Per il rilancio di una piena e buona occupazione

Written by Laura Pennacchi Monday, 22 May 2017 16:26 Print

L’ipotesi di reddito di cittadinanza pone rilevantissimi problemi culturali e morali e sollecita altrettanto forti precisazioni a proposito della pretesa di dar vita a un “lavoro di cittadinanza” e a un rinnovato New Deal. Piuttosto che ambire a costruire un welfare per la non piena occupazione, la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro, demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della piena e buona occupazione, nella acuta consapevolezza che la sua intrusività rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

 

C’è molta confusione intorno alle proposte di “reddito di cittadinanza” e di “lavoro di cittadinanza”. La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei suoi proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Si può essere tentati di usare una definizione simile anche per la spregiudicatezza con cui Renzi prova oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione – sostanzialmente una riedizione del Jobs Act che, in realtà, è consistito in una riduzione della dignità del lavoro, vista la contrazione dei suoi diritti, e in una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese – dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

Cerchiamo, invece, di fare un po’ di chiarezza, cominciando con il verificare quanto fondamento abbia l’affermazione di “Le Monde”, secondo cui è “una falsa buona idea” l’ipotesi del “reddito universale” o “reddito di cittadinanza”, che in tempi di populismi dilaganti ricorre dall’Italia alla Francia. “Le Monde” si riferisce soprattutto a problemi di costo. E in effetti l’ipotesi di reddito di cittadinanza (molto più ampia di quelle stesse di reddito minimo, non solo per gradazione ma per qualità e natura, con cui si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale non sottoposto a nessun’altra condizione) si distingue innanzitutto per ragioni di costo da altri strumenti reddituali tra loro molto diversi. Bisogna avere chiare le differenze tra ammortizzatori sociali – certamente da estendere e da universalizzare, specie nei paesi europei mediterranei che di tale universalizzazione sono carenti –, varie forme di reddito minimo a contrasto della povertà, reddito di cittadinanza, reddito di base incondizionato. Quest’ultima ipotesi pone immensi problemi di costo – si discute di centinaia di miliardi di euro – a fronte del ben più limitato ammontare che sarebbe richiesto dai Piani per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne ispirati alla prospettiva del lavoro di cittadinanza e al New Deal.1 Un costo così illimitato rende la prima semplicemente irrealizzabile e i secondi assai più credibili e questo basterebbe a chiudere la diatriba, se non fosse che l’ipotesi di reddito di cittadinanza pone anche rilevantissimi problemi culturali e morali, sui quali è bene soffermarsi.

Una direzione su cui ritengo essenziale fare chiarezza è relativa allo scandagliamento del background concettuale che sta dietro la proposta del “reddito di base incondizionato”, per far emergere grappoli distinti di motivazioni con cui essa viene sostenuta, così esplicitandone i rischi differenziati. Sì, perché non può essere sottovalutato che tra i primi sostenitori della proposta di reddito di base incondizionato ci fu Milton Friedman, il monetarista antesignano del neoliberismo che ne formulò una versione con cui essa si presenta come compimento del “conservatorismo compassionevole”: riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella “imposta negativa”. Lo stesso Van Parijs è venuto dopo e ha sempre associato la sua riflessione a un alone libertarian con non trascurabili affinità con quello di Friedman e di Nozick, finendo con l’avvalorare, pur di realizzare il reddito di base, l’immagine di uno Stato sociale minimo non troppo diverso da quello residuale ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti(tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.

La mia opinione è che tale comunanza di lontane ascendenze libertarian sia all’origine della strana resistenza a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi senza fine esplosa nel 2007-08 con cui alcuni teorici di sinistra ripropongono oggi l’ipotesi del reddito di cittadinanza, quasi fossero indifferenti a un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e del suo esito più devastante, la “crisi permanente” per l’appunto. La motivazione con cui da parte di molti di loro si giustifica il reddito di base incondizionato è del tipo “tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile”, con la quale, però, il reddito di base viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe a essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde. Non è forse questa la convinzione di Guy Standing,2 il quale argomenta che il destino delle società occidentali è di essere “società senza lavoro”, per questo da compensare e da risarcire monetariamente con forme di reddito di cittadinanza che antepongano la rivendicazione del reddito a quella del lavoro? È quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ci si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Non voglio certo negare che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma bisogna avere consapevolezza della profondità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco. Posto che la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare un nuovo elemento autonomo di domanda – il consumo finanziatocon debito – oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo. E questo è un problema di allocazione e di struttura. Del resto, c’è qualche correlazione tra la sbrigatività con cui gli affezionati al reddito di base incondizionato considerano le realizzazioni politiche – eredità del New Deal e della rivoluzione keynesiana – dei “trent’anni gloriosi” (rapidamente archiviate come una parentesi di eccezionale crescita in un trend di lungo periodo stagnante, senza chiedersi chi e come l’abbia generata e chi e come l’abbia sovvertita) e la loro insufficiente chiamata in causa del neoliberismo (che è stato, invece, il movimento politico di destra che ha rovesciato i trent’anni gloriosi), in particolare delle sue specifiche responsabilità nella generazione e nell’esplosione delle diseguaglianze.

