Ripensare Milano e il suo governo

Written by Mauro Magatti Thursday, 27 March 2008 14:48 Print

L’origine dei problemi che affliggono Milano è la sua incapacità di pensarsi. Un’incapacità che, mai come oggi, pesa sul futuro del capoluogo lombardo. Tutti sappiamo che la Milano del XX secolo (non solo la metropoli operaia e industriale degli anni Sessanta, ma anche la città spensierata e terziarizzata degli anni Ottanta) non c’è più. Troppi cambiamenti si sono accumulati. Tuttavia, cambiare pelle non è mai facile e l’elaborazione del lutto è sempre sofferta e laboriosa. Non a caso, il periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha rappresentato una fase di sbandamento, dov’è parso che Milano fosse sul punto di perdere se stessa.

Eppure, al di là delle numerose e interminabili recriminazioni circa i ritardi della città e l’inadeguatezza della sua classe dirigente, Milano ha continuato a trasformarsi, per lo più in modo sotterraneo, cercando nuove vie per il proprio sviluppo. Ma per far sì che lo sforzo prodotto negli ultimi quindici anni non vada perduto di fronte alle nuove difficoltà, è necessario elaborare una nuova narrazione di Milano in grado di interpretare quanto è accaduto e di orientare così le decisioni degli attori. Per cominciare a far questo occorre partire da tre osservazioni. Milano è una global city! Se guardiamo a molti degli indicatori economico- sociali (numero di abitanti, ricchezza pro capite, livelli di produttività, grado di influenza politica) il rango di Milano non è quello di città globale.

Ciononostante, un’autorevole ricerca internazionale condotta sulle principali centocinquanta città globali ci dice che, pur con una certa distanza da Londra e New York – le due capitali dell’attuale ordine storico – Milano fa parte, insieme a Parigi, Hong Kong, Tokyo, Singapore, Francoforte, Los Angeles e Chicago, del nucleo centrale del sistema di comando del capitalismo contemporaneo. Insomma, Milano è uno dei primi dieci nodi a livello mondiale.1

Il dato è parziale. E tuttavia, l’aspetto colto dalla ricerca è particolarmente importante, in quanto permette di avere un’idea del grado di partecipazione ai flussi globali in base ai servizi tipici dell’economia contemporanea (centri direzionali, studi legali, attività di consulenza, servizi pubblicitari, media). Rispetto a questa particolare classifica, Milano è uno dei nodi più importanti. Ulteriori approfondimenti qualificano questa affermazione.

In primo luogo, le interconnessioni di Milano non sono concentrate su un’area geografica particolare, ma sono il risultato della sovrapposizione tra tre grandi proiezioni geoeconomiche: la prima proiezione è l’Europa a quindici, di cui Milano costituisce il vertice meridionale del quadrilatero centrale dell’asse economico (insieme a Londra, Parigi e Francoforte); la seconda proiezione è quella che si sviluppa lungo il corridoio Est-Ovest, che parte da Barcellona, passa per Torino, Trieste, i Balcani e arriva fino a Praga e Mosca; la terza proiezione è l’area del Mediterraneo, di cui Milano è il vertice settentrionale. A ciò si aggiunga che Milano è l’unica città italiana che detiene relazioni significative, dal punto di vista economico e finanziario, con le principali piazze mondiali (come New York, Tokyo, Pechino).

In secondo luogo, ciò che distingue Milano non è tanto l’alta concentrazione di potere capitalistico globale, quanto l’elevato grado di connettività, parametro associato a una debole specializzazione. E così si scopre che la polisettorialialità tipica dell’economia milanese – diversificata, relativamente despecializzata, molto terziarizzata, ma saldamente ancorata al settore manifatturiero, con la presenza di alcuni settori strategici come, ad esempio, le telecomunicazioni o il design – rende Milano quella che oggi è, e cioè un nodo della rete globale. Tale apparente indistinzione è un punto di forza, che contribuisce a spiegare perché l’eco- nomia ambrosiana è così robusta: per essere un nodo globale occorre disporre di un sistema complesso e diversificato che, oltre ad attrarre una pluralità di flussi e risorse, protegga altresì da un’eccessiva esposizione a crisi settoriali. La solidità dell’economia milanese deriva dal fatto che la polisettorialità è associata all’elevata qualità. Ciò permette di parlare di «policentrismo reticolare», termine che indica la compresenza di una pluralità di poli economici e istituzionali relativamente autonomi, in grado di trarre vantaggio dalla disponibilità di risorse locali di prossimità e di varietà.

