Dalla crisi del debito privato a quella del debito pubblico

Written by Costanza Russo Tuesday, 04 September 2012 11:56 Print

Le banche svolgono un ruolo cruciale nel sistema economico e il rischio che alcune di esse potessero fallire ha indotto i governi a intervenire in aiuto degli istituti in crisi e a emettere nuovi titoli di debito per finanziare i piani di salvataggio. Si è innescata così una spirale perversa, per cui la crisi delle banche ha alimentato quella dei debiti sovrani e sta ora estendendo i suoi effetti all’economia reale e all’euro. La storia ci insegna che le crisi bancarie sfociano in crisi sovrane, che gli effetti sull’economia sono sempre gravi in termini di calo dell’occupazione, riduzione del credito e della crescita, e che colpiscono direttamente i cittadini. La storia insegna ma – come sosteneva Gramsci – non ha scolari.


L’attualità della crisi

Il dibattito sulla crisi finanziaria che sta attanagliando l’economia di molti paesi sviluppati e che inizia ad avere ripercussioni negative anche sui cosiddetti BRICs 1 è ancora lontano dal sopirsi. Ciò avviene per tre diversi ordini di motivi. Innanzitutto, perché la crisi nata nel settore finanziario e che sembrava riguardare solo i giganti di Wall Street e i loro omologhi d’oltreoceano si è, in realtà, estesa alla cosiddetta economia reale, ossia ha avuto effetti su cittadini, imprese e lavoratori, per via della generale contrazione dell’offerta di credito, che persiste tuttora anche se la situazione è in lento miglioramento.2 In secondo luogo, perché si è spostato il suo baricentro: da una crisi bancaria si è passati a una crisi del debito sovrano, intendendosi come tale il rischio che siano ora gli Stati a fallire, come sta accadendo alla Grecia e come potrebbe succedere alla Spagna e forse all’Italia. Da ultimo, perché si continuano ancora oggi a creare meccanismi che fungano da “reti di salvataggio” per governi e banche. Il riferimento è alla European Financial Stability Facility, inizialmente pensata come strumento temporaneo e destinata a cedere il passo allo European Stability Mechanism, avente invece natura permanente. Anche in questo caso c’è stato un percorso evolutivo, nel senso che si è passati dai salvataggi delle singole banche in crisi ai piani di salvataggio a cui tutti gli istituti di credito di un singolo paese possono avere accesso, e ora la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea agiscono congiuntamente per creare un sistema condiviso di aiuti agli Stati che a loro volta possono usare quel denaro per ricapitalizzare le banche. Eppure, dubbi persistono sull’efficacia di tale meccanismo e sulla sua capacità di far fronte a una crisi diffusa e virulenta che potrebbe verificarsi a livello sovrano.

Per ovvi motivi, il collasso del sistema finanziario ha avuto anche un fortissimo impatto sull’opinione pubblica, che si sente giustamente oltraggiata dall’ammontare di denaro pubblico impiegato per il salvataggio delle banche e dal fatto che queste ultime non solo sembrano non essersi assunte alcuna responsabilità e aver pagato alcuna conseguenza della crisi che hanno contribuito per la gran parte a creare, ma nemmeno sembrano partecipare al risanamento dell’economia.

Non è compito di chi scrive compiere una valutazione politica della crisi, delle azioni dei governi e delle scelte delle banche. Qui si vuole provare a fare luce sulla ratio degli aiuti alle banche, su quali sono stati gli effetti di tali salvataggi e, infine, valutare quali proposte possano contribuire al risanamento.

