Il sistema bancario italiano in Europa. Italianieuropei intervista Marcello Messori

Written by Marcello Messori Sunday, 02 March 2008 19:51 Print

Italianieuropei Dopo il rapido processo di consolidamento degli anni Novanta, il sistema bancario italiano sembrava essersi bloccato. Invece, di recente, vi sono state nuove aggregazioni. Che cosa è cambiato? 

Marcello Messori Credo che vi siano state almeno due novità di rilievo. Innanzitutto, a metà del 2005 uno dei maggiori gruppi bancari italiani (Unicredit), che già aveva acquisito una posizione di leadership nei mercati dell’Europa dell’Est grazie a lungimiranti acquisizioni di importanti banche in molti di quei paesi e che già vantava una dimensione internazionale nelle attività di asset management, specie grazie all’acquisto di società statunitensi, si è trasformato in uno dei maggiori player bancari europei mediante l’incorporazione del secondo gruppo bancario tedesco per dimensione dell’attivo (cioè HVB). In secondo luogo, a seguito del fallito tentativo di difendere l’italianità di Antonveneta e di BNL a scapito della trasparenza e del corretto funzionamento dei mercati, a metà dicembre 2005 si è dimesso il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Oltre a permettere la ridefinizione della governance della nostra banca centrale, ciò ha portato – dopo molti anni – alla nomina di un governatore (Mario Draghi), che non era un membro del direttorio della banca stessa e che ha posto fine a uno stile molto intrusivo di vigilanza bancaria.

Italianieuropei Dopo il rapido processo di consolidamento degli anni Novanta, il sistema bancario italiano sembrava essersi bloccato. Invece, di recente, vi sono state nuove aggregazioni. Che cosa è cambiato? 

Marcello Messori Credo che vi siano state almeno due novità di rilievo. Innanzitutto, a metà del 2005 uno dei maggiori gruppi bancari italiani (Unicredit), che già aveva acquisito una posizione di leadership nei mercati dell’Europa dell’Est grazie a lungimiranti acquisizioni di importanti banche in molti di quei paesi e che già vantava una dimensione internazionale nelle attività di asset management, specie grazie all’acquisto di società statunitensi, si è trasformato in uno dei maggiori player bancari europei mediante l’incorporazione del secondo gruppo bancario tedesco per dimensione dell’attivo (cioè HVB). In secondo luogo, a seguito del fallito tentativo di difendere l’italianità di Antonveneta e di BNL a scapito della trasparenza e del corretto funzionamento dei mercati, a metà dicembre 2005 si è dimesso il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Oltre a permettere la ridefinizione della governance della nostra banca centrale, ciò ha portato – dopo molti anni – alla nomina di un governatore (Mario Draghi), che non era un membro del direttorio della banca stessa e che ha posto fine a uno stile molto intrusivo di vigilanza bancaria.L’impatto di queste novità è stato dirompente. Mi limito a due notazioni. Primo, è divenuto evidente a tutti il carattere distorsivo della «mano visibile», che aveva plasmato il rapido e positivo processo di consolidamento del sistema bancario italiano negli anni Novanta, ma che aveva anche arbitrariamente impedito molte operazioni di mercato fra il 1999 e il 2004. Le tesi di Fazio, secondo cui le aggregazioni fra i maggiori gruppi bancari italiani dovevano considerarsi concluse nel 2002 per lasciare il posto al consolidamento dei gruppi bancari di medie dimensioni (specie delle banche popolari) e secondo cui le maggiori banche europee potevano al più acquistare quote proprietarie di maggioranza relativa o di riferimento nei nostri maggiori gruppi bancari o in alcune delle nostre banche di medie dimensioni, ma non diventare attori diretti e rilevanti nel mercato italiano, si sono rivelate velleitarie rispetto al processo di unificazione europeo e alle tendenze del consolidamento bancario a livello internazionale. Secondo, la brillante operazione europea, messa a segno da Unicredit, ha mostrato che i nostri maggiori gruppi bancari non erano necessariamente condannati a fungere da prede nel mercato europeo: pur avendo dimensioni inferiori a quelle dei leader europei e pur non potendo vantare una specializzazione in attività finanziarie innovative e ad alto valore aggiunto, tali gruppi avevano carte da giocare. Oggi Unicredit-HVB vanta una posizione europea di assoluto rilievo nelle attività retail tradizionali e di asset management, ha una presenza europea non trascurabile nelle attività di corporate finance e domina gran parte dei mercati dell’Europa dell’Est.Così, quando il nuovo governatore ha segnalato che la Banca d’Italia avrebbe incominciato a svolgere una vigilanza davvero prudenziale e non intrusiva e che gli attori di mercato avrebbero dovuto approfittare della loro nuova libertà di movimento, i processi di aggregazione sono ripresi anche fra i nostri maggiori gruppi bancari. In particolare, gli ultimi mesi ci hanno mostrato che, in Italia, le operazioni fra i maggiori gruppi bancari non impediscono affatto consolidamenti fra banche di medie dimensioni. 

