La terza età: luci e ombre

Written by Enrico Pugliese Tuesday, 28 May 2013 16:19 Print

La riduzione della mortalità (invecchiamento dall’alto) e la riduzione della natalità (invecchiamento dal basso) hanno fatto dell’Italia uno dei paesi al mondo in cui la portata dell’invecchiamento è più forte. L’allungamento delle aspettative di vita e il conseguente aumento del numero degli anziani non costituiscono di per sé un fattore negativo, ma sono associati nel nostro paese a una riduzione delle classi di età più giovani e sollevano problemi quali l’età di uscita dall’occupazione e il pensionamento, il welfare e l’erogazione di servizi fondamentali. Questioni che si inseriscono in una situazione in cui il peso della spesa pensionistica diventa per lo Stato sempre più gravoso.

I PARADOSSI DELL’INVECCHIAMENTO IN ITALIA

In Italia la portata dell’invecchiamento della popolazione non solo è più forte che in ogni altro paese d’Europa, ma è seconda solo a quella del Giappone. Il fenomeno riguarda tutte le regioni del paese, con connotazioni in parte comuni e in parte specifiche in quanto riflesso delle particolarità del contesto locale.

Nel nostro paese si registra, inoltre, un intreccio particolarmente complesso tra questioni di natura demografica e questioni relative al mercato del lavoro. All’elevato tasso di invecchiamento della popolazione corrisponde, infatti, una presenza dei lavoratori anziani nella popolazione attiva modesta e comunque molto più bassa che negli altri paesi europei: il tasso di occupazione dei lavoratori anziani (età compresa tra i 55 e i 65 anni) in Italia è di circa il 37%, mentre il valore medio per i paesi europei è del 47% e anche in Giappone esso è molto più alto. Questa contraddizione è andata consolidandosi nel corso del tempo ed è stata l’effetto di processi sociali, di scelte di politica economica e di politiche di welfare, nonché dell’affermarsi di modelli culturali nuovi (ma anche di persistenze culturali) che rendono difficili inversioni di tendenza.

I progressi della medicina e, soprattutto, il miglioramento delle condizioni socioeconomiche hanno abbattuto le cause di morte precoce in Italia, contribuendo all’invecchiamento – anche in buona salute – della popolazione (“invecchiamento dall’alto”, secondo la dizione dei demografi ). Ma si tratta anche della riduzione della natalità legata ai fattori di precarietà e di incertezza che ritardano l’età di matrimonio e di procreazione (“invecchiamento dal basso”). In Italia entrambi i processi sono attivi. Gli anziani aumentano di numero grazie all’allungamento delle aspettative di vita. E ciò non rappresenterebbe un problema, se al loro aumento non corrispondesse la riduzione delle classi di età infantili e giovanili. In altri termini, il problema – se di problema si tratta – non è quello del gran numero di anziani, ma della loro grande e crescente incidenza. Solo un’attenzione all’intreccio tra fattori economici, fattori sociali e fattori demografi ci permette di superare generalizzazioni semplicistiche e comprendere la complessità della questione dell’invecchiamento. Miti, ideologie e credenze hanno sempre influenzato la concezione della vecchiaia. Così, ad esempio, nella società industriale del Novecento era prevalsa una certa svalutazione della vecchiaia legata a una (vera o presunta) minore capacità produttiva degli anziani. La letteratura sociologica del secondo dopoguerra aveva, infatti, prodotto una immagine della vecchiaia come situazione di rolessness (assenza di ruolo): una sorta di limbo dove si vive senza alcuna utilità per sé e per gli altri. Ora, invece, prevale una lettura in base alla quale la vecchiaia è una lunga (e sempre più lunga) fase della vita nella quale si susseguono momenti diversi, vale dire una “terza età”, nella quale non si è più costretti agli obblighi, alle responsabilità e alla fatica del lavoro, mentre si è ancora in buona salute, e una “quarta età”, che è quella in cui i processi di senescenza si fanno più acuti e aumentano i rischi di dipendenza. Ma il passaggio dall’una all’altra fase non è definibile in termini di età anagrafica: esso deriva, in primo luogo, dalle condizioni specifiche degli individui (in particolare dalla pregressa condizione lavorativa) e, in secondo luogo, dalle politiche sociosanitarie, in particolare da quelle di attivazione.