In sostanza, si può dire che Milano non è più la locomotiva – tipica immagine della vecchia modernità – dell’economia italiana, ma la principale porta di accesso e di collegamento con l’economia globale, il luogo dove si localizza una quota molto elevata delle funzioni di comando del capitalismo radicato nelle varie regioni del paese, il punto di connessione tra il sistema delle imprese italiane e il mondo intero. Milano è il mercato attraverso cui passano non solo le merci e le persone, ma anche la conoscenza e l’informazione; è il luogo dove si concentra la capacità innovativa del paese e dove sono accessibili i servizi necessari per entrare nei circuiti globali; è lo spazio nel quale si concentrano alcune funzioniguida della produzione economica contemporanea e gli headquarters dei gruppi di impresa nazionali e delle società estere operanti in Italia. È in rapporto a queste tre funzioni – interscambio, servizi avanzati, innovazione – che Milano può oggi essere qualificata come gateway che lega alcuni spazi ad altri.

Milano è costellazione urbana La seconda osservazione riguarda la forma urbana di questa realtà. Quando oggi si parla di Milano non ci si può più riferire solo al territorio comunale o provinciale. Milano è una città di città.

Scegliendo una via diversa dalla megalopoli, Milano si presenta, infatti, con una struttura urbana spazialmente distribuita, caratterizzata da una ricca articolazione interna dal punto di vista abitativo, amministrativo, economico e funzionale.

Il denso sistema di interdipendenze, scambi e soggettività funzionali che convivono all’interno del nodo forma una costellazione che non ha più senso non pensare in modo integrato. Si potrebbe dire così: la fabbrica del distretto industriale diventa qui qualcosa di più complesso, nel senso che il capitalismo molecolare della macroregione del Nord Italia costituisce un esempio di intelligenza collettiva che consuma lo spazio e le relazioni interne per sostenere la propria crescita. Non si può più capire cosa sia oggi Milano se non pensandola come il nucleo di una costellazione funzionalmente integrata e densamente popolata, punteggiata di città e comuni dotati di un’ampia autonomia amministrativa e radicati in profondi sentimenti di appartenenza locale. Ciò dà luogo a una forma urbana originale, con i tratti tipici di una city-region.

Dunque, non basta dire che Milano è città infinita, con confini sfumati. Questa espressione rischia di essere fuorviante nella misura in cui impedisce di cogliere la specificità dell’area milanese, tutt’altro che caotica o indistinta. Sfuggendo alla pigrizia mentale dell’immagine evocativa, occorre insistere sul fatto che l’elemento qualificante di quest’area è la sua capacità di stare dentro i flussi globali pur conservando una spiccata capacità di organizzare e conservare i propri luoghi. È dall’intreccio tra questi due elementi distinti che prende forma una trama fitta e originale di scambi e interconnessioni tra persone, comunità, imprese e tecnologie. Purtroppo, la straordinaria complessità della forma urbana di Milano è un dato che fatica a essere acquisito nella discussione pubblica, ancora troppo vincolata al tema dei confini di Milano e delle altre amministrazioni locali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il sistema di governo riflette divisioni arcaiche, ma non esiste nessuno in grado di intervenire in modo adeguato sui problemi reali di quest’area. Basti pensare al tema della dotazione infrastrutturale, che rischia di far morire per soffocamento e disorganizzazione interna interi pezzi dell’economia milanese. Se, come è ovvio, non tutto quello di cui Milano, ha bisogno, in quanto nodo globale, può stare, non solo dentro la cerchia dei Navigli, ma nemmeno dentro i confini comunali, allora è necessario creare le condizioni affinché sia possibile «pensare» e «agire» Milano su scale spaziali e funzionali più adeguate ai tempi in cui viviamo.