Ie Ma la pressione dei mercati europei non avrebbe riattivato il processo di consolidamento bancario italiano anche senza le novità da lei segnalate? 

M.M. L’esito delle note vicende Antonveneta-Banca popolare di Lodi (o Banca popolare italiana)- ABN Amro e BNL-BBVA-Unipol-BNP mostra che, alla fine, la pressione europea avrebbe travolto le dighe erette dall’autorità di vigilanza e da operazioni illegittime o di ingegneria finanziaria.Infatti, la Banca d’Italia non ha avuto successo nella sua difesa dell’italianità di Antonveneta e di BNL perché i gruppi bancari europei coinvolti non si sono piegati alle sue opache regole del gioco. Tuttavia, questo processo di apertura verso l’Europa si sarebbe imposto a fatica, avrebbe definitivamente compromesso la reputazione internazionale del sistema finanziario italiano e avrebbe finito per indebolire ulteriormente il nostro sistema bancario. Del resto, se si trascura il caso di Unicredit, ancora alla fine del 2005 i retaggi normativi del passato e la persistente vigilanza intrusiva rischiavano di rendere i nostri maggiori gruppi bancari l’anello debole del processo europeo di aggregazione. Basti pensare che, nella classifica europea dei gruppi bancari ordinati per dimensione dell’attivo, Banca Intesa, San Paolo-IMI, Capitalia e MPS veleggiavano fra la diciottesima e la trentesima posizione e concentravano la loro attività in servizi retail di mercati con elevati potenziali di crescita e di redditività. Questi nostri quattro gruppi rappresentavano, quindi, prede ideali per le banche europee leader; per di più, tre di essi avevano proprio una di tali banche come azionista di maggioranza relativa e/o come azionista preminente nel patto di sindacato. Inoltre, anche a causa dei fitti e persistenti intrecci proprietari fra i maggiori intermediari finanziari italiani, eventuali acquisizioni di Banca Intesa e Capitalia da parte di player europei avrebbero alterato i fragili equilibri proprietari di Mediobanca e il controllo delle Generali, incidendo così sul tradizionale asse portante degli assetti finanziari italiani. Ciò ha spinto vari commentatori (compreso il sottoscritto) ad auspicare il riavvio delle aggregazioni fra i nostri maggiori intermediari finanziari come alternativa sia a datati e distorsivi arroccamenti protezionistici, sia alla riduzione della parte più rilevante del sistema finanziario italiano in un mero terreno di caccia. Cosa certo più rilevante, lo stesso segnale è stato ribadito in più occasioni dal nuovo governatore della Banca d’Italia. Fin dalla sua prima uscita pubblica, Mario Draghi ha infatti affermato che i nostri maggiori gruppi bancari dovevano dimostrare la loro capacità di nuotare nel mare aperto europeo senza la protezione (soffocante ma, per altri versi, rassicurante) della Banca d’Italia; e che, al riguardo, la strategia vincente avrebbe potuto essere la realizzazione di appropriate aggregazioni. Inoltre, per rendere più cogenti queste esortazioni, fin dalle «Considerazioni finali» del 31 maggio del 2006, il governatore si è impegnato ad abolire (ed ha, poi, effettivamente abolito tramite una modifica regolamentare) l’obbligo della cosiddetta «comunicazione preventiva» all’autorità di vigilanza di ogni progetto di acquisto di partecipazioni di controllo nelle banche, il che ha eliminato lo strumento principe di censura preventiva sulle scelte di riassetto bancario, utilizzato nel passato dalla Banca d’Italia.

Ie A cavallo tra il 2005 e il 2006, quali avrebbero potuto essere le aggregazioni fra i maggiori gruppi bancari italiani?

