L'occupazione femminile tra cambiamenti recenti e sfide future

Written by Alessandra Casarico e Paola Profeta Friday, 21 March 2008 13:28 Print
Nell’anno europeo dedicato alle pari opportunità si è riacceso il dibattito sull’occupazione femminile e sui forti ritardi dell’Italia rispetto agli obiettivi comunitari e ai risultati già raggiunti da molti degli altri paesi membri grazie all’adozione di politiche attive.In Italia, secondo i dati che si riferiscono al 2006, il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni è pari al 46% (di 14 punti percentuali inferiore all’obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Lisbona) contro il 70,7% degli uomini. Ad eccezione di Grecia e Spagna, tutti glialtri paesi dell’Europa a quindici hanno un tasso di occupazione femminile di oltre il 55%, che supera il 65% nei paesi del Nord Europa.

Il dato medio italiano sul tasso di occupazione femminile nella classe di età 15-64 cela ampie differenze territoriali e generazionali: nel Nord raggiunge il 56%, mentre nel Mezzogiorno si ferma al 31%. Fra le più giovani (25-34 anni) il tasso di occupazione femminile è più elevato ed è pari al 58,8% il che invita ad avere una prospettiva più ottimistica sull’occupazione delle donne in futuro. Tuttavia, il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all’80%, resta significativo e raggiunge il livello massimo nella fascia di età 35-44 anni.

Quali differenze caratterizzano la partecipazione femminile al mercato del lavoro delle giovani di oggi rispetto alla generazione precedente? Quali altri cambiamenti si accompagnano alla maggiore partecipazione femminile? Perché è importante che un maggior numero di donne sia attivo sul mercato del lavoro? Questo contributo si propone di inquadrare i principali fattori di cambiamento e sottolinearne la rilevanza. Verranno individuati gli ostacoli tuttora presenti alla piena valorizzazione della risorsa femminile nel lavoro, i potenziali vantaggi legati ad una loro eliminazione e gli strumenti più appropriati per muoversi in questa direzione.

Il tasso di occupazione femminile in Italia nella classe di età 15-64 anni era nel 1960 pari a circa il 28%, nel 1980 di circa il 33% e nel 2000 di poco inferiore al 40%. Se un incremento c’è stato e l’evoluzione si è rivelata positiva, soprattutto dalla metà degli anni Novanta, i cambiamenti osservati sono decisamente inferiori a quelli sperimentati negli altri paesi europei, che pure sono partiti da tassi di occupazione allineati con quelli italiani degli anni Sessanta. Il caso più eclatante è quello della Norvegia, dove il tasso di occupazione femminile è passato dal 26,1% del 1960 al 73,4% del 2000. All’incremento nell’occupazione femminile si è accompagnata una riduzione nel differenziale occupazionale di genere, che è passato dal 43% del 1977 al 25% del 2006.

Queste trasformazioni fanno pensare ad una «rivoluzione silenziosa ».1 Le donne, da soggetti «passivi» che adattavano le loro scelte lavorative alle necessità temporali e reddituali degli altri membri della famiglia, sono diventate protagoniste. Questo passaggio si fonda in particolare su due cambiamenti nelle loro scelte. In primo luogo, quando investono in istruzione, le donne prevedono una partecipazione al mercato del lavoro non più breve e intermittente, ma di lunga durata. Per poterne sfruttare i benefici, raggiungono livelli di istruzione più elevati e si orientano verso discipline che possono premiare dal punto di vista della carriera. Inoltre, l’età del matrimonio si sposta in avanti, consentendo alle donne di formarsi un’identità legata al lavoro e alla vita professionale più che alla famiglia. Il lavoro non è più unicamente motivato dalle necessità economiche della famiglia, ma si trasforma in carriera, intesa come «luogo» in cui riconoscersi e sviluppare la propria individualità. Anche in Italia questi due cambiamenti sono evidenti. Secondo i dati Eurostat, il 14,3% delle donne tra i 25 e i 29 anni sono laureate, contro il 12,3% degli uomini. Se si guarda all’evoluzione nel tempo delle scelte relative all’istruzione, si può notare come solo il 25% dei laureati nel 1950 era composto da donne, mentre nel 2000 tale percen- tuale superava il 55%. Una recente indagine di Almalaurea mostra che nel 2005 la percentuale di laureate era più elevata rispetto alla composizione per genere della popolazione (60% contro il 49% nella classe di età 15-24 anni); la loro performance, misurata sia in relazione all’età al momento del conseguimento della laurea sia per il punteggio ottenuto agli esami e con il voto di laurea, era migliore di quella maschile. Notiamo che, con l’eccezione della Facoltà di ingegneria, le donne sono ormai presenti in eguale o maggior numero in tutte le altre Facoltà (comprese quelle scientifiche e giuridico - economiche).