Milano soffre di un modello di integrazione sociale statica La terza osservazione ha a che fare con il modello di integrazione sociale.

Indubbiamente anche a Milano è possibile riconoscere i segnali di una progressiva verticalizzazione sociale: da un lato cresce il segmento della manodopera ad alta qualificazione e aumenta la concentrazione della ricchezza; dall’altro si diffondono povertà e lavoro precario, mentre problemi nascono dall’integrazione degli immigrati. Tuttavia, la situazione sociale di Milano non è paragonabile a quella delle altre global cities. Dal punto di vista del mercato del lavoro i riscontri non sono drammatici: è vero che il tasso di attività rimane troppo basso, ma la disoccupazione rimane contenuta e la gran parte della forza lavoro continua ad avere un’occupazione stabile. Inoltre, la sua forma urbana – con realtà insediative che conservano una propria coesione interna – ha finora permes- so di coniugare una diffusa mobilitazione con un buoni livelli di integrazione sociale. Risultato reso possibile anche da fattori culturali, quali il radicamento del cattolicesimo, il ruolo della solidarietà operaia, la stabilità della famiglia, l’imprenditorialità diffusa, senza dimenticare la buona qualità del sistema di protezione pubblica. Nel complesso, nonostante i tanti problemi e le avvisaglie di tensioni sempre più forti, l’area milanese continua, ad oggi, a vantare un buon livello di integrazione sociale, vero e proprio patrimonio da salvaguardare e riprodurre. Il problema è che tale modello è troppo statico e genera una serie di effetti imprevisti. Il primo è il rallentamento demografico, che minaccia ormai seriamente lo sviluppo dell’intero nodo: la famiglia funziona da semplice ammortizzatore sociale implicito, sul quale si scarica tutta una serie di problemi che non si vogliono o non si sanno affrontare. Ma ciò si traduce in un blocco generazionale che ha due gravi conseguenze: la sempre maggiore fatica da parte della famiglia a riprodursi e l’evidente difficoltà nel realizzare il fisiologico ricambio generazionale nel mondo dell’economia, della ricerca, della cultura, delle istituzioni. Solo una coraggiosa politica del luogo può invertire questa tendenza: la questione della casa, la gestione collettiva della flessibilità e della mobilità, un’attenta politica sociale, l’attrazione di giovani dall’Italia e dal mondo sono temi importanti che meriterebbero di essere approfonditi. Non si può rimanere una realtà dinamica, in grado di sostenere la competizione globale, se, oltre alla connessione con le reti, non si garantisce la riproduzione delle persone e dei gruppi che la abitano.

Il secondo effetto deriva dalla modificazione del panorama umano della città, dovuta all’arrivo degli immigrati stranieri. Nonostante disponga di cospicui gruppi professionali cosmopoliti, Milano ha alle spalle una tradizione che ha fatto della coesione e dell’omogeneità il suo tratto distintivo. Ancora oggi, la cultura locale rimane molto integrata e forse anche un po’ chiusa, il grado di eterogeneità della popolazione troppo basso, la mobilità delle persone, sia in entrata che in uscita, ina- deguato. Nonostante la sua elevata connettività funzionale ed economica, Milano fatica a interiorizzare l’idea che la contaminazione – non la distruzione – della cultura locale è essenziale per aprirsi verso l’ambiente esterno e per rendere più agevole l’arrivo e l’affermazione di nuovi gruppi sociali. Se infatti si può ben dire che disporre di una cultura e di una società integrata costituisca un vantaggio competitivo, al tempo stesso si deve osservare che non si può essere nodo globale se ci si chiude in una cultura localistica e, come tale, inevitabilmente provinciale. Per rimanere agganciati alla rete globale non è sufficiente saper trattare informazioni complesse e altamente formalizzate; occorre anche essere capaci di gestire il pluralismo culturale e di creare un ambiente aperto e disponibile alla diversità. Occorre, insomma, interrogarsi sull’ambiente sociale, culturale, giungo a dire spirituale, che si vuole costruire. Realisticamente, non ci si può candidare a svolgere un ruolo di volano economico per aree importanti come il Mediterraneo e l’Est europeo senza disporre di una cultura locale aperta, curiosa e disposta allo scambio e al dialogo.

