La comunicazione politica oggi, tra retorica e provocazione

Written by Giovanni Sasso Tuesday, 13 May 2008 19:54 Print

Cosa passa, oltre a svariate centinaia di chilometri di mare, tra il comunicato di un deputato italiano e il video rap di Obama? E, più in generale, dove va la comunicazione politica oggi? Il video di Obama centra in pieno il primo degli obiettivi cardine di una comunicazione moderna (politica e non): quello di emergere. O, se si vuole, di provocare, dunque di suscitare una reazione. L’evoluzione che i meccanismi della comunicazione hanno subito negli ultimi dieci anni non trova nessun paragone possibile con il passato, e i nostri sistemi di percezione e di apprendimento hanno provato a difendersi dall’enorme aumento di informazioni a disposizione sperimentando nuovi criteri di selezione.

Trascrivo dal dizionario Garzanti online la definizione del verbo provocare: «eccitare una persona, spec. a sentimenti di ribellione, di sdegno; irritare, sfidare: provocare qualcuno all’ira, all’indignazione; ha reagito perché era stato provocato».

Il superamento della retorica

Al termine di una riunione di partito un deputato italiano emette il seguente comunicato stampa: «Dal vertice appena terminato è emersa una volontà condivisa che può innescare un processo atto a ricercare nuove convergenze che, nel rispetto dei paletti individuati, accogliendo parte delle istanze della minoranza del partito, possano aprire scenari politici inediti che conducano a una nuova stagione di cambiamento». Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, nella campagna per le primarie dei democratici negli Stati Uniti, compare su YouTube un videoclip in cui alcuni frammenti di un discorso di Barack Obama in Illinois vengono mixati a voci e volti di noti personaggi statunitensi che parlano e cantano all’unisono con lui, accompagnati da una base musicale coinvolgente, in un superbo bianconero d’autore.

Cosa passa, oltre a svariate centinaia di chilometri di mare, tra il comunicato del deputato italiano e il video rap di Obama? E, più in generale, dove va la comunicazione politica oggi?

A questa ambiziosa domanda potremmo cominciare a rispondere at- traverso umili constatazioni empiriche. Ho letto il comunicato del deputato la mattina di una domenica.

Ero relativamente libero da impegni, rilassato, in poltrona e sufficientemente vigile. Ho dovuto resistere due volte alla tentazione di lasciare la lettura a metà. Ho continuato solo per masochistica curiosità professionale. Poi, alla fine, l’ho riletto un paio di volte. Eppure confesso che ancora oggi faccio fatica a comprenderne fino in fondo il significato. In alcuni momenti di pessimismo temo che non ve ne sia alcuno. Ho visto il video di Obama sul mio portatile nel mezzo di un pomeriggio complesso. Ero in piedi, nella mia stanza, e stavo per trasferirmi in sala riunioni, in ritardo di venti minuti. Il cellulare mi squillava e contemporaneamente la segretaria mi annunciava un’altra chiamata in attesa sul fisso. Eppure non riuscivo a staccare gli occhi da quel video. La chiamata è rimasta in attesa e il ritardo alla riunione è salito fatalmente a venticinque minuti.

Riccardo Pazzaglia (“filosofo” nel programma televisivo “Quelli della Notte”) avrebbe detto con enfasi che è molto meglio gustarsi un bel video americano con Scarlett Johansson e Herbie Hancock piuttosto che arrovellarsi su un imperscrutabile e autoreferenziale comunicato di partito. Certo, ma c’è dell’altro.

Pazzaglia avrebbe omesso di aggiungere un particolare determinante. Il video di Obama, oggettivamente, centra in pieno il primo degli obiettivi cardine di una comunicazione moderna (politica e non). Cioè quello di emergere. O, se si vuole, di provocare, dunque di suscitare una reazione, una curiosità, un coinvolgimento dell’utente, a prescindere dal tema trattato. Il video di Obama ti scuote, anche se non ne capisci a fondo il significato, anche se lo vedi in un video di YouTube, con l’audio disturbato, mentre i telefoni intorno non la smettono di squillare.

Il comunicato stampa del deputato invece, semplicemente, non esiste. Non esiste perché non parla a chi lo legge. Parla a se stesso. Non esiste perché non prova a muoverci né a muovere: lascia tutto com’è. Non esiste perché tra mille comunicati simili non ha alcuna speranza di emergere, di scuoterci, di catturare la nostra attenzione.

Qualche anno fa, forse, quel comunicato avrebbe potuto sopravvivere, magari stentatamente, magari un giorno o due. Oggi nasce morto. L’evoluzione che i meccanismi della comunicazione hanno subito negli ultimi dieci anni non trova nessun paragone possibile con il passato. L’accelerazione delle velocità di trasferimento dei dati, l’abbattimento delle barriere geografiche, l’innovazione dei mezzi, la moltiplicazione quotidiana delle fonti e il crollo delle gerarchie consolidate nella produzione di contenuti e notizie hanno prodotto in tempi rapidissimi uno scenario talmente nuovo da mandare in totale crisi le tecniche di comunicazione classiche. Nello stesso tempo, i nostri sistemi di percezione e di apprendimento, non potendo fisiologicamente adeguarsi con eguale rapidità a questa rivoluzione, hanno provato a difendersi dall’enorme aumento di informazioni a disposizione sperimentando nuovi criteri di selezione, inesorabilmente più rozzi, che concentrano l’attenzione su quella piccola percentuale di dati che in qualche modo riesce a farsi notare più delle altre nel magma mediatico contemporaneo.

