Una burocrazia all'altezza dei tempi

Written by Guido Melis Wednesday, 05 November 2014 16:09 Print

L’amministrazione italiana si può e si deve riformare, con azioni mirate, connesse tra loro, coerenti con un disegno complessivo di lungo respiro, sfuggendo all’impulso che nasce dall’emergenza. Per evitare di incorrere nell’errore commesso con gli interventi del passato, inquadrati in un tempo ristretto e non sostenuti dall’opinione pubblica e dalla classe politica nel suo complesso, occorre costruire intorno alle riforme amministrative un nuovo blocco storico e spostarsi dall’ottica imperniata sui soli problemi del personale a una incentrata sui bisogni dei cittadini. La scommessa da vincere è quella di dotarci, in tempi brevi, di una burocrazia moderna, adatta ai tempi veloci dell’informatica, in armonia con l’Europa e interprete consapevole dei grandi cambiamenti che si annunciano.

Si può riformare l’amministrazione italiana? A voler tener conto dell’impetuosa polemica contro la “casta” in atto da qualche tempo sui media italiani, si direbbe quasi di no. Ma d’altra parte è, questa, una costante tipica della storia d’Italia. Ogni volta che il paese attraversa un frangente di particolare difficoltà (e certo quella attuale è tra le crisi più complesse e difficili che abbia conosciuto l’Italia unita), la burocrazia, a torto o a ragione, viene evocata come capro espiatorio.

Per molti versi a ragione, beninteso. Abbiamo in Italia circa tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici, forse anche di meno (una delle scienze più contraddittorie è la statistica amministrativa, per lo meno quella italiana). Non sono affatto troppi, specie se comparati con il personale dei grandi Stati europei; ma al tempo stesso sono mal selezionati, in prevalenza estratti dalla parte più arretrata del paese (non è mai penetrata nelle amministrazioni italiane quella cultura dell’organizzazione industriale che altrove ha segnato l’esperienza di rilevanti settori pubblici), mal distribuiti sul territorio, mal formati e, soprattutto, male utilizzati. Ancora: l’impiego pubblico italiano è il più anziano d’Europa, guidato dalla dirigenza più vecchia e da più tempo in funzioni di vertice, troppo numerosa, troppo poco responsabilizzata e al tempo stesso troppo succube rispetto alla politica. Le donne, pure numericamente in crescita, sono ancora relegate nei livelli bassi della piramide retributiva. Una rilevantissima percentuale del settore è composta di personale con rapporto precario, assunto con una pletora infinita di contratti a termine. L’insieme di questi e di altri fattori di debolezza costituisce l’handicap strutturale di cui soffrono gli apparati pubblici. E spiega, almeno in parte, la campagna dei media contro la burocrazia.

Burocrazia: un termine che non si dovrebbe mai usare senza aggiungervi aggettivi o specificazioni. Senza aver ricordato, ad esempio, che la gran massa dei dipendenti (e perciò la gran parte della spesa in stipendi) concerne settori portanti come la sanità e la scuola e non riguarda, come si vuol far credere, i soli, eterni “passacarte” ministeriali, il popolo parassita dei timbri e dei bolli. O senza sapere che nei tre milioni e mezzo è compreso anche il personale delle Regioni, degli enti locali, dei grandi enti del parastato. E senza avvertire, infine, che la foresta amministrativa è formata di molti alberi differenti, e cioè da esperienze, culture, tradizioni, modalità di lavoro non facilmente assimilabili: come invece spesso si fa quando si spara sul bersaglio grosso (“la burocrazia”) a palle incatenate. Alcuni degli alberi, o dei rami (lo ricorda spesso Sabino Cassese), sono in realtà nient’affatto rinsecchiti, ma viceversa vitali, al punto da essere considerati come tali anche all’estero. Il problema è semmai che queste amministrazioni virtuose rimangono isolate dal resto, costituiscono eccezioni, non fanno sistema. In realtà l’amministrazione italiana non solo si può ma si deve riformare. Non esiste nessun editto divino che condanni l’Italia a una sorte di eterna inefficienza amministrativa. Per curare il male, però, bisogna conoscerlo. Occorre distinguere le cause storiche delle disfunzioni presenti; e capirne le ragioni d’ordine sociale e politico (il coacervo di interessi parassitari che spesso immobilizza le amministrazioni). Per poi procedere nell’azione di riforma con movimenti mirati, connessi tra di loro, coerenti con un disegno complessivo di più lungo respiro.