Le ragioni del salvataggio

Per chiarire perché e come le banche sono state salvate bisogna considerare la speciale funzione che esse svolgono nel sistema sociale ed economico. Come è noto, l’attività bancaria consiste nella raccolta di depositi presso il pubblico e nell’esercizio del credito.3 In qualità di correntisti, noi siamo i creditori delle banche e queste sono obbligate a restituirci il nostro denaro non appena lo richiediamo (ad esempio, quando preleviamo al bancomat) e non possono ridarci un ammontare inferiore a quanto richiesto, anche se il denaro non dovesse essere nella loro materiale disponibilità. In qualità di possessori di un mutuo, invece, siamo noi a dover restituire alla banca il denaro che ci ha prestato. Il rimborso avviene a scadenze predeterminate, che sono di solito relativamente diluite nel tempo. Già in un modello così semplice (e semplificato), la combinazione di tutti questi fattori contribuisce a generare due dei particolari caratteri della crisi bancaria. Infatti, le banche hanno un problema legato ai diversi tempi di maturazione delle proprie scadenze (il cosiddetto maturity mismatch) perché i debiti hanno scadenza a breve termine, mentre i crediti ne hanno una più lunga. Il che significa, ad esempio, che se tutti i correntisti dovessero richiedere contemporaneamente la restituzione del proprio denaro (il cosiddetto bank run), le banche si troverebbero esposte a una crisi di liquidità, ovvero all’impossibilità di ripagare i propri debiti in quel preciso momento. Inoltre, quella che potrebbe essere solo una crisi temporanea rischierebbe di trasformarsi in insolvenza vera e propria se gli ulteriori canali di finanziamento di una banca dovessero chiudersi. Ma vi sono altre e ben più delicate funzioni che le banche svolgono e che rendono particolarmente devastanti gli effetti di un loro eventuale fallimento, e che spingono i governi a intervenire per evitarlo, soprattutto quando, come prima della crisi, non vi è una legislazione a livello europeo che possa minimizzarne l’impatto. Innanzitutto, le banche sono al centro dei servizi di pagamento. Dietro a ogni nostra transazione, di qualsiasi tipo e oggetto, ci sono una o più banche. Un fallimento incontrollato avrebbe un immediato effetto negativo su questi servizi. Esse sono poi l’anello di congiunzione tra la politica monetaria delle banche centrali e l’economia reale. I tassi di interesse applicati dagli istituti di credito si basano su quelli fissati dalle banche centrali: se il sistema bancario collassa, si riduce la possibilità che la funzione stabilizzatrice della politica monetaria dispieghi appieno i propri effetti benefici. Inoltre, le banche sono anche intermediari finanziari che operano nei mercati. Di tale ruolo, l’aspetto che più ci interessa è dato dal rapporto che lega i diversi intermediari tra loro tramite la concessione reciproca di prestiti e che contribuisce a rendere alcune di esse “troppo interconnesse per fallire”. Nel cosiddetto mercato interbancario, infatti, le banche prestano (e ricevono) a breve e medio termine denaro a (e da) altri istituti, il che, in caso di crisi, potrebbe avere un risultato dalle conseguenze importantissime: il cosiddetto effetto domino, ossia l’estensione della crisi all’interno del sistema, così da colpire anche quegli istituti che in teoria sono sani. Tale effetto – sempre per semplificare – si verifica perché viene meno la fiducia delle altre banche creditrici circa la possibilità di vedersi restituito il proprio denaro, e perché se il primo anello della catena del credito effettivamente non adempie c’è il rischio che anche i successivi diventino inadempienti. Nel caso della recente crisi finanziaria vi è stato un momento in cui tutti i canali interbancari erano praticamente congelati, per cui non solo i debiti non venivano onorati alla scadenza, ma non si concedeva più credito a causa dell’incertezza circa la solvibilità di ciascun istituto potenzialmente coinvolto e circa la qualità degli attivi di bilancio su cui poter far affidamento. E così, la crisi è diventata sistemica e ha costretto i governi a intervenire.

Da ultimo, in Europa i risparmi delle famiglie, gli investimenti e i mezzi di finanziamento delle società sono affidati principalmente agli istituti di credito, il che fa sì che le passività di tali istituti rappresentino una porzione importante del PIL dei paesi in cui hanno sede (si veda la Figura 1).

Le modalità del salvataggio

Gli aspetti illustrati sopra giustificano la creazione di un sistema di protezione a livello europeo, da sempre in vigore in ciascun ordinamento nazionale, che includa il sistema di garanzia dei depositi 4 e il ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza in caso di crisi di liquidità. 5 Tali misure, però, non si sono rivelate adeguate a fare fronte alla crisi, sia per via di alcune intrinseche debolezze dei meccanismi sia perché la gravità del momento e il carattere sistemico della crisi li rendevano comunque insufficienti ad arginare l’effetto domino. I governi sono quindi intervenuti fornendo quelli che di fatto erano aiuti di Stato alle banche in crisi. Non a caso, la stessa Commissione europea è intervenuta “rilassando” il generale divieto a questo tipo di interventi e giustificando la compatibilità degli aiuti con il regime del mercato interno per via dell’esistenza di una grave perturbazione dell’economia. Chiaramente, i salvataggi non sono stati a “costo zero” per le banche. La Commissione ha richiesto alle beneficiarie di presentare un piano di ristrutturazione e i governi a loro volta hanno sollecitato un incremento dei prestiti all’economia reale, la partecipazione a programmi di mediazione del credito, la previsione di limiti alla distribuzione dei dividendi e interventi sulle remunerazioni.