Il problema è che il modello di integrazione statica che caratterizza Milano rischia di entrare in cortocircuito con la sua natura di nodo globale. L’invecchiamento della popolazione e la chiusura localistica sono due problemi seri, che in qualche modo mettono in evidenza le difficoltà che la società milanese incontra nell’affrontare questo tempo nel modo giusto: non disponendo di una comprensione adeguata di sé, Milano rischia di non capire cosa deve fare e di rimanere vittima di interessi economici e sociali di stampo localistico, che pensano a proteggersi invece che a guardare avanti.

Ecco perché è improcrastinabile un impegno volto a sciogliere alcuni nodi che sembrano impedire di fluidificare lo spazio dei luoghi milanesi. Non si tratta di distruggere il modello integrativo di Milano – il che sarebbe un grave errore – bensì di rivederlo, accrescendo il grado di apertura della società milanese in termini non solo funzionali, ma anche generazionali, sociali e culturali.

Città modello o città senza qualità? Qualunque configurazione sociale è soggetta all’ambivalenza, e Milano non sfugge a questa legge. Al di là dei suoi punti di forza, non è difficile individuarne gli aspetti nega- tivi: poiché il capitalismo è anche un sistema di potere, Milano e i suoi interessi rischiano di essere inadeguati. La sua capacità di influenza rimane debole (non si dimentichi che Milano non è una capitale nazionale), le élite sono troppo periferiche e troppo poco coese per pensare di poter tenere testa ai centri di potere globale, la polisettorialità e l’alta concentrazione di piccole e medie imprese esasperano la sensazione di frammentazione, mentre il pluralismo amministrativo rende difficoltoso ogni tentativo di governo. Infine, Milano rischia di essere frenata dal suo modello statico di integrazione sociale, che ne blocca lo sviluppo e la consegna nelle mani degli interessi localistici. In sintesi, Milano è un nodo ad alta complessità interna, dotato di elevata vitalità e spiccata identità, ma dalla debole soggettività.

Di recente Milano è stata protagonista della nascita di nuove eccellenze, almeno in campo bancario, ma, al di là dell’importanza di tali operazioni, è difficile pensare che sia possibile alterare la natura profonda della città. E, aggiungo, forse non bisogna nemmeno augurarselo.

Per sopravvivere, Milano, più che imitare le altre grandi città, più che concentrare il potere, deve sforzarsi di riscoprire se stessa, la sua natura profonda. Il che significa capire come rafforzare questa «specificità aspecifica », questa identità a debole soggettività, questa mobilitazione senza oligarchie, cercando di valorizzare i risvolti positivi della natura di questo nodo – l’interconnesione, l’apertura, la frontiera – e di contenere quelli negativi – terra frammentata, attraversata, usata, scelta dagli altri non in quanto tale ma perché in questa terra di mezzo bisogna pur esserci. Ciò significa ripensare il suo essere Mediolanum, tornare a fare i conti con quella «mediolanità» che da sempre l’ha caratterizzata e che può ancora fornire il codice generativo di un modo di essere e di crescere. Il rischio, ovviamente, è quello di diventare mera terra di mezzo, priva di un qualunque volto, una «città senza qualità», soffocata dalle richieste degli stranieri che la impiegano, degli operatori economici del Nord Italia che la utilizzano, dei consumatori che la affollano e dei turisti che la attraversano, senza che nulla lasci traccia. La domanda quindi è: come ricostruire un equilibrio tra l’essere terra di mezzo – cioè essere tramite – e l’essere per sé? Tra l’essere nodo- mondo ed essere glocale? Come evitare il rischio che la terra di mezzo diventi terra di nessuno, vittima di una divaricazione troppo grande tra la forza di attrazione della realtà esterna e quella del nodo? Non preoccuparsi di ricomporre tale contraddizione conduce verso due possibili sbocchi, entrambi negativi: il primo è conseguenza di un’interpretazione riduttiva della «mediolanità», in chiave quasi darwiniana, come mero adattamento ecologico. Ma un nodo così complesso, privo di un’azione di ricomposizione e di coesione, finirebbe per limitarsi a subire la dinamica esterna, fino a svuotarsi e a disgregarsi. Il secondo sbocco è l’esito di un adattamento regressivo, con il prevalere di interessi conservatori, di natura locale, e con la progressiva perdita di contatto con la rete globale.