Non si può cioè realizzare in poco tempo “la” riforma dell’amministrazione come fosse un atto unico, quando per sua natura è invece una tipica riforma processuale. Si possono, invece, e si debbono concretizzare le singole politiche di riforma. Con interventi di effetto immediato, dovunque sia possibile. Con investimenti nel tempo medio o addirittura in quello lungo, dove siano necessari. Programmando e non affidandosi all’impulso che nasce dall’emergenza. Attivando un sistema di indicatori istituzionali che consenta di capire quale sia la ricaduta delle scelte via via fatte, di misurarne l’efficacia in itinere, se è il caso di correggerne il tiro. Perché un’altra delle nostre caratteristiche patologiche (quasi un vizio di superficialità che ci portiamo dietro) è quella di approvare le leggi, talvolta anche buone leggi, ma poi di abbandonarle, senza curarci di seguirne gli effetti. Col risultato che in ciascuna stagione, al succedersi di ogni maggioranza e spesso di ogni governo, si sforna bene o male un nuovo progetto di riforma, ignorando totalmente quello che è avvenuto prima e quali ne siano state le conseguenze. Come se i medici, avvicendandosi al capezzale del malato, omettessero di ricostruirne la storia clinica.

Una delle ragioni, per non dire quella principale, del fallimento delle riforme tentate negli scorsi decenni (per restare solo al passato più prossimo, quelle che vanno da Massimo Severo Giannini a Sabino Cassese, a Franco Bassanini) è da ricercarsi appunto nella loro natura di iniziative inesorabilmente inquadrate in un tempo ristretto, condizionate dall’instabilità dei governi, dall’assenza di visioni bipartisan della riforma e, in definitiva, dalla “solitudine” del riformismo amministrativo. Progetti virtuosi, per lo più fondati su scelte più che ragionevoli, collegati tra di loro a distanza di anni da una coerenza di obiettivi, contenuti e metodi. Ma isolati nel contesto politico e sociale del momento.

I due grandi latitanti della riforma amministrativa, se si guarda all’Italia del dopoguerra confrontandola agli altri paesi d’Europa, sono stati infatti la classe politica nel suo complesso (con poche, isolate eccezioni individuali), che non ha saputo dare continuità alle politiche di riforma e anzi, il più delle volte, ha strumentalizzato l’arretratezza burocratica nell’ambito di un patto scellerato con la burocrazia per finalità elettorali o comunque di consenso, e l’opinione pubblica, incapace, al di fuori di poche élite circoscritte, di comprendere e sostenere consapevolmente la modernizzazione dell’amministrazione. Il che equivale a dire che sono mancate in Italia, per gran parte dei 150 anni della storia unitaria, una politica e una cultura diffuse e condivise della riforma amministrativa. Cosa fare, allora, innanzitutto? Intanto intraprendere una politica di alleanze, costituire con intelligenza intorno alle riforme amministrative un nuovo blocco storico. Agli inizi del Novecento, all’interno del primo magmatico mondo delle associazioni degli impiegati pubblici, Filippo Turati sosteneva (piuttosto isolato, per la verità) la tesi che da dentro lo Stato, attraverso la mobilitazione dei suoi uomini migliori, sarebbe dovuta venire la riforma democratica del paese, quel disegno alto che poi si espresse – ma, ahimè, troppo tardi, alla vigilia del fascismo – nel programma turatiano del 1920: “Rifare l’Italia!”. Esistono oggi, negli apparati pubblici, energie democratiche, efficienze, professionalità capaci di dare corpo a un progetto simile? Se esistono, è lì che bisogna far leva. Ma poi c’è un altro punto d’attacco. Parlo del necessario spostamento dall’ottica sinora storicamente prevalente, imperniata sui soli problemi del personale, a quella nuova, incentrata sui bisogni dei cittadini. Cambiare la bussola, insomma. Viene di qui un’idea di riforma (che è stata tipica degli anni Novanta) basata sulla revisione dei modelli organizzativi (sinora troppi, troppo sovrapposti tra loro, senza reciproca coerenza) e sulla messa in soffitta del formalismo in favore di schemi più duttili e moderni, adottati in base alle funzioni da svolgere e agli obiettivi da conseguire. Semplificazione, decentramento di funzioni, attribuzioni di missioni precise e non più di competenze generiche, premi ai migliori con valutazioni puntuali, responsabilizzazione di chi dirige. È da questa eredità virtuosa che bisogna ripartire. Naturalmente senza dimenticare che dai due esperimenti che abbiamo alle spalle, Cassese e Bassanini, sono ormai passati rispettivamente più di 20 e più di 10-15 anni e in questo lasso di tempo l’Italia (non solo l’amministrazione) è molto cambiata.