M.M. Per evitare ragionamenti controfattuali che rischiano sempre di essere un po’ sterili, vale forse la pena che io ripercorra alcuni passaggi di un articolo che scrissi per il «Corriere Economia» proprio alla fine del 2005, quando ormai le vicende di Antonveneta e di BNL volgevano al termine. In quell’articolo mi premuravo, innanzitutto, di chiarire che il tentativo di valutare alcuni vantaggi e svantaggi delle possibili aggregazioni fra i quattro maggiori gruppi bancari italiani (con l’esclusione di Unicredit) non teneva conto della variabile cruciale di ogni operazione di acquisizione o fusione: gli obiettivi e gli interessi propri agli azionisti e agli stakeholder degli attori coinvolti. Pertanto, non si trattava di previsioni ma di un mero esercizio speculativo. Il metro di giudizio, alla base di tale esercizio, consisteva nel valutare l’impatto delle possibili aggregazioni su tre variabili: 1) gli assetti proprietari degli attori in gioco; 2) il loro radicamento territoriale, cruciale per l’attività retail; 3) la loro posizione rispetto alla galassia Mediobanca-Generali, che resta il punto cruciale di snodo della finanza italiana.La mia tesi era che l’interazione fra le variabili 1 e 2 costituisse l’ostacolo più rilevante a disegni di aggregazione fra Banca Intesa e San Paolo-IMI. La struttura proprietaria del nuovo gruppo sarebbe stata, infatti, dominata da un insieme di fondazioni di origine bancaria, il che avrebbe fatto sì che Crédit Agricole, ossia il più grande gruppo bancario francese, dovesse rinunciare alla propria posizione di azionista di maggioranza relativa di Banca Intesa e che i due rilevanti soci europei di San Paolo-IMI (e, in particolare, lo spagnolo BSCH) finissero per essere emarginati. Inoltre, dati i vecchi componenti dei due gruppi (in particolare Cariplo, Ambroveneta e Cariparma per Banca Intesa; San Paolo e Cardine per San Paolo-IMI), si sarebbero determinate forti sovrapposizioni nelle reti distributive dei servizi retail, che costituivano l’area di specializzazione di ambedue le banche. Ritenevo infine che queste tensioni sarebbero state aggravate dal fatto che, mentre uno dei punti di maggior forza di San Paolo-IMI era l’attività di risparmio gestito, Banca Intesa aveva appena trasferito gran parte di tali attività al Crédit Agricole. Una mia tesi ulteriore era che anche una possibile aggregazione fra Capitalia e Monte dei Paschi avrebbe avuto varie controindicazioni. Oltre a dare vita ad un nuovo gruppo di dimensioni ancora modeste rispetto alla scala europea, la maggiore difficoltà avrebbe riguardato il debole radicamento dell’ipotetico Capitalia-Monte dei Paschi nella ricca area settentrionale e una sua eccessiva concentrazione nell’area centromeridionale. Aggiungevo, tuttavia, che la minore dimensione di Capitalia rispetto a Banca Intesa e a San Paolo-IMI e la sua più dispersa struttura proprietaria avrebbero potuto meglio soddisfare la prioritaria esigenza del proprietario di maggioranza assoluta della banca senese, ossia la Fondazione Monte dei Paschi: quella di mantenere una posizione azionaria di controllo nella nuova aggregazione.La mia conclusione speculativa è che fossero da privilegiare le aggregazioni fra Banca Intesa e Capitalia e fra San Paolo-IMI e Monte dei Paschi. La prima ipotetica aggregazione avrebbe presentato un punto di forza in termini di sistema: l’integrazione fra due reti distributive con diffusione capillare nelle diverse macroaree del paese. Inoltre, questa aggregazione avrebbe fatto emergere quei complessi legami fra l’intreccio proprietario Capitalia-Mediobanca-Generali e quello Generali-Banca Intesa che continuavano a condizionare le strategie di Generali. Data la probabile reazione dell’altro importante proprietario bancario di Mediobanca (ossia Unicredit), il nodo fondamentale del sistema finanziario italiano avrebbe forse potuto trovare una trasparente soluzione di mercato. Anche l’ipotetica aggregazione fra San Paolo-IMI e Monte dei Paschi avrebbe avuto il suo punto di forza nell’integrazione fra le due reti distributive: il radicamento territoriale di San Paolo-IMI denunciava un vuoto proprio nel Centro Italia, dove la presenza di Monte dei Paschi è più diffusa. Inoltre, le note resistenze della fondazione senese rispetto a una diluizione del proprio peso proprietario avrebbero potuto essere attenuate dalla posizione azionaria preminente delle fondazioni nel capitale di San Paolo-IMI.

Ie Come ora sappiamo, le cose non sono andate esattamente nella direzione da lei delineata. Ne dobbiamo forse concludere che l’aggregazione fra Banca Intesa e San Paolo-IMI è contro la logica?