In questo panorama si capisce bene come quel comunicato stampa in politichese, o la dichiarazione di prammatica al TG, oppure il comizio tradizionale, nonché, assai probabilmente, anche questa mia noiosa dissertazione, non hanno nessuna speranza di essere notati, capiti o addirittura memorizzati. I nostri nuovi e iperselettivi cervelli li classificano nel migliore dei casi come sfondo; nel peggiore, come spazzatura.

La provocazione come strumento obbligatorio

Doveva aver ben compreso questo meccanismo Antanas Mockus, docente dell’Università di Bogotà, quando durante una sua lezione, indispettito per la scarsa attenzione che i suoi studenti gli stavano dedicando, decise di voltar loro le spalle e di continuare a parlare con i pantaloni abbassati. Attraverso questo originale artifizio ottenne tre risultati. Il primo, il più importante: gli studenti da quel momento in poi seguirono attentamente l’intero svolgimento della sua lezione. Il secondo: fu, quella, la sua ultima apparizione accademica: il preside, evidentemente privo di spirito, non gradì e lo espulse. Il terzo: qualche mese dopo la sua bizzarra performance il neo disoccupato Antanas Mockus fu eletto sindaco di Bogotà. A ben vedere, l’estroso professore sudamericano aveva soltanto utilizzato un mezzo alternativo (ed efficacissimo) per conquistare l’attenzione dei suoi studenti. Li aveva cioè provocati. In questo modo il suo messaggio (la lezione) era arrivato a destinazione.

Provocare, nel senso letterale di “suscitare una reazione, sfidare, addirittura irritare”, è dunque diventato oggi un imperativo categorico per un qualunque processo di comunicazione che voglia dirsi compiuto. E questo è tanto più vero nel mondo della comunicazione politica, dove l’appiattimento delle differenze e la frammentazione delle voci rende la competizione per “emergere” ancora più spietata. Invitare tutti i politici a calarsi pantaloni e gonne non è però la soluzione (benché ci sia qualcuno che la pratichi, più o meno metaforicamente). E nemmeno le urla nei talk show, le dichiarazioni sparate (parzialmente o interamente smentite il minuto dopo), le gaffe più o meno pilotate, si rivelano oggi tecniche efficaci. Cosa deve dunque fare un politico per riuscire ad “emergere” dal magma? In sostanza, cosa deve fare per fare buona comunicazione politica?

«Deve fare buona politica», disse una voce un po’ naif. La stessa voce proverà, in modo meno ingenuo, ad argomentare la risposta.

Nella mia non lunghissima carriera di comunicatore (anche) politico, ho vissuto raramente momenti di reale imbarazzo. Uno di questi, però, lo ricordo bene. Con i miei collaboratori e il responsabile comunicazione di un partito, intorno a un tavolo ovale, avevamo appena trascorso più di tre ore a definire tutti i particolari della imminente campagna: dai nomi dei testimonial alle location, dalle tecniche di regia al tono dello speaker, dal formato delle affissioni al carattere tipografico da utilizzare. Ci apprestavamo dunque ad approfondire la cosa più importante: i temi sui quali si sarebbe incentrata la campagna. «Vabbè, fate voi, puntate sulle solite cose, quelle che fanno più presa sulla gente», disse tra un malcelato sconcerto generale il responsabile del partito.

Riunione terminata, strette di mano, arrivederci alla prima bozza di manifesto. In ascensore, guardando i miei colleghi, mi venne voglia di mollare tutto. Poi di fondare un partito. Infine, capii che il dio della comunicazione ci stava mettendo al centro di una scena altamente metaforica. Eravamo i protagonisti inconsapevoli di una parabola da cui trarre un insegnamento prezioso. Stavamo vivendo in prima persona la materializzazione della crisi della politica italiana. Si stava manifestando, davanti ai nostri occhi, la politica, e stava abdicando al suo ruolo in favore del marketing elettorale.

La politica, in una specie di trance, in un flusso di autocoscienza, stava riconoscendo i suoi limiti e demandava al comunicatore il compito di scegliere i temi del suo programma. La politica, che per tre ore si era mostrata interessata e competente nella definizione delle forme della campagna, si rifiutava di investire anche un solo minuto per occuparsi dei contenuti.

Ecco l’insegnamento: la politica dunque ha interiorizzato la teoria della provocazione, delle braghe calate, in un modo così totalizzante da averla distorta. Ora sa che è necessario stupire, provocare, emergere, e si concentra su questo, solo su questo, per vincere. Ma per vincere cosa?