In realtà, una soggettività leggera e sfuggente ha costituito – e continua a costituire – il vero punto di forza di quest’area. In fondo, proprio il policentrismo reticolare di Milano, la sua cronica dispersione, la debolezza delle sue gerarchie politiche sono tutti aspetti che hanno – almeno in parte, inaspettatamente – salvato la città lombarda dal declino. Oggi comprendiamo meglio il perché: un sistema quanto più è complesso tanto più è capace di adattarsi all’ambiente circostante. Un eccesso di identità o di soggettività può addirittura essere fonte di problemi, quando provoca delle rigidità che impediscono il mutamento. Ma ciò evidentemente non significa eludere la questione del governo.

Governare per processi Nonostante il parziale recupero di efficienza amministrativa, Milano continua a soffrire di un deficit di governo. Tutti lo dicono, ma nessuno sa cosa fare. Come spesso accade in questi casi, l’attesa può facilmente slittare verso un demiurgo: qualcuno che finalmente sia capace di rompere l’incantesimo.

Una tale aspettativa può essere giusta nella misura in cui esprima il desiderio di un modo nuovo di interpretare il nesso tra politica e società; ma è sbagliata se crea l’illusione che le risposte alle difficoltà di oggi arriveranno domani grazie all’intervento di qualcun altro. Sbagliata soprattutto se alimenta il tentativo di ricostruire una città a cuspide, rigidamente gerarchizzata. L’assenza di una politica centrica è da sempre una forza di Milano: sarebbe un errore negarla adesso.

Partendo dalla consapevolezza del potenziale umano, sociale, tecnologico, economico di cui Milano dispone, si tratta piuttosto di contribuire a creare le condizioni più adatte per permettere di liberarne le energie. Per continuare a crescere, Milano deve, cioè, essere più convinta che il suo futuro dipende essenzialmente dall’esistenza di condizioni adatte all’evoluzione della diversità, rinunciando ai tentativi di costruire un centro rigido e definito e accettando la fatica immane che comporta una logica di sviluppo basata sulla mobilitazione diffusa. Il che significa, tra l’altro, far sì che Milano, nel solco della sua tradizione, continui a essere un luogo attraente per tutti coloro che cercano un ambiente dove investire su se stessi.

In questa prospettiva, il problema di Milano non è quello di ridurre la complessità interna al nodo, semplificando i problemi e riducendo i centri decisionali, bensì quello di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono l’autogestione delle risorse interne, contenendo altresì l’effetto di frammentazione che essi inevitabilmente concorrono a determinare. Ciò introduce la riflessione su cosa voglia dire governare una realtà di questo genere.

Nella prospettiva che si è cercato di sviluppare, l’elenco delle priorità non è difficile da stabilire: promuovere la segmentazione funzionale del nodo mediante alcuni grandi investimenti e scelte; favorire la circolazio- ne delle élite, il ricambio generazionale e il meticciato culturale; ricomporre le esigenze funzionali con la cura del luogo e delle popolazioni che la abitano; curare il posizionamento geopolitico di Milano, costruendo alcune alleanze strategiche. Ma al di là di qualunque elenco di cose da fare, la vera questione, più che nel cosa, sta nel come farlo.

Noi oggi sappiamo che i sistemi complessi – quale è Milano – generano proprietà emergenti che emanano dalla ricchezza e dall’intensità degli scambi interni e con l’ambiente circostante. Trattandosi di un campo di forze, il successo di Milano non dipende tanto dall’ordine della sua struttura interna, quanto dalla capacità di lasciarsi trasformare e di modificare di continuo i confini e i rapporti interni ed esterni. In tale prospettiva, il governo di un nodo non consiste nella capacità di comando, che è un riduttore di complessità, ma, proprio per questo, è sempre, almeno in parte, inadeguato. Ciò avviene perché gli obiettivi da perseguire sono troppi, troppo instabili nel tempo e non tutti sotto il controllo di chi occupa posizioni formali di potere. Più che intervenire direttamente, più che creare nuove strutture, il governo consiste nel riuscire a strutturare processi di coordinamento e decisione e nel creare le condizioni più idonee all’auto riproduzione del nodo, combattendo le spinte alla monopolizzazione delle posizioni, alla chiusura localistica, al blocco della cooperazione. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di strutturare il sistema processuale di governo, più che mediante decisioni unilaterali dall’alto, attraverso la stabilizzazione consensuale di pratiche e procedure cooperative. Questo perché la funzione di governo di un nodo globale dipende dalla capacità di una pluralità di attori istituzionali e sociali di arrivare a prendere decisioni di interesse comune e di portarle rapidamente a compimento.