Una maggiore istruzione si accompagna a tassi di occupazione più elevati: nel 2005 il 73% delle donne laureate nella classe di età 15-64 anni erano occupate, contro il 60% delle diplomate. L’aumento del livello di istruzione nel tempo contribuisce a spiegare la maggiore occupazione femminile. Non è però solo una questione di numeri: è necessario che le competenze acquisite siano opportunamente allocate, per impiegare al meglio le risorse umane già disponibili e per incentivare la formazione di risorse ulteriori. La presenza di differenziali salariali di genere, la scarsa rappresentanza delle donne in posizioni di prestigio nell’economia e nella politica e la loro maggiore occupazione in attività a tempo determinato segnalano che per le donne gli investimenti in istruzione non danno, sul mercato del lavoro, risultati analoghi a quelli raggiunti dagli uomini. Sui costi economici associati a questi differenziali si tornerà in seguito.

Alla scelta di raggiungere elevati livelli di istruzione si accompagna una revisione e uno spostamento in avanti dei tempi di formazione della famiglia: a metà degli anni Settanta le donne si sposavano mediamente intorno ai 24 anni e gli uomini poco dopo i 28. Dopo trent’anni, e con il passaggio di una generazione, si è saliti a circa 30 anni per le donne e a 33 per gli uomini. Allo spostamento in avanti del matrimonio si associa l’innalzamento dell’età media del parto, che è attualmente pari a circa 31 anni.

Sia le scelte di istruzione sia le decisioni relative alla formazione della famiglia, e i risultati che queste producono in termini di occupazione femminile, hanno implicazioni sui tassi di fecondità.

In tutti i paesi industrializzati, la fase iniziale di crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro si è accompagnata ad un declino della fecondità. Questo segnalava la presenza di un trade-off per le donne tra scelte di lavoro e maternità. Una donna era o lavoratrice o madre. In alcuni paesi, questa tendenza sembra essersi invertita negli ultimi anni: a tassi di occupazione femminile più elevati si associano incrementi nella fecondità. Al trade-off è subentrato un circolo virtuoso di maggiore occupazione e maggiore crescita demografica.

È il caso soprattutto dei paesi scandinavi, che in Europa vantano il primato per i tassi di occupazione femminile e sono caratterizzati da un numero medio di figli per donna ben al di sopra della media. Ma anche la maggior parte degli altri paesi dell’Europa a quindici sembra avviata verso un superamento del trade-off: Francia e Irlanda hanno i più alti tassi di fecondità e tassi di occupazione allineati alla media europea.

E l’Italia? Nel confronto con gli altri paesi, l’Italia occupa l’ultima posizione sia per tasso di occupazione femminile, sia per tasso di fecondità (insieme a Spagna e Grecia). Eppure il numero desiderato di figli per donna (2,19) è ben più alto di quello effettivo (1,33).

Nel tempo, come è avvenuto negli altri paesi, abbiamo sperimentato la correlazione negativa tra occupazione femminile e fecondità. Nel 1970 il tasso di fecondità totale era pari a 2,42 e ha raggiunto il suo livello minimo nel 1995 (1,19). Diversamente però dagli altri paesi, stentiamo a superare il trade-off e ad avviarci sul percorso virtuoso. Gli incrementi recenti nel tasso di fecondità sono infatti molto contenuti.

Dobbiamo a questo punto porci due domande. Perché vogliamo aumentare l’occupazione femminile? Come è possibile farlo? Quali misure si devono adottare per raggiungere questo risultato?

Cominciamo dalla prima domanda. Nel nostro paese la crescita è un obiettivo prioritario. L’Italia è caratterizzata da una crescita contenuta (il tasso di crescita medio annuale del PIL pro capite dal 2000 al 2006 è stato pari all’1,2%). Gli studi economici concordano sui principali fattori che determinano il livello del PIL e la sua crescita. Il numero di ore lavorate e la produttività sono cruciali. Se si guarda al tasso di occupazione, che definisce in larga parte il numero di ore lavorate, due anomalie caratterizzano l’Italia: il basso tasso di occupazione delle donne e degli ultracinquantacinquenni. Questo mancato utilizzo della forza lavoro potenziale determina, secondo i dati OCSE, una perdita di almeno il 10% del PIL italiano, calcolato rispetto a quello statunitense. Poiché gran parte della forza lavoro inutilizzata è costituita da donne, un suo maggiore coinvolgimento sarebbe, per l’Italia, la soluzione più naturale cui pensare per raggiungere l’obiettivo della crescita.