M.M. Non arrivo affatto ad una conclusione del genere. L’aggregazione fra Banca Intesa e San Paolo-IMI va valutata molto positivamente, perché apre la possibilità di costruire un altro leader italiano (dopo Unicredit) nel mercato europeo. Per diventare concreta, tale possibilità richiede però che il nuovo gruppo bancario superi la sua attuale configurazione nazionale e assuma una dimensione davvero europea. Infatti, nonostante gli sforzi (anche recenti e di successo) di Banca Intesa e di San Paolo-IMI per espandersi nell’Europa dell’Est e gli sfortunati tentativi di San Paolo-IMI di fungere da predatore nella vecchia Europa, il perimetro cruciale di attività del nuovo gruppo è ancora troppo vincolato al mercato italiano. I futuri amministratori e manager di Intesa-San Paolo hanno mostrato, in varie interviste, di essere ben consapevoli del problema. Aggiungerei che si tratta di un problema anche per il sistema economico italiano. Se rimanesse troppo concentrata nel mercato nazionale, a causa delle sue rilevanti dimensioni (e di incrostazioni storiche) Intesa-San Paolo rischierebbe di essere coinvolta in impropri compiti di politica economica o – peggio ancora – di politica industriale e di contribuire, così, al ripristino di vecchi e distorsivi intrecci tra politica, finanza e industria.I punti, che ho sottolineato in risposta alla precedente domanda, mostrano però che l’affermazione in Europa di Intesa-San Paolo presuppone la soluzione di una serie più specifica di problemi di assetto proprietario, di governance e di organizzazione dell’attività. Come ho già avuto modo di sostenere, i problemi prioritari mi sembrano riassumibili nei seguenti: 1) arginare il predominio proprietario delle fondazioni, che rischierebbe altrimenti di compromettere la governance del nuovo gruppo e di accrescerne la probabilità di impropri coinvolgimenti nella politica economica e industriale italiana; 2) trovare una soddisfacente modalità di uscita per i principali azionisti europei, in modo da evitare conflitti pro- prietari fin dalla fase di avvio; 3) evitare che il modello dualistico di governance prescelto finisca per duplicare le posizioni di comando e di responsabilità gestionale, per alimentare conflitti di interesse e per nascondere un patto di sindacato; 4) eliminare le sovrapposizioni geografiche fra le reti distributive e soddisfare i probabili vincoli antitrust anche nel settore assicurativo; 5) valorizzare la produzione di servizi non tradizionali pur se a scapito degli interessi di alcuni azionisti di rilievo. A prima vista, qualsiasi processo di aggregazione fra grandi imprese solleva problemi simili ai cinque appena enunciati. La specificità di Intesa- San Paolo risiede nel fatto che molti di questi problemi sono intrecciati. Prova ne sia che la parziale soluzione, già raggiunta rispetto al punto 2, ha reso più difficile una soddisfacente risposta al punto 5.Come è noto, mentre gli spagnoli del BSCH hanno espresso – anche formalmente – il loro dissenso rispetto alla fusione fra Banca Intesa e San Paolo-IMI e sembrano orientati a uscire dall’azionariato del nuovo gruppo massimizzando le proprie plusvalenze, il Crédit Agricole ha rinunciato alla difesa della sua posizione di azionista di maggioranza relativa (con diritti di veto) in Banca Intesa in cambio dell’acquisto – per circa 6 miliardi di euro – di poco più di 650 sportelli ceduti dalla stessa Intesa e da altre banche appartenenti al gruppo. Acquisendo in tal modo Cariparma e Friulandia, il Crédit Agricole è divenuto unico proprietario di una nuova banca che, per le sue dimensioni, si colloca fra le prime in Italia. Inoltre, il prezzo della transazione è stato talmente consistente da depotenziare il fatto che si sia trattato di un’operazione fra parti correlate. L’accordo fra Crédit Agricole e Banca Intesa non si è, però, fermato qui. Oltre a prevedere una drastica riduzione della quota proprietaria della banca francese nel nuovo gruppo Intesa-San Paolo e la sua derubricazione a investimento finanziario, esso ha anche comportato l’apertura di una trattativa per la costituzione di una società di asset management cui conferire tutte le relative attività di Crédit Agricole, di Banca Intesa e di San Paolo-IMI.La creazione di questa possibile società, che rischierebbe di cadere sotto il controllo di Crédit Agricole, assumerebbe grande rilievo rispetto al precedente punto 5. Come si è già accennato, nel recente passato Banca Intesa e San Paolo hanno perseguito strategie opposte rispetto alle loro «fabbriche» prodotto nell’asset management, nel corporate finance e nel settore assicurativo. Mentre Banca Intesa ha ceduto o ridimensionato tali fabbriche per rafforzare accordi con parti correlate (per esempio, Generali-Alleanza nel settore assicurativo) e per concentrarsi sulla distribuzione dei relativi prodotti o servizi, San Paolo-IMI ha realizzato una radicale ristrutturazione delle proprie «fabbriche» e dei propri canali distributivi che è sfociata nella creazione di una società di assicurazione e di asset management (Eurizon) da quotare in borsa. Se il nuovo gruppo Intesa-San Paolo perseguisse la precedente strategia della banca torinese, sorgerebbe un evidente conflitto con gli obiettivi di un suo importante azionista di riferimento (ossia Alleanza-Generali); Generali vedrebbe, infatti, minacciato il suo accordo di banca-assicurazione dalla temibile concorrenza interna di Eurizon. Se il nuovo gruppo perseguisse invece la precedente strategia di Banca Intesa, il polo assicurativo interno sarebbe condannato ad un drastico ridimensionamento e le attività di asset management potrebbero essere «esternalizzate» presso la nuova società da costruire con Crédit Agricole. E l’accordo di banca-assicurazione con Generali risulterebbe tanto rafforzato da aprire la strada a una più stretta alleanza.A prima vista, la seconda alternativa pare la più ragionevole. Essa rischia però di indebolire la possibilità che Intesa-San Paolo sia capace di emulare Unicredit-HBV conquistando, mediante strategie diverse, un ruolo da protagonista nel mercato europeo. A tale riguardo, il raggiungimento di dimensioni elevate è una condizione necessaria ma non sufficiente; bisogna anche dotarsi di elementi di vantaggio competitivo fondati sulla specializzazione, sulla produzione di un’ampia gamma di servizi ad alto valore aggiunto o sul radicamento retail in più mercati nazionali. Se si trasformasse in una grande rete distributiva priva di significative «fabbriche» prodotto, il costituendo gruppo Intesa-San Paolo non sarebbe perciò competitivo a livello europeo.

