Della pubblica felicità, oggi

Written by Carlo Ossola Tuesday, 13 May 2008 17:50 Print
La “pubblica felicità” ha avuto sin dall’Ottocento molti alfieri che sostenevano un nesso fra benessere, educazione e lavoro. La promozione sociale attraverso il merito, il lavoro e il contributo al bene di tutti sono principi semplici ma che sembrano essere venuti meno. Oggi l’Italia ha un sistema scolastico fra i più scadenti dell’Unione europea e la mortalità sul luogo di lavoro ha raggiunto tassi preoccupanti. Ma soprattutto sembra che il ruolo dei “mediatori” dell’educazione e del diritto si sia esaurito per essere
rimpiazzato dalla “presa diretta”.

Carlo Denina in un trattato dal titolo “Dell’impiego delle persone” – scritto intorno al 1776 e mai edito poiché confiscato dalla censura sabauda, mentre l’autore venne privato dell’insegnamento sino al suo volontario esilio a Berlino – affermò che «per qualunque verso si consideri la cosa, si comprenderà assai chiaro che tutte le sorgenti di pubblica felicità, agricoltura, arti, commercio, giustizia, munificenza di principi e di grandi, derivano necessariamente da questo principio, cioè dall’attività, e dall’industria, che sono lo spirito vitale che mantiene in forza ed in vigore tutte le parti della umana società».1

Il principio ergonomico della “pubblica felicità” ha avuto molti altri alfieri, nell’Ottocento, e in certo modo si è realizzato con l’utopia di Massimo Olivetti, presidente della Olivetti per breve tempo dopo la seconda guerra mondiale, consegnata al suo volumetto “Per viver meglio. Proposta per un sistema economico-sociale”,2 che prevedeva una “leva del lavoro” (in sostituzione di quella militare) per provvedere gratuitamente ai bisogni primari della società (infrastrutture – nell’Italia da ricostruire – case, derrate alimentari) in cambio di un prolungamento, altrettanto gratuito per tutti, dell’istruzione superiore sino alla laurea.

L’utopia di Denina, radicale quanto quella della Rivoluzione francese, esigeva il lavoro per il benessere collettivo da parte di tutti: nobili e clero compresi, il che valse censura e condanna all’auto-re. Il progetto di Olivetti, ispirato al saggio di Ernesto Rossi, “Abolire la miseria”,3 venne interrotto dalla morte prematura e proseguito in altro modo dal fratello Adriano. Ma il clima, la tensione morale, rimasero, sì da dar luogo all’articolo 1 della Costituzione italiana: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Tra i «Principi generali per disporre a convenienti impieghi ogni ordine di persone» (capitolo II) Denina individuava innanzitutto l’educazione: è compito del legislatore «ordinare le pubbliche scuole, che sono lo strumento e l’organo della pubblica educazione». Lavoro ed educazione sarebbero costituenti principali della pubblica felicità: la promozione sociale attraverso il merito, il lavoro, il contributo al benessere collettivo; principi semplici che hanno retto – dal Settecento al Novecento – ogni idea di progresso.

Come in Italia si sia giunti al collasso attuale, con un sistema scolastico tra i più scadenti d’Europa – dicono statistiche ed esperienza – e con una mortalità sul lavoro tra le più gravi nei paesi dell’Unione europea, è analisi che merita più meditati interventi. Ci si limiterà qui a sottolineare qualche tratto della storia recente: ha scritto Dag Hammarskjöld (segretario generale delle Nazioni Unite per due mandati, morto nel 1961 in Congo in circostanze mai chiarite, premio Nobel per la pace) che «merita il potere solo chi lo giustifica ogni giorno»; parallelamente si potrebbe dire che «mantiene il progresso – e la giustizia – solo chi li incrementa ogni giorno». Alla fine degli anni Ottanta è sembrato in Italia che il progresso fosse al culmine e che dal bene collettivo si potesse defluire a quello privato: la «politica dei soggetti», inaugurata da sinistra e non da destra, condita da amabili «Arcigola » (così lontane dai termini berlingueriani di «austerità » del 1977) anziché da «Arcistudio», ha contribuito a una frantumazione degli obiettivi di cui si pagano le conseguenze finali.