La maggiore occupazione ha un impatto diretto positivo sul PIL. Ma non si tratta unicamente di numeri: effetti più ampi sulla crescita si possono conseguire se si stimola, o quanto meno non si disincentiva, l’investimento in capitale umano e la produttività femminile.

In riferimento all’investimento in capitale umano, è stato già ricordato che, soprattutto nelle generazioni più giovani, le donne hanno livelli di istruzione mediamente non inferiori a quelli degli uomini. Uguali opportunità in ambito educativo sembrano quindi aver dato buoni risultati. L’effetto positivo di un maggior numero di donne istruite sulla crescita passa però attraverso le opportunità che esse ricevono sul mercato del lavoro. Con pari opportunità e riconoscimento del merito diminuirebbero le donne scoraggiate che attualmente abbandonano il lavoro o rinunciano ad impegnarsi per conquistare posizioni di prestigio perché, nonostante siano alla loro portata sulla base delle competenze maturate, sanno che molto difficilmente potranno raggiungerle. Risolvere alla radice questo problema significherebbe ottenere nuove risorse per l’economia.

Veniamo quindi alla seconda domanda. Quali politiche potrebbero promuovere l’occupazione femminile come fattore produttivo che stimoli la crescita economica? Possiamo pensare a tre fronti di intervento: la spesa pubblica, la leva fiscale e le imprese.

La partecipazione femminile al mercato del lavoro dipende strettamente dalla posizione familiare. In particolare, la maternità si accompagna ad una riduzione significativa del tasso di partecipazione e di occupazione femminile. Il tasso di occupazione delle madri con figli di età inferiore ai 6 anni è in Italia il 53%, contro il 78% della Svezia, il 65% della Francia e il 57% di Germania e Regno Unito. L’associazione tra presenza di figli e assenza dal mercato del lavoro è più forte al Sud che al Nord: il tasso di occupazione delle donne tra 35 e 44 anni coniugate o conviventi con figli è al Nord del 25% inferiore a quello di una donna single (68,2% contro 91%), mentre arriva al 50% al Sud (36,5% contro 70,5%). L’ISTAT rileva che in Italia il 18,4% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la nascita del figlio; questa percentuale varia dal 32% per le donne con bassi livelli di istruzione al 7,8% per quelle con alti livelli di istruzione. Eppure il 67% delle madri che lavoravano e il 43% di quelle che non lavoravano, vorrebbe avere un impiego, a indicare che il ruolo marginale che ricoprono sul mercato del lavoro non è unicamente frutto delle loro preferenze – obiezione che spesso viene avanzata quando si discute di aumento nella partecipazione femminile. E qui entra in gioco il ruolo che può svolgere la spesa pubblica. Su questo fronte l’Italia è particolarmente carente. In Danimarca la spesa in servizi all’infanzia è pari al 2,7% del PIL. In Italia la spesa complessiva per le famiglie non arriva all’1% del PIL e l’offerta di servizi soddisfa solo una minima parte della domanda.

Solo il 13,5% dei bambini di 1-2 anni è accudito in asili nido pubblici, mentre il 52,3% è accudito dai nonni quando la madre lavora, a indicare che la rete informale di sostegno è cruciale nel definire le possibilità di partecipazione al mercato del lavoro. Questo sembra particolarmente rilevante al Sud, dove solo il 5,4% dei bambini di 1-2 anni di età frequenta un nido pubblico. Il 28,3% delle madri avrebbe voluto che i bambini lo frequentassero: la carenza di asili è particolarmente sentita nelle regioni del Sud (nel 40% dei casi la motivazione della non frequenza è la mancanza dell’asilo, contro circa il 16% del Nord).

Sotto il profilo fiscale, la tassazione su base individuale con correzione per carichi familiari attraverso un sistema di detrazioni, come avviene in Italia, è la scelta più appropriata per non disincentivare l’offerta di lavoro femminile. Le proposte di adozione di una tassazione basata sul quoziente familiare dovrebbero essere valutate anche alla luce degli effetti (negativi) sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Infatti, quando l’unità impositiva è la famiglia, anziché l’individuo, è il cumulo dei redditi dei soggetti che appartengono al nucleo che, con opportune correzioni, è sottoposto a tassazione progressiva. Questo implica che il secondo percettore, nella maggior parte dei casi la donna, affronta aliquote marginali più elevate rispetto a quelle che le competerebbero se la tassazione fosse personale, con chiari effetti di disincentivo all’offerta di lavoro. L’attuale adozione in Italia di un sistema di tassazione su base individuale non sembra però bastare.