Esistono alcuni buoni motivi per essere fiduciosi. Intanto, due potenti fattori esterni giocano in favore del riformismo amministrativo. Il primo è l’Europa, il secondo è la rivoluzione tecnologica in atto (l’avvento, cioè, dell’universo globale rappresentato dalla rete). Diceva Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca dell’ingresso nell’euro, che l’Europa ci avrebbe obbligato a divenire virtuosi. Parlava della finanza, del sistema di vincoli che ne sarebbe derivato. Per quanto impopolari possano oggi apparire quei vincoli, si può ragionevolmente acconsentire che essi hanno, tuttavia, agito nel modellare in profondo le istituzioni finanziarie. Altrettanto potrebbe influire l’idea forte di un sistema amministrativo europeo via via sempre più unificato, nel quale si rendano inammissibili livelli di inefficienza come quelli che caratterizzano il caso italiano. Nell’avanzare dell’unità europea, dunque, la riforma può trovare un potente alleato.

C’è poi la rete, che cambia profondamente la stessa plurisecolare cadenza del lavoro amministrativo: detta i suoi tempi, le sue regole, le sue modalità di comunicazione. Impone l’interconnessione tra soggetti un tempo incomunicanti, rendendo obsolete le canoniche stazioni della via crucis burocratica. Modifica anche professionalità e mentalità degli operatori e necessariamente comporta un diverso assetto organizzativo. Se il processo delle decisioni si fa reticolare e circolare, sarà sempre più difficile mantenere una struttura sottostante gerarchicamente ordinata e verticale. Se al medesimo dossier è possibile accedere e lavorare da più punti anche fisicamente distanti, il formarsi della decisione amministrativa assumerà un carattere di contestualità e di coincidenza nei tempi ignota al precedente modo burocratico di lavorare. Sotto questo specifico profilo sarà decisivo il rapido superamento dei problemi che ancora si frappongono al pieno avvento dell’Agenda digitale (e che Francesco Caio ha concretamente illustrato in un sintetico ma incisivo volumetto edito qualche mese fa).1

Riusciranno questi due fattori, entrambi inediti nella storia d’Italia, a imporre o quanto meno a favorire la soluzione della questione amministrativa? Sinora, lungo oltre 150 anni di esperienza nazionale, nel bene e nel male, riflettendone pregi e difetti strutturali, la burocrazia è stata una componente importante della storia d’Italia. La vecchia burocrazia ottocentesca ha letteralmente fatto l’Italia unita, quella giolittiana ha saputo guidare lo Stato negli anni difficili del decollo capitalistico, quella del periodo fascista in qualche modo (specie con l’alternativa felice degli enti pubblici economici) è riuscita a governare l’economia nel tempo della grande crisi degli anni Trenta e quella del dopoguerra ha lavorato operosamente alla ricostruzione del paese. La scommessa – ora – è se avremo o no in tempi brevi una burocrazia moderna, adatta ai tempi veloci dell’informatica, in armonia con l’Europa, interprete consapevole dei grandi cambiamenti che si annunciano.


[1] F. Caio, Lo Stato del digitale. Come l’Italia può recuperare la leadership in Europa, Marsilio, Venezia 2014.