Rendite e diseguaglianza nel capitalismo contemporaneo

Written by Maurizio Franzini Monday, 22 May 2017 16:25 Print

Vi sono alcuni redditi e ricchezze che crescono, anche in maniera considerevole, senza che venga fatto alcuno sforzo aggiuntivo perché questo aumento si verifichi. Si tratta perciò di rendite che, contrariamente a ciò che comunemente si crede, possono nascondersi anche nei redditi da lavoro o da capitale e scaturire da condizioni di contesto o infondate convinzioni più che da meriti individuali. Sebbene queste forme di rendita non siano la causa unica del crescere delle diseguaglianze, ne sono uno dei motori principali nella realtà contemporanea. Per questo motivo, pur con tutte le difficoltà del caso, la creazione di nuove rendite andrebbe prevenuta e contrastata.

 

Non tutti i redditi (e tutte le ricchezze) sono uguali. Non mi riferisco alla loro altezza (evidentemente tutt’altro che uguale) né alla risorsa che li genera che può essere il lavoro, il capitale o la terra. Mi riferisco, invece, al meccanismo che li determina e, in particolare, alla possibilità che alcuni redditi (e ricchezze) crescano, e non poco, senza che sia ne­cessario l’impiego aggiuntivo di risorse (appunto, di lavoro, capitale o terra), cioè senza dover sostenere ulteriori costi.

Tra i redditi (e le ricchezze) che, usando un’espressione approssimativa, crescono solo in seguito a sforzi aggiuntivi e quelli che crescono anche senza sforzi aggiuntivi c’è, naturalmente, una bella differenza. I primi sono decisamente meno meritori e, inoltre, quasi sempre non si ac­compagnano a un allargamento della produzione complessiva.

Nella teoria economica la categoria utilizzata per indicare quelli che qui chiamo “redditi senza sforzi aggiuntivi” è la rendita. Il concetto è complesso e non sempre ben compreso. In particolare, spesso si ritiene che la rendita derivi soltanto dalla terra o dalla finanza, ma non è così.

A formare questa convinzione ha certamente contribuito il fatto chela rendita è stata introdotta nella letteratura economica da David Ricardo circa due secoli fa proprio con riferimento alla terra. Ricardo osservò che la scarsità naturale delle terre più fertili implica che al crescere della domanda di terra si producano due fenomeni: vengono messe a coltura quelle meno fertili e cresce il valore di quelle più fer­tili. Questo secondo fenomeno costituisce la rendita di cui godono i proprietari delle terre più fertili: un aumento di valore senza sforzi aggiuntivi, appunto.

Dunque, la scarsità è una condizione essenziale della rendita. Essa, può presentarsi in vari modi, alcuni dei quali non sono individuabili con immediatezza. Anche per questo spesso sfugge che la rendita può nascondersi nei redditi da lavoro e da capitale, può essere parte di essi.

Un caso in cui la scarsità che si traduce in redditi crescenti senza sforzi aggiuntivi è ben evidente è quello delle abitazioni di pregio. Se i più ricchi competono per quelle case – attratti anche dallo status che conferisce proprio la loro scarsità – i proprietari godranno di redditi (se danno le case in affitto) o ricchezze aggiuntive (se si deci­dono a venderle) senza alcuno sforzo particolare. Se, ad esempio, in precedenza erano soddisfatti di un affitto di 10.000 euro al mese ora, ricevendone 12.000, saranno più che soddisfatti. Il punto rilevante è che quei 2000 euro in più sono superflui per “mettere la casa sul mer­cato”. Viene così in evidenza un’altra caratteristica della rendita, ben nota agli economisti: è reddito in eccesso rispetto a quello che indur­rebbe a offrire un bene o un servizio sul mercato; dunque, reddito che non serve a far funzionare meglio il mercato e, si può aggiungere, che non si formerebbe se la concorrenza funzionasse perfettamente.

Scarsità, redditi senza sforzo, e redditi in eccesso rispetto al minimo per indurre l’offerta sono, pertanto, strettamente collegati e, in un certo senso, parte di un unico processo. Quello, appunto, che ge­nera rendite e che presuppone mercati che non funzionano secondo l’ideale concorrenziale degli economisti, che è, però, essenziale per giustificare il loro ruolo di istituzione centrale del sistema economico e per sostenere che è equa la diseguaglianza che essi producono.

Tornando alla scarsità che causa rendite, vi sono casi in cui essa è meno evidente. Ad esempio, quello della rendita finanziaria che in realtà cresce quando all’aumento della domanda di strumenti finan­ziari non corrisponde – ecco la scarsità – un ampliamento dell’of­ferta. Più in generale, è così in tutti quei casi in cui si fa fronte alla maggiore domanda (nel breve ma anche nel lungo termine) non con un aumento corrispondente di offerta ma principalmente attraver­so un aumento dei prezzi. Di ciò beneficeranno i proprietari di ca­pitale e forse anche i lavoratori già presenti sul mercato, ma i due casi possono essere tenuti ben distinti soprattutto quando il livello dei salari è molto basso. Nella realtà contemporanea, poi, delle rendite tendono a beneficiare soprattutto i manager che dispongono del potere per trasfor­mare le rendite in retribuzioni crescenti, spesso in modo stratosferico, per se stessi.