Consapevoli degli effetti delle crisi bancarie sull’economia, i governi sono intervenuti seguendo due direttrici: piani di salvataggio e piani di stimolo fiscale. I primi sono consistiti in ricapitalizzazione diretta, garanzie sulle passività e scambi di assets. Tali strategie sono state attuate in maniera diversa nei vari Stati dell’Unione europea, 6 ma il minimo comune denominatore è stato che il governo ha dovuto emettere nuovi titoli di debito per finanziare i piani di salvataggio. I secondi miravano invece a riattivare la domanda e a evitare la recessione. Pertanto, gli Stati hanno emanato norme in materia di sgravi fiscali, concessione di incentivi, finanziamenti agevolati o misure a sostegno dell’occupazione. A livello europeo, l’ammontare totale di aiuti messi a disposizione è stato di 4285 miliardi di euro, di cui sono stati spesi effettivamente 1240 miliardi, pari al 10,5% del PIL europeo e al 2,9% degli assets delle banche.7 Tali dati fanno riferimento al 2009 e potrebbero essere corretti leggermente al rialzo.

Gli effetti del salvataggio

Il coinvolgimento così massiccio dei governi per venire in soccorso degli istituti, se per certi versi era inevitabile, ha avuto però un effetto altrettanto devastante. La dottrina economica ci insegna che le crisi bancarie portano con sé alcune conseguenze a livello macroeconomico, tra cui: a) diminuizione delle entrate pubbliche con conseguente peggioramento dei deficit fiscali; b) grave contrazione dell’economia; c) aumento del debito pubblico.8 E proprio a causa del forte indebitamento dei governi determinato dagli interventi a sostegno delle banche e dell’aggravio del deficit dovuto anche all’attuazione dei piani di stimolo, questi non sono riusciti a controbilanciare la zavorra che stava facendo affondare l’economia. Da qui è nata una crisi parallela a quella bancaria, che è la crisi degli Stati sovrani.

Siamo oggi alle prese con un drammatico paradosso. Infatti, la crisi sovrana, meglio conosciuta come crisi del debito pubblico, ha due declinazioni: a) gli Stati potrebbero non essere in grado di ripagare il proprio debito in scadenza; b) le banche, che sono i maggiori possessori dei titoli del debito pubblico, non possono considerarsi al sicuro in caso di insolvenza perché, se gli Stati non onorano i loro debiti, queste rischiano di trovarsi esposte al rischio di fallire. La “malattia” è dunque diventata “virale” e rischia di contagiare tutta l’Europa. Non è un caso, quindi, che la Commissione, coinvolgendo l’istituzione che per eccellenza si occupa di salvataggi, ossia il Fondo monetario internazionale,9 abbia creato un meccanismo condiviso di sostegno economico agli Stati che può essere utilizzato per salvare le banche. Infatti, il singolo Stato, da solo, non sarebbe in grado di salvare se stesso e queste ultime.

E qui ci si propone un altro paradosso: il salvataggio delle banche ha aumentato l’esposizione al rischio di credito degli Stati (ovvero il rischio che gli istituti non ripaghino il debito), che, sommato a quanto detto sopra, determina incertezza nel sistema finanziario. Infatti, il mercato – di cui fanno parte anche le banche – non si fida più degli Stati e fa sì che per questi sia difficile rifinanziarsi, perché i tassi che sarebbero costretti a pagare sono troppo alti. L’aumento dello spread, ovvero della differenza dei costi di finanziamento sul mercato tra i diversi governi europei, ne è la prova. I mercati si fidano maggiormente della capacità della Germania di ripagare il suo debito che di quella, ad esempio, di Spagna e Italia. Il che è ancora più drammatico se si considera che nelle finanze pubbliche la parte che pesa di più con riferimento al debito è proprio il pagamento degli interessi.

Ma c’è di più. Per evitare il collasso, i governi maggiormente coinvolti sono stati costretti a porre in essere misure per “risanare il debito”, quelle che sono assurte agli onori della cronaca come piani di austerity. Con questi si fanno nella maggior parte dei casi tagli orizzontali al welfare pubblico e si aumentano le tasse (riduzione della spesa + aumento delle entrate). Il problema è che questi piani mortificano la crescita, che è invece quello di cui l’economia ha bisogno in questo momento.

Ci troviamo così in un vortice di eventi. C’è la crisi delle banche, che – e questo vale per quei paesi già provati e dalla solidità dei bilanci pubblici in bilico – ha contribuito a quella degli Stati, che ha esasperato quella dell’economia reale perché non c’è crescita. Se possibile, il rischio maggiore è che questa si trasformi in una vera e propria crisi della moneta europea e che quindi indebolisca l’Europa tutta. Non è un caso, perciò, che vi sia una forte presa di posizione da parte dei governi e della Banca centrale europea per riaffermare la solidità dell’euro.