Problemi di allocazione e di struttura si pongono tanto più al presente, rispetto ai quali non sono in grado di incidere davvero strumenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati – quale è il reddito di cittadinanza – che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies articolate, mirate, concrete. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: a) che i veri problemi odierni (in particolare l’incapacità del sistema economico di generare piena e buona occupazione) rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto a essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; b) che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato e sanzionato; c) che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto, perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato, ma questa deresponsabilizzazione equivale all’eutanasia della politica.

Una direzione ulteriore, attinente al background concettuale, su cui reputo essenziale fare chiarezza, riguarda la stessa concezione dellavoro. L’escamotage a cui alcuni a sinistra ricorrono – sosteniamo insieme sia il reddito di cittadinanza sia la piena occupazione – è fittizio e lascia tutti i problemi irrisolti. Stupisce, piuttosto, che di fronte a quella che i democratici americani non esitano a definire job catastrophe, in Europa oggi solo soggetti religiosi – come Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide”3 – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore allo stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’essere del lavoratore, chiedendo di “non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici” e riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, “titolari di una dignità e non solo di un prezzo” (come è, invece, nella concezione mercificata del lavoro). C’è veramente da chiedersi perché la stessa riscoperta di Marx e della sua critica al capitalismo, indotta dalla crisi economico-finanziaria, non si sia spinta – nemmeno a sinistra – fino al recupero del Marx che, con Hegel, vede nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.

Indubbiamente opera quell’idea non di “liberazione del lavoro” ma di “liberazione dal lavoro” che da sempre anima teorici come Toni Negri. Ma per interpretare questa reticenza, quando non vero e proprio ripudio (si pensi che si giunge a titolare interi libri “Lavoro male comune”4), bisogna risalire anche più in là, al deficit di teoria che ereditiamo dal neoliberismo, e anche alla influenza di quella parte del pensiero di Hannah Arendt – giustamente preoccupata degli aspetti inquietanti delle società di massa – che dei regimi totalitari denunziava la riduzione della vita activa a lavoro e dell’“animale politico” ad animal laborans. Si sottace così l’enorme significato, anche antropologico, della vitale “inquietudine creatrice”5 sempresoggettivamente racchiusa nel lavoro. Si trascura che il lavoro è fattore vitale dell’identità del soggetto e attribuzione di significato all’esperienza esistenziale, esprime un’intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni plurime (con il contesto in cui l’attività lavorativa si svolge, con il sapere e l’esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione mancante, un orizzonte nel quale non si è e al quale si aspira.

Dunque, piuttosto che ambire a costruire un welfare per la non piena occupazione, la priorità assoluta, a mio parere, va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della piena e buona occupazione, nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua “rivoluzionarietà” – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society. Non a caso Luciano Gallino negli ultimi anni di vita ha sostenuto appassionatamente la priorità del lavoro sul reddito. E non a caso il grande studioso Anthony Atkinson, scomparso da poco, da un lato proponeva un “reddito di partecipazione”, cioè un beneficio monetario da erogare sulla base dell’apporto di un contributo sociale (lavoro di varia forma e natura, istruzione, formazione ecc.), dall’altro si riferiva a Keynes e a Minsky e consigliava di tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione, facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo lavoro pubblico garantito, dall’altro ancora suggeriva che la direzione del cambiamento tecnologico sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, finalizzato ad aumentare l’occupazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di reddito di cittadinanza) di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e daibisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di reddito di cittadinanza.

Ne risulta che altrettanto forti precisazioni vanno sollecitate a proposito della pretesa di Renzi di dar vita a un “lavoro di cittadinanza” e a un rinnovato New Deal. L’anima del New Deal di Roosevelt fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le Brigate del lavoro ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla CGIL di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico. Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’IMU e della TASI): perché mai, se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali. Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario: a) identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi “resta fuori dal processo di innovazione”, come dice Renzi); b) dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola ecc.), l’opposto della neutralità e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del dirigismo); c) lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della piena e buona occupazione rovesciando la logica: invece che affrontare ex post i costi della perdita di impiego, fare ex ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata; d) considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come employer of last resort, invece che il perimetro da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keyne­siano lo strappare margini di flessibilità all’austerità europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi. Richiamandosi a Key­nes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (“Inequality”) scritto prima di morire, Anthony Atkinson invoca “proposte più radicali” (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza, quando non la fal­lacia, delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni). Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%. Ed escogita tutta una serie di proposte radicali, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della pie­na occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi OCSE dagli anni Settanta – facendo sì che i governi offrano anche lavoro pubblico garantito. Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla piena e buona occupazione. E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che la direzione del cambiamento tecnologico sia identifi­cata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione. All’idea di rilanciare la piena e buona oc­cupazione Atkinson collega altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calciouna retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla re­tribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra a ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’in­credibile aumento delle diseguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri super ricchi).


[1] Come quello contenuto nel Libro bianco per il Piano del lavoro 2013 della CGIL, L. Pennacchi (a cura di), Tra crisi e «grande trasformazione», Ediesse, Roma 2013.

[2] G. Standing, A Precariat Charter. From Denizens to Citizens, Bloomsbury, Londra 2014.

[3] A. Tornielli, G. Galeazzi, Papa Francesco. Questa economia uccide, Piemme, Milano 2015.

[4] A. Fumagalli, Lavoro male comune, Bruno Mondadori, Milano 2013.

[5] L. Baccelli, Inquietudine creatrice. Marx e il lavoro, in “Iride”, 1/2015.