A proposito di manager, emerge un aspetto particolarmente problematico della creazione di rendite nei mercati contemporanei. Si tratta della tendenza a credere che la domanda sia in­dotta da speciali meriti individuali dei produttori e in particolare di chi gestisce le imprese. Questa individualizzazione è presente anche in altri ambiti dove si formano (ovviamente solo per alcuni) redditi da “superstar”: lo sport, lo spettacolo e il mondo delle professioni. Questa credenza presuppone, in qualche modo, che i servizi, i beni e le prestazioni di specifici produttori siano insostituibili o, alme­no, molto imperfettamente sostituibili. Ciò basta a vanificare l’idea stessa di concorrenza che richiede, appunto, una sostituibilità più o meno perfetta: molti possono fare le stesse ottime cose e chi do­manda sul mercato è in grado di riconoscere che si tratta delle stesse ottime cose.

Certamente i percettori di rendite hanno tutto l’interesse a diffonde­re queste convinzioni e lo fanno nei molti modi di cui dispongono. Il conduttore televisivo e la star dello spettacolo affermando che il pubblico che li segue verrebbe meno se qualcun altro prendesse il loro posto; il manager sostenendo che è merito proprio tutto o quasi tutto l’assetto organizzativo e produttivo che sostiene l’impresa, in­clusa la scelta dei collaboratori che finisce per contare più di quello che i collaboratori fanno e così via.

Se il professionista di successo non è sostituibile (proprio come la terra più fertile di Ricardo) è inevitabile che anche in assenza di altre barriere egli venga a godere di una rendita. Ma oggi la complicazione, come si è detto, sta nell’idea che, diversamente dalla terra che non ha alcun merito, nella crescita della domanda gli offerenti di alcuni servizi abbiano quel merito; dunque, essi compirebbero lo sforzo di creare domanda e i redditi aggiuntivi conseguenti cesserebbero di essere rendite. Ma è sostenibile una simile tesi?

I motivi per dubitarne sono numerosi e non possono essere tutti elencati in questa sede. Mi limiterò a osservare, da un lato, che resta piuttosto oscuro perché solo alcuni possano compiere quegli sforzi (produttivi) diretti a creare domanda e, dall’altro, che quegli sfor­zi possono facilmente consistere in tentativi di manipolazione delle scelte e delle preferenze dei consumatori, diretti a fare apparire in­sostituibile la propria prestazione o il proprio prodotto creando una sorta di artificiale scarsità ai quali sembrerebbe, perciò, appropriato non riconoscere alcun premio.

La conoscenza che si viene accumulando sulle debolezze cognitive de­gli individui permette di ritenere assai probabile che verranno poste in essere attività in grado di indurre – sfruttando quelle debolezze –

la percezione di insostituibilità di cui si è detto. In breve, la capaci­tà di ingannare si trasformerebbe in reddito e tutto questo sarebbe compatibile con il funzionamento dei mercati, ma non si trattereb­be dei mercati virtuosi evocati dagli economisti.1 Se non vogliamo chiamare rendite i redditi ottenuti con la manipolazione e l’inganno come dovremmo chiamarli?

Un ulteriore aspetto da considerare è quello della replicabilità dell’of­ferta grazie alle tecnologie del consumo congiunto. Una prestazione sportiva può essere goduta da un numero sterminato di telespettatori e quindi dare luogo a enormi introiti, soprattutto pubblicitari, di cui beneficiano le star dello sport (e, nel loro contesto, le star dello spettacolo), senza che il loro sforzo sia granché cambiato rispetto a quando una partita di calcio era vista da poche decine di migliaia di persone. Il loro sforzo no, ma il loro reddito sì.

Tutto ciò rischia di avere, nei vari casi, conseguenze assai negative. Anzitutto la possibilità di ottenere redditi senza sforzi può suscitare comportamenti diretti a rendere concreta quella possibilità. Si tratta del fenomeno noto come rent-seeking. La manipolazione di cui si è detto rientra in questo tipo di attività. Ma in altri ambiti il rent-seeking consiste nella pressione esercitata sulla decisione politica, per creare o proteggere situazioni di scarsità che generano rendite. Il processo di decisione democratica ne può risultare profondamente alterato. Anche questa è una conseguenza della mancanza di efficace concorrenza sui mercati.

Inoltre, nella valutazione di alcuni studiosi,2 le rendite contribuisco­no e non poco ad aggravare le diseguaglianze e la povertà. Certo, non ne sono la causa unica ma sicuramente sono tra i motori principali della diseguaglianza contemporanea e ne definiscono il carattere oli­garchico.3

Per questi motivi le rendite dovrebbero essere prevenute. Ma non è un compito facile. È praticamente impossibile impedire il formarsi di rendite dovute a scarsità naturali. È difficile ma possibile contrastare quelle che derivano da limitazioni nell’accesso ai mercati. È difficilis­simo ma ancora possibile limitare quelle che derivano dall’induzione della convinzione che le proprie prestazioni sia­no insostituibili. In tutti i casi, però, le rendite, una volta formate, possono essere tassate con l’effetto sia di scoraggiare la loro ricerca sia di correggere il loro impatto sulle diseguaglianze.