Conclusioni

La storia ci insegna che la crisi binaria banche-Stati non è un “cigno nero”. Da sempre le crisi bancarie hanno condotto a quelle sovrane e viceversa. Ma la storia ci insegna anche che gli effetti sull’economia sono sempre gli stessi e che di fatto coinvolgono i cittadini. Si entra in una fase di depressione economica, caratterizzata da minore gettito fiscale e maggiore inflazione, con conseguenti ricadute negative in termini di livelli di impiego, credito e crescita. Ed è per questo che, onde evitare che il formidabile dispendio di risorse pubbliche a cui stiamo assistendo sia vano, bisogna porsi il giusto obiettivo e cercare di trasformare questa crisi in un’opportunità di cambiamento. E la risposta risiede in Europa e nel saper fare scelte coraggiose. Bisogna rafforzare la “E” zoppicante dell’Unione monetaria europea ed essere disposti a cedere un po’ di sovranità per ottenere maggiore integrazione. È necessario dare poteri di intervento adeguati alle istituzioni già esistenti a livello europeo (su tutte, Autorità bancaria europea e Banca centrale), soprattutto con riferimento alle misure preventive e ai poteri di supervisione.10 Bisognerebbe inoltre avere meccanismi europei di accesso al credito condivisi in maniera proporzionale, il che significa, però, creare anche una unione fiscale. Occorrono poi regole migliori per le banche sia in termini di capitale sia in termini di gestione della crisi, così da fare in modo che siano queste ultime a sostenere al proprio interno la stragrande maggioranza dei costi.

Tutto questo non è facile da realizzare e incontra forti resistenze sia a livello dei soggetti bancari coinvolti sia a livello politico, in quanti vedono il rischio di un mero trasferimento di ricchezza dai paesi virtuosi a quelli che lo sono meno o in coloro i quali, non avendo adottato l’euro come moneta, non vogliono essere coinvolti in regolamentazioni e controlli più stringenti. Eppure, bisogna cambiare, e, come diceva Albert Einstein, non è possibile risolvere il problema con la stessa mentalità che lo ha creato.

 


 

[1] Brasile, Russia, India e Cina non solo non avevano risentito della crisi, ma i loro tassi di crescita erano addirittura aumentati in maniera particolarmente rapida negli ultimi anni. Di recente, però, quelli di India, Cina e Brasile si sono rivelati inferiori alle previsioni macroeconomiche, il che suona come un campanello d’allarme circa una possibile inversione del trend di crescita.

[2] Si veda Banca d’Italia, Indagine sul credito bancario, aprile 2012, i cui risultati sono stati inclusi nel “Rapporto sulla Stabilità Finanziaria”, 3/2012.

[3] Si veda R. Costi, L’ordinamento bancario, il Mulino, Bologna 2009.

[4] Per l’Italia, il Fondo interbancario di tutela dei depositi.

[5] Su questo punto si veda R. Lastra, Central Banking and Banking Regulation, FMG, Londra 1996. Per una ricostruzione storica del ruolo delle banche centrali come prestatori di ultima istanza si veda M. Bordo, The Lender of Last Resort: Alternative Views and Historical Experience, in “Economic Review”, 1/1990, pp. 18-29.

[6] Per un’analisi dettagliata dei piani di salvataggio europei sia consentito il rimando a C. Russo, Commissione Europea, aiuti di stato alle banche e diritto societario: una difficile convivenza, in “Banca Impresa Società”, 3/2009, pp. 381-420.

[7] Si veda Commissione europea, The Effect of Temporary State Aid Rules Adopted in the Context of the Financial and Economic Crisis, ottobre 2011.

[8] Si veda C. Reinhart, The Economic and Fiscal Consequences of Financial Crisis, disponibile su www.voxeu.org/article/economic-and-fi scal-consequences-fi nancial-crises.

[9] Con riferimento al Fondo monetario internazionale, che storicamente è intervenuto ad aiutare paesi in via di sviluppo, va notato che ad oggi i maggiori debitori del Fondo sono la Grecia e l’Irlanda.

[10] E gli eurobond possono non essere l’unica soluzione. Proposte alternative riguardano gli eurobills, o la possibilità di fare uno European Redemption Pact, o quella di emettere bond europei con bollini di colore diverso a seconda che la garanzia degli Stati sia piena o meno, o quella di emettere dei bond di stabilità con caratteristiche diverse. Da ultimo si veda la proposta avanzata da un gruppo di economisti per la creazione di European Safe Bonds, disponibile su euro-nomics.com/wp-content/ uploads/2011/10/06e-Esbies_document.pdf.