Scriveva ancora Hammarskjöld che «non c’è bene, se non condiviso». Ora questo «bene, di sé diffusivo», secondo l’adagio medievale, non s’apprende se non a scuola; mentre oggi il ruolo degli insegnanti – come degli altri “mediatori” di coscienza e di saperi: dai genitori ai medici – è affievolito e screditato. Eppure si cresce per gradi, periniziazioni, dal latte materno all’arrosto, dall’alfabetiere alla composizione scritta, dal muoversi a gattoni al salto in alto. Tutti questi gradi – ognuno con il suo maestro-interprete – sembrano ora cedere alla “presa diretta”, alla “visione diretta”, all’“esperienza diretta”; reality show, blog di ogni sorta (con inserto di pareri richiesti ai videoconsumatori ad evento ancor caldo) lo confermano e lo aggravano. E l’assenza di mediatori ha esaltato il ruolo degli imbonitori: la vita politica ne è imbibita e umiliata.

Anche la violenza, che dilaga nelle scuole e nella società, è l’esito di una “presa diretta” che ha eliminato la mediazione dell’educazione e del diritto (nonché del ritegno, che “trattiene” anche a fronte di un proprio buon motivo di reagire): calci che spappolano la milza, spinte che buttano sotto le ruote di un bus in corsa, sono i segni più dolorosi di un intero universo di “autorevolezza” che si è privato di interpreti (si delegano cioè ad altri le proprie ragioni perché le soppesino, le rappresentino e le facciano valere al modo giusto).

La “presa diretta” ha occupato anche la scena politica: in luogo di offrire all’elettore esperti e “risolutori di problemi”, si sono forniti – anche da sinistra, soprattutto da sinistra – “testimoni”; c’è il problema del lavoro, vi esibisco un sopravvissuto ai roghi delle fonderie; c’è il problema del disagio giovanile, recluto schiere di implumi e li porto al Parlamento, per “testimoniare” il problema, non certo per risolverlo. Ben prima degli esiti del voto, il trionfo berlusconiano era già sancito nel metodo, copiato ed esibito dai suoi stessi avversari.

Nessuno ha educato alla “complessità”, attraverso la quale passa oggi ogni via per cercare la “pubblica felicità”. Questa complessità deve ripartire da un nodo che è stato troppo presto sciolto, quello tra benessere (con il suo relativo godimento) e lavoro. Scriveva Antonio Giolitti, il 5 dicembre 1946, rispondendo all’invio, da parte di Massimo Olivetti, del suo progetto di riforma: «Ora, secondo me, lo sforzo va indirizzato in un senso diverso: rendere gioioso ogni lavoro produttivo utile, mettendo ciascuno in condizione di esercitare un lavoro corrispondente alle proprie capacità e attitudini, e non quel lavoro al quale – nella società divisa in classi – lo obbligano le proprie condizioni sociali. Anche l’attività intellettuale “libera”, per soddisfare una esigenza veramente umana (…), deve esse-re lavoro produttivo per gli uomini. Perciò io credo che il problema vada impostato nel senso di emancipare il lavoro dalle strettoie sociali che per tanti uomini ne fanno una pena».4

Non solo «emancipare il lavoro», ma anche la scuola. Scriveva ancora Denina: «In questa maniera coloro che hanno veramente ingegno e disposizione singolare agli studi, e che sono perciò degni di uscire dall’ordine in cui sono nati, si applicheranno maggiormente, e mentre essi medesimi si assicureranno la via di salire a maggiore stato, il pubblico ne trarrà quel vantaggio, che deve aspettarsi da cotesti talenti». Scuola e lavoro: una pubblica felicità fatta di merito, di giustizia sociale, di strumenti condivisi. Siamo tornati indietro di qualche secolo. E i lumi sono scarsi.

[1] Il trattato, sin qui inedito, è in stampa, a cura dell’autore di questo articolo, presso la Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze.

[2] Il pamphlet venne inviato a tutti deputati della Costituente ed edito nel 1947. Si veda ora la riedizione, a cura di chi scrive, con ampio carteggio (Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Umberto Terracini, Giuseppe Saragat, Riccardo Bauer, Enrico Cuccia, Palmiro Togliatti, Antonio Giolitti e molti altri), M. Olivetti, Per viver meglio. Proposta per un sistema economicosociale, Bollati Boringhieri, Torino 1994.

[3] E. Rossi, Abolire la miseria, Casa Editrice La Fiaccola, Milano 1946.

[4] Lettera riprodotta in Olivetti, Per viver meglio cit., pp. 98-99.