Ie Vedremo nei prossimi mesi quali saranno le scelte operate da Intesa- San Paolo. L’interrogativo ora è un altro: possiamo ritenere che tale aggregazione segni la fine del processo di consolidamento fra i maggiori gruppi bancari italiani e dell’ingresso di intermediari finanziari europei nel nostro mercato nazionale?

M.M. Il fermento, che proprio in questi giorni sta caratterizzando il sistema bancario italiano, mostra in modo impressionistico ma evidente che la risposta deve essere negativa. Vi sono però più solide argomentazioni per ribadire tale risposta. Innanzitutto, dopo il progetto di aggregazione Intesa-San Paolo lanciato lo scorso agosto, vi sono stati altri processi di acquisizione e fusione. In secondo luogo, alcuni fra i maggiori gruppi bancari italiani (e, primo fra tutti, Capitalia) sono oggetto di attenzione da parte di grandi intermediari finanziari europei e, a loro volta, sembrano orientati a procedere ad acquisizioni o fusioni. Inoltre, si è affermato un processo di consolidamento fra grandi banche popolari che sembra lungi dall’essersi concluso.Il più importante progetto di aggregazione già varato è, certamente, quello che coinvolge due fra le maggiori banche popolari italiane: il Banco di Verona e Novara (BPVN) e la Banca popolare italiana (BPI). Se si realizzasse, estendendosi magari a(una parte de)lla compagnia di assi- curazione Cattolica, questa aggregazione darebbe vita al terzo gruppo bancario italiano e consentirebbe a una banca già efficiente e ben radicata in una delle aree più ricche del paese, quale è BPVN, di rafforzare la propria rete distributiva grazie alla diffusa – anche se un po’ farraginosa – presenza geografica della BPI e di utilizzare questo potenziamento nei canali distributivi per attuare con successo un modello di banca-assicurazione. Le incognite rispetto agli esiti futuri di tale possibile operazione non derivano tanto dalla capacità di BPVN di cancellare ogni traccia del pessimo passato di BPI (già Banca popolare di Lodi), quanto dalla coerenza fra gli assetti proprietari cooperativi, tipici delle banche popolari, e la governance richiesta da un gruppo bancario di così preminente rilievo nazionale. Certo è che, fino a quando questo aspetto non troverà soluzione, difficilmente un nostro grande gruppo bancario popolare potrà aspirare a svolgere ruoli di rilievo nel mercato finanziario europeo paragonabili a quelli di Crédit Agricole.Assai più difficile è esaminare e valutare le possibili strategie dei due altri maggiori gruppi bancari italiani (Capitalia e Monte dei Paschi) e delle altre grandi banche popolari (BPU, Popolare di Milano, BPER). Al riguardo, i due interrogativi fondamentali da