VECCHIAIA, LAVORO E PENSIONAMENTO

C’è una questione ancora più generale che riguarda il concetto stesso di vecchiaia e il significato attribuito a questo termine. Che vuol dire essere anziani e a che età si comincia a esserlo? Nelle analisi demografi che e statistiche attuali l’età di ingresso nella vecchiaia viene fi ssata solitamente a 60 (o 65) anni e questo stesso limite di età compare nella letteratura, nonché nella regolamentazione giuridica e istituzionale, almeno da qualche secolo. E ancora questo stesso era il limite di età anche in epoca romana (due millenni addietro). Ma, se ora il limite è riferito alla capacità lavorativa (e alla sua riduzione), soprattutto per il lavoro manuale, allora si riferiva alla capacità di portare le armi. Questo non significa che l’età di ingresso nella vecchiaia e la realtà della vecchiaia siano determinate solo da aspetti naturali, fisiologici. È, infatti, riconosciuto universalmente dagli studiosi che esiste una “costruzione sociale dell’età”. Ne è prova il fatto che atteggiamenti, comportamenti e stili di vita degli anziani sono cambiati nella nostra società rispetto a cinquant’anni addietro, peraltro con un passaggio repentino quale mai si era registrato prima. I modelli di vita degli anziani – ma anche la loro percezione di sé – tendono per molti versi ad aderire a quelli che erano (e sono) propri dell’età adulta. Insomma, un uomo o una donna di 65 anni si vestono, hanno una vita di relazione e hanno abitudini ben diverse da quelle dei loro genitori alla stessa età.

Una questione importante – che presenta anche aspetti contraddittori rispetto alle tendenze appena indicate – è la fuoriuscita precoce dal lavoro di molte persone ancora in età lavorativa. La letteratura internazionale sull’argomento sottolinea come la riduzione effettiva della età di uscita dall’occupazione (e, di fatto, dal mercato del lavoro), per via dell’abbassamento dell’età di pensionamento, nei decenni scorsi abbia rappresentato lo sbocco prevalente in tutti i paesi rispetto alle difficoltà del mercato del lavoro con accordi tra imprenditori e rappresentanti dei lavoratori, che hanno finito per scaricare sul sistema pensionistico le difficoltà della situazione. E questo è vero anche per il nostro paese, dove si registrano seri problemi per gli “anziani più giovani”, con rischi di spreco di capitale umano e peggioramento delle loro condizioni economiche. Su questo già in passato delle preoccupazioni erano state espresse da studiosi della materia, in particolare in Francia da Anne Marie Guillemard, che aveva parlato per l’Europa (per l’allora Europa a 15) di una “cultura del prepensionamento”. I fatti dello scorso anno e la questione ancora aperta degli “esodati” mostrano la rilevanza anche per il nostro paese di questa tematica. È, comunque, da sottolineare che nella analisi della Guillemard si mette in luce il concorso dei sindacati, ma anche quello delle imprese a questo esito.

 

ANZIANI, FAMIGLIE E “BADANTI”

Naturalmente la rilevanza del tema dell’invecchiamento in Italia non si limita alla semplice questione dell’occupazione. Dal punto di vista della vita degli anziani, l’aspetto lavorativo è certamente fondamentale, ma le sfere di vita da prendere in considerazione sono molteplici e riguardano, oltre che il lavoro, anche le relazioni familiari, la collocazione nelle reti di solidarietà, i servizi, le attività culturali, l’intensità e la qualità della vita di relazione.

I cambiamenti nella famiglia avvenuti nel corso degli ultimi decenni in Italia hanno avuto un impatto significativo sulla condizione degli anziani. L’aumento del numero delle famiglie registrato nei due ultimi periodi intercensuari, a fronte di una scarsa modificazione dell’entità della popolazione totale, si è tradotto in una riduzione della dimensione media delle famiglie e in un aumento del numero delle famiglie unipersonali. E l’aumento più impressionante si è registrato proprio tra le famiglie di soli anziani e, soprattutto, di anziani soli. Ciò – detto per inciso – ha portato anche a una modifica dei processi di socializzazione dei bambini, con l’allontanamento della figura dei nonni, ormai raramente coabitanti, e con un aumento della solitudine degli anziani. Il fatto poi, ormai sempre più oggetto di attenzione da parte della grande stampa, che i nonni, e soprattutto le nonne, nella loro terza età debbano essere attivi nella cura dei nipoti, custodendoli e portandoli da un luogo all’altro (casa propria, case dei genitori, scuola o asilo, palestre ecc.), non cambia il quadro.