La proposta di tassazione differenziata per genere (riduzione delle imposte sul reddito da lavoro per tutte le donne finanziata da un incremento delle imposte sugli uomini) avanzata recentemente non convince. Il suo impatto sulla partecipazione femminile è positivo, ma ci sono almeno due aspetti non ovvi. Innanzitutto, la sua universalità potrebbe distribuire sull’intero sistema economico-sociale benefici e costi non del tutto giustificati. La reattività dell’offerta di lavoro femminile alla retribuzione netta dipende dalla situazione familiare, essendo più alta quando il carico di lavoro di cura e il reddito del partner sono più elevati. Ci sono chiare indicazioni che la maternità e il tempo di cura dei figli e, dato l’allungamento della speranza di vita, degli anziani, giocano un ruolo cruciale nel definire la partecipazione femminile al mercato del lavoro, la sua durata assoluta, la sua continuità e i differenziali salariali. Perché allora le donne single, che hanno tassi di occupazione simili a quelli maschili – come è stato già ricordato – dovrebbero pagare meno imposte? E viceversa, perché gli uomini single dovrebbero pagare di più, quasi fosse un ritorno alla tassa sul celibato? Un intervento fiscale più appropriato, alla luce di queste considerazioni, potrebbe invece essere l’introduzione di un sussidio per le donne lavoratrici con figli. In questa direzione si inquadra la proposta di introdurre un’imposta negativa che riconosce un credito di imposta ai contribuenti per i quali le detrazioni superano il debito di imposta (incapienti). Attribuire il diritto a ricevere questo credito alle famiglie con figli dove entrambi i genitori lavorano, sull’esempio del Regno Unito, avrebbe un impatto positivo sull’occupazione femminile, senza disincentivare la fecondità.

Inoltre, in un mercato con alti tassi di disoccupazione, un aumento della partecipazione si traduce in maggiore occupazione solo se le imprese assorbono la maggiore offerta. Non è escluso che questo accada, ma tale esito dipende dalle condizioni del mercato del lavoro e dall’elasticità relativa di domanda e offerta, un fattore questo di non facile valutazione. Agire direttamente sull’impresa potrebbe invece portare al medesimo risultato in modo meno incerto. Una riduzione della tassazione sull’impresa, quando assume una donna o quando non ostacola il rientro di una donna nel mercato del lavoro dopo un periodo dedicato alla cura dei cari può avere effetti sull’occupazione femminile. La tassazione più vantaggiosa potrebbe in parte compensare l’impresa per il costo di maternità e indurla a modificare i suoi calcoli di convenienza quando confronta l’opportunità di assumere un uomo o una donna. Un esempio a questo proposito è rappresentato nel nostro paese dagli sgravi sull’IRAP nel Mezzogiorno, che diventano più consistenti quando associati all’assunzione di donne. Per quanto riguarda le imprese, due sono le direttrici su cui operare: scardinare la percezione che il costo della fertilità sia esclusivamente femminile e indurle a rispettare i tempi di conciliazione della vita familiare e professionale. Agire concretamente nella prima direzione significa per esempio introdurre congedi di paternità, sull’esempio dei paesi scandinavi, intesi come un periodo riservato al padre, pienamente retribuito, indipendente (e aggiuntivo) rispetto a quello della madre. Sarebbe anche un’esplicita, parziale affermazione che la responsabilità della cura dei figli è congiunta, con ricadute positive sulla cultura dominante, che individua nella donna l’unico prestatore di cure. I dati del World Value Survey indicano che più dell’80% degli italiani è d’accordo con l’affermazione: «un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora», contro una media europea di circa il 55%. Sorge il dubbio che la maggiore sensibilità italiana a questo tema non colga solamente un aspetto culturale in cui ci differenziamo dal resto dei paesi europei, ma una preferenza indotta dai diversi contesti istituzionali.

In conclusione, i cambiamenti nelle scelte di istruzione e nella partecipazione al mercato del lavoro delle ultime generazioni sono evidenti.

Restano ampi differenziali di genere nell’occupazione, nelle tipologie di lavoro e nei salari. Per colmare questi divari, senza sfavorire la fecondità, è necessario ripensare il modello di welfare, tuttora fondato su famiglie monoreddito con protezione sul capofamiglia e scarso intervento sulla cura di bambini e anziani, demandata in via principale alle donne. Questo ripensamento consentirebbe non solo di crescere di più, come è stato già argomentato, ma anche di migliorare la qualità della vita delle famiglie, permettendo una minore specializzazione produttiva tra uomini e donne (mercato e casa) e promuovendo una migliore ripartizione del rischio (occupazionale o familiare) all’interno della coppia.

[1] C. Goldin, The Quiet Revolution that Transformed Women’s Employment, Education and Family, in «The American Economic Review. Papers and Proceedings», 2/2006, pp. 1-21.