Parlare di governo per processi significa essenzialmente capire che una realtà complessa come Milano mantiene oggi la sua coerenza in rapporto alla sua capacità di essere riflessiva, cioè alla sua capacità di pensare se stessa. La riflessività si misura in base alla qualità e all’efficacia dei canali di comunicazione e di scambio tra la pluralità degli attori sociali, rispetto alla molteplicità di piani spaziali e funzionali che sono in gioco. Solo quando le informazioni strategiche circolano e sono condivise, e solo quando vengono posti incentivi che premiano la cooperazione, si può sperare di ottenere forme flessibili di coordinamento tra una pluralità di attori pubblici e privati.

Il governo di una realtà come quella milanese richiede allora la capacità di costruire e continuamente aggiornare una visione condivisa – non statica o, peggio, plebiscitaria – della propria identità, del proprio futuro e degli obiettivi comuni che debbono essere perseguiti. Per non cadere in discorsi astratti o fumosi ed evitare la moltiplicazione di inutili tavole di confronto, ciò significa prima di tutto lavorare per progetti.

Occorre però chiarire cosa si intende con tale espressione, poiché la «città a progetto» non è la risultante di una miriade di decisioni e iniziative particolari, che hanno come unico esito quello di aggravare la frammentazione del tessuto urbano, oltre alla perdita della sua identità. Il progetto è piuttosto la capacità di suscitare la cooperazione fra gli attori (sociali e istituzionali) e la convergenza dei loro interessi. Il che richiede la capacità non solo di gerarchizzare gli infiniti obiettivi funzionali che è possibile immaginare, ma anche di fornire riferimenti simbolici e culturali che permettano alla pluralità dei soggetti e degli interessi di disporre di un qualche orientamento comune.

Il progetto, peraltro, non è un piano, perché non ha l’ambizione di essere onnicomprensivo o di includere tutto ciò che dovrà accadere. Esso è piuttosto un orientamento provvisorio e parziale, ma anche concreto e riconoscibile, e comunque in grado di generare riferimenti simbolici comuni, all’interno e all’esterno. Cioè, di creare un provvisorio discorso di reciproco riconoscimento.

Solo se si assume la logica del progetto – che si struttura in base alle relazioni che stabilisce, alle funzioni che ospita e alle interdipendenze che attiva – si capisce che il governo per processi non dipende tanto dalla determinazione di un nuovo spazio istituzionale (la nuova area metropolitana), quanto dalla capacità di generare comunicativamente un’idea di chi vive e opera nella e attraverso la città, di mantenere attive le connessioni interne e di arricchire quelle esterne. Per questo il governo per processi, attuato attraverso il progetto, richiede capacità di innovazione istituzionale e, al di là della buona volontà di tutti, una guida politica autorevole e capace, che costruisca concretamente, un passo dopo l’altro, le condizioni che lo rendono possibile. Ciò significa anche capire che, oltre alla tecnica, occorre lo spirito, che solo può generare un ambiente adatto all’intesa e alla cooperazione.

È capace Milano di andare in questa direzione, di declinare questa nuova logica?

Se si guarda la realtà dei fatti, non sembra possibile farsi molte illusioni. Ma forse, per sbloccare la situazione occorre meno di quanto si possa pensare: basterebbe, forse, guardare in faccia la realtà, uscire dai palazzi e tornare finalmente ad ascoltare il cuore pulsante di questa città.

[1] P. J. Taylor, World City Network. A Global Urban Analysis, Routledge, New York 2003.