Le convivenze multigenerazionali si sono ridotte e gli anziani vivono sempre più da soli. Le trasformazioni della famiglia, con i processi di emancipazione femminile e il crescente impegno delle donne nel mercato del lavoro, hanno reso in Italia non più praticabili gli equilibri tradizionali per cui il lavoro di cura degli anziani si fondava sul lavoro non retribuito delle donne di casa. Ma questi cambiamenti non hanno scalfito, se non in misura irrilevante, i valori e la ideologia familista: il ruolo della famiglia rimane centrale, solo che si sposta dalla fornitura del lavoro di cura alla organizzazione e gestione di esso. Emerge così una soluzione – tutta italiana o, più precisamente, propria delle società dell’Europa meridionale – che è quella dell’affidamento degli anziani in casa a una figura nuova: quella dell’assistente domestica, la “badante”. Si tratta di un equilibrio che ormai riguarda una percentuale significativa delle famiglie italiane. Le cifre in genere fornite sono scarsamente attendibili, ma si può ragionevolmente supporre che si tratti di almeno un milione di casi. Rispetto al welfare mix si può dire che nel caso della cura degli anziani tutti e tre gli agenti del welfare (Stato, mercato e famiglia) entrano in campo. In primo luogo, la famiglia, che gestisce il processo ricorrendo, con l’assunzione della badante, al mercato internazionale della forza lavoro. Ma questo è possibile grazie al ruolo dello Stato, che – sulla base dei meccanismi di funzionamento tipici del sistema di welfare italiano – versa significativi trasferimenti monetari sotto forma di pensioni varie e assegno di accompagnamento. Tutto ciò si inquadra pienamente all’interno di quello che è stato definito “modello di welfare mediterraneo”, un sistema caratterizzato, tra le altre cose, da una prevalenza della spesa pensionistica rispetto a quella destinata ai servizi e da una carenza di questi ultimi. In questo quadro, la situazione degli anziani è peculiare, perché da un lato essi godono – o, comunque, hanno goduto fino a ora – di trattamenti pensionistici relativamente generosi, dall’altro invece soffrono della carenza di servizi: sia di quelli avanzati di assistenza domiciliare che di quelli più tradizionali rappresentati dalle residenze per anziani, case di riposo pubbliche o private. Rispetto agli altri paesi europei, questa è una grave carenza dell’Italia: le residenze per anziani non sono di meno solo rispetto agli altri paesi europei in generale, ma anche rispetto a paesi dell’area mediterranea come, ad esempio, la Spagna.

 

CONCLUSIONI

Lo sviluppo dei sistemi di welfare e, in particolare, degli schemi di pensionamento nel corso del Novecento ha riscattato gli anziani dal rischio di caduta nella indigenza, che aveva caratterizzato la loro situazione nei periodi precedenti. Non che non ci sia più povertà tra gli anziani. Ma la loro condizione non è diversa da quella delle altre componenti demografi che. Anzi, il miglioramento della loro situazione aveva spinto il grande demografo storico di Cambridge Peter Lasslet a una radicale revisione della lettura della situazione degli anziani nei paesi sviluppati dell’Occidente. Egli propone una visone nuova della terza età, sottolineando la ricchezza di opportunità che si presenta oggi a chi, ancora in buona salute e senza un significativo peggioramento delle condizioni di reddito, può sottrarsi alla stanchezza e alla pesantezza del lavoro e utilizzare liberamente il tempo a disposizione. Ma c’è da ricordare che Lasslet introduce questa visione della terza età in un’epoca di grande espansione del sistema di welfare, quando l’entità delle pensioni individuali era in crescita, l’età del pensionamento andava diminuendo e i carichi familiari si riducevano per il precoce ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Ora da questo punto di vista le tendenze sembrano essere di segno opposto e sulle persone della terza età grava spesso il peso dei giovani, oltre che quello delle persone della quarta età. D’altronde, il carico per lo Stato della spesa pensionistica è diventato sempre più gravoso (anche per l’aumento delle aspettative di vita della popolazione anziana). E, in prospettiva, il reddito pensionistico individuale tenderà a ridursi.

Ma il punto principale non è (o non è solo) quello della insostenibilità della spesa. Un problema di grande rilievo è rappresentato dalla vita quotidiana degli anziani, per la solitudine che essi spesso vivono, con la necessità di ricorrere non solo all’assistenza ma anche alla compagnia a pagamento, e soprattutto per la mancanza di attività e di stimoli a causa di una vita di relazione molto ridotta. Da questo punto di vista, a livello internazionale è in corso un dibattito interessante sul tema dell’invecchiamento attivo. Si tratta di un concetto che ha molteplici dimensioni e che implica in primo luogo l’autonomia, cioè non solo la capacità di restare fisicamente autonomi e di vivere senza dover essere accuditi o aiutati per le necessità della vita quotidiana, ma anche la possibilità di restare impegnati nel lavoro (di mercato o volontario) il più a lungo possibile e di essere eventualmente soggetto attivo e non oggetto di cura. La letteratura sul tema è molto vasta, ma la ricaduta pratica è molto modesta: le politiche volte a favorire effettivamente l’invecchiamento attivo sono ancora molto carenti sia in Europa in generale che in Italia in particolare.1

 


[1] Le considerazioni presentate in questo articolo sono sviluppate più ampiamente in E. Pugliese, La terza età, il Mulino, Bologna 2011.