Interventi di questa natura possono essere presi in considerazione non soltanto rispetto ai reddi­ti ottenuti senza sforzo, cioè le rendite in senso proprio, ma anche rispetto ai redditi ottenuti senza pagare tutti i costi della propria attività. Nella realtà contemporanea si viene affermando una forma nuova di appropriazione gratuita degli input. Si tratta dell’uso (e della ven­dita) di dati personali che permettono profitti stratosferici ai giganti della rete. I dati personali sono divenuti un bene dotato di valore e non solo nei mercati economici, ma anche in quelli della politica. Vi è domanda pagante per essi ma chi li offre non paga nulla per ottenerli. Siamo in presenza di redditi ottenuti senza costi, dunque sostanzialmente di rendite.

Vi sono anche altri costi che si omette di pagare e che favoriscono la formazione di redditi spesso elevatissimi. Mi riferisco al fenomeno delle esternalità, ben noto agli economisti. I costi non pagati sono, in questo caso, i danni generati ad altri. Ad esempio, se si produceusando combustibili inquinanti invece che i più costosi combustibili verdi si infligge un danno senza compensazione ad altri, accrescendo, nel contempo, i propri profitti. Queste attività dannose generano per chi le crea redditi in eccesso rispetto a quelli che si formerebbero se non si infliggessero danni ad altri e, dunque, se i mercati funzionas­sero come molti economisti immaginano che normalmente funzio­nino. In questo senso hanno anch’essi la natura di rendite.

Il richiamo alle esternalità può essere utile per inquadrare il proble­ma dell’innovazione e in particolare dell’introduzione dei robot, sui quali si è proposto di applicare una tassa. Se i robot sostituiscono il lavoro umano e lo fanno con l’unico risultato di ridurre l’occupa­zione senza altri miglioramenti nella qualità dei prodotti l’esito è un aumento di profitti grazie a quella sostituzione e una perdita di salari da parte dei disoccupati. La scelta di utilizzare il robot genera, dunque, un danno per il quale non si paga alcunché. Vi sono buoni motivi per parlare di esternalità.

Si dirà che è questo il processo attraverso il quale il capitalismo cresce e che esso è in grado di produrre gli anticorpi, cioè il riassorbimento della disoccupazione. Ma non se ne può essere certi e per questo potrebbe essere sensato chiedere di pagare, attraverso la tassazione, il costo sociale rappresentato dalla disoccupazione, anche soltanto finché questa persisterà. È urgente una precisazione: affermare che è sensato non equivale a dire che è semplice da farsi. Ma se non si riconosce che potrebbe essere sensato di certo non si troverà il modo per fare una cosa non semplice.

L’obiezione che questa tassa scoraggerebbe l’innovazione non sembra sufficientemente fondata. Essa infatti, scoraggerebbe – eventualmen­te – solo l’innovazione che sostituisce profitti a salari mentre nessun effetto avrebbe sull’innovazione che consistesse in un prodotto nuo­vo che cattura nuova domanda e non implica disoccupazione. In questo caso l’innovazione non avrebbe costi sociali e il maggiore red­dito potrebbe essere tutto ascritto allo sforzo sostenuto per innovare in modo socialmente utile.

Osservato dal punto di vista delle rendite, il mondo contemporaneo appare un laboratorio in piena e non tranquillizzante evoluzione. Ne produce di nuove e spesso sono troppo complesse per essere fron­teggiate con precisione ed efficacia. Il rischio di errare nei due sensi (considerare rendite quelle che non lo sono e non considerare rendite quelle che invece lo sono) è, in alcuni casi, elevato. Ma le ragioni per tassare le rendite e redistribuire gli introiti sono numerose e ben fondate.

I problemi da affrontare sono molti e tra essi vi è anche quello di su­perare l’idea che presupposto della tassazione sia soltanto la capacità contributiva. Si tratta, infatti, di tassare in modo diversificato redditi o ricchezze di uguale ammontare ma con differente contenuto di rendita. Il fondamento giuridico per farlo, come ha osservato Gallo,4 non manca. E neanche quello economico e di giustizia sociale, come si è cercato di argomentare in queste note.


[1] G. A. Akerlof, R. J. Shiller, Ci prendono per fessi. L’economia della manipolazione e dell’inganno, Mondadori, Milano 2016; M. Franzini, L’economia dell’inganno, il caso Volkswagen e il crony capitalism, in “Menabò di Etica ed Economia”, disponibile su www.eticaeconomia.it/leconomia-dellinganno-il-caso-volkswagen-e-il-crony-capitalism.

[2] Si veda, ad esempio, J. E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013.

[3] M. Franzini, M. Pianta, Le disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, Roma-Bari 2016.

[4] F. Gallo, Ripensare il sistema fiscale in termini di maggiore equità distributiva, in “Politiche Sociali”, 2/2014, pp. 221-32.