato e dell’ideologia di Stato (nazional-repubblicana) sui diritti individuali della persona. E una seconda motivazione, più raffinata, rivela anch’essa la medesima radice statolatrica: ovvero l’attribuzione allo Stato, alle sue leggi e ai suoi divieti, di un ruolo «pedagogico». Una «pedagogia» destinata, in questo caso, a perpetuare normativamente la memoria e a produrre normativamente educazione (repubblicana) nei confronti dei cittadini. Ed è la stessa opzione che determina un atteggiamento errato in tema di parità scolastica e di laicità della scuola pubblica. Assegnare allo Stato, com’è giusto, la funzione di garantire a tutti l’accesso a un’istruzione libera e pluralista, non deve significare – in alcun modo – riconoscergli un proprio progetto pedagogico: appunto, statuale-nazionalerepubblicano. Ma questo comporta che, sul piano delle garanzie sociali, a sinistra conduca una battaglia, più e non meno radicale, contro la «scuola di classe» progettata dal ministro Letizia Moratti.

Ancora un esempio (appunto «ambiguo»). Se costretto a scegliere, oggi, tra diritti individuali e garanzie sociali all’interno del mercato del lavoro, nell’impossibilità di conciliare – come vorrei – le due categorie, privilegerei la prima. Per intenderci: tra l’estensione dello Statuto dei lavoratori alle aziende con meno di quindici dipendenti e la piena parità salariale, è la prima rivendicazione quella maggiormente qualificante. Ancora più eloquente e dirompente è il discorso sulla giustizia: la preoccupazione acrosanta per le garanzie sociali in questo campo («la giustizia sia uguale per tutti») ha inibito alla sinistra qualunque – ma proprio qualunque – mobilitazione per le garanzie individuali («la giustizia sia giusta»). La preoccupazione per l’uguaglianza («l’imputato Silvio Berlusconi ha privilegi che il povero cristo nemmeno si sogna») non è stata accompagnata da alcuna preoccupazione per la libertà («diamo al povero cristo tutte le prerogative di cui gode Silvio Berlusconi»). In sintesi: l suicidio di Gabriele Cagliari a San Vittore non ha indotto la sinistra ad affrontare la questione generale dei suicidi in carcere (in cella ci s ammazza 17/18 volte più di quanto ci si mmazzi fuori). Il risultato è, sulla questione della giustizia, una vera propria catastrofe della sinistra (non attenuata, certo, dalla catastrofe ancora più grottesca della destra).

È possibile, sulla base di quanto fin qui detto, lavorare a una sinistra dei diritti e delle libertà? Certo, ci si può provare.

 

Bibliografia

1 M. Gauchet, I diritti umani come politica, in «MicroMega», 5/2001. Si tratta di un articolo importante: le conclusioni cui giunge Gauchet sono esattamente opposte alle mie, ma il suo ragionamento è assai acuto.

2 Ibidem

3 Ecologia e terza sinistra è il titolo di una saggio, scritto nel giugno del 2000, con Eligio Resta, Massimo Scalia, Giuseppe Onufrio e Vittorio Dini, e pubblicato su «Reset» n.61 (giugno/luglio 2000), dove si trattano più diffusamente le questioni qui accennate.