Medium is not message

Eravamo dunque di fronte, quel giorno, alla politica che confonde (forse consapevolmente) il mezzo con il messaggio, perché sul primo può giocarsi carte che sul secondo non ha più. Ma le elezioni, è ovvio, sono solo la prima mano della partita. Il giorno dopo i cittadini verranno a vedere; e quando scopriranno il bluff, tornare indietro sarà oltremodo complicato.

Fuor di metafora, la comunicazione politica italiana, il larga parte, vive una situazione fuori controllo che produce le seguenti mistificazioni: 1) i temi delle campagne elettorali vengono scelti sulla base di sondaggi; 2) l’imperativo è dire quello che “la gente” vuole sentirsi dire (possibilmente con qualche decibel in più dell’avversario); 3) si accantonano le grandi questioni, con l’alibi della complessità e della difficoltà di comprensione; 4) la trattazione dei problemi reali del paese nei talk show è inversamente proporzionale alla prossimità della scadenza elettorale; 5) il tornaconto immediato diventa l’unica cartina di tornasole per orientare le scelte di comunicazione, che dunque da elettorale si trasforma in elettoralistica.

Date queste premesse, alcuni politici si trasformano in burattini dei loro spin doctor, mentre nella stanza attigua sondaggisti di fiducia sono impegnati a stilare il programma. Da comunicatore, questo panorama dovrebbe entusiasmarmi, o quantomeno farmi comodo. Invece mi deprime. Molto semplicemente ritengo che ognuno dovrebbe tornare a svolgere il proprio ruolo. La comunicazione che diventa protagonista della politica non è e non sarà mai una buona comunicazione. La comunicazione deve tornare a mettersi al servizio della politica. Della buona politica. Perché non esiste una buona campagna per un prodotto scadente.

La nuova sfida: buona comunicazione per buona politica

E la politica, da parte sua, dovrebbe tornare ad essere ambiziosa. Dovrebbe ritrovare il coraggio, la passione, la voglia di rischiare. Non parlo di azzardo né di improbabili rivoluzioni. Oggi il vero rischio è la serietà. La vera ambizione è provare ad andare oltre la retorica dello slogan masticabile (“meno tasse, più sicurezza”), ormai talmente masticato che non se ne sente nemmeno più il sapore. La vera sfida è provare a provocare con le idee, non fermarsi alle braghe calate.

Insomma, il primo passo è la buona politica. Quella dei fatti, delle scelte. E dopo, ma solo molto dopo, toccherà alla buona comunicazione.

Perché nessuno ha mai provato a spiegarmi cosa significa per le mie tasche la riduzione di un punto del rapporto deficit-PIL? Forse perché sarebbe troppo complesso? Forse perché è un argomento che mal si concilia con i tempi di una campagna elettorale peraltro (ecco un altro alibi) ormai permanente? Vero. Ma allora a cosa serve un comunicatore se non a questo? È appunto qui la novità di una buona comunicazione politica. Davanti a un elettore sempre più smaliziato e diffidente, frettoloso e scettico, il buon comunicatore prova a non assecondarne gli istinti più bassi, ma a rispettarne (e a stimolarne) l’intelligenza. Prova a mettersi al servizio delle buone idee studiando i tempi e i modi opportuni per renderle comprensibili alla maggior parte degli elettori. In questo semplice modo, il politico torna a fare politica e il comunicatore a comunicarla. “Truth well told”, recita il claim di una famosa agenzia di comunicazione. “Verità detta bene”, questa è la missione. Banale, ma rivoluzionaria. Laddove la “verità” sta per l’idea, il valore, la soluzione ai problemi e magari anche i suoi tempi di attuazione, le sue coperture finanziarie. E laddove “detta bene” sta per studio di linguaggi innovativi, rifiuto dei luoghi comuni e delle scorciatoie, ricerca di mezzi alternativi, capacità di elaborare soluzioni creative diverse dai soliti format di scuola.

Alla fine di una estenuante campagna elettorale, un candidato che avevamo seguito per sei mesi, ci disse: bravi ragazzi, avete fatto politica. Aveva ragione. Ma non si riferiva a quel perverso scambio di ruoli di cui parlavamo in precedenza. Intendeva dire che quando un messaggio politico, un’idea, una proposta, viene comunicata correttamente e in maniera efficace, il risultato è elementare, ma entusiasmante: l’idea arriva forte e chiara al destinatario. E quindi, se è un buon messaggio, una buona proposta, una buona idea, il solo fatto che arrivi al destinatario genera di per sé un processo virtuoso. Cioè produce una risposta, crea un’interazione virtuosa. Quindi non solo elettoralistica adesione da parte del cittadino, ma dibattito e creazione di altre idee, pubbliche o private, che a loro volta entrano in relazione con le originarie e le fanno evolvere. Questa non è, appunto, solo comunicazione. Diventa essa stessa politica. Da comunicatore, da elettore e da amante della politica, sogno un mondo in cui mi si chieda di spiegare la finanziaria a un bambino di sei anni. Sarebbe il trionfo della buona comunicazione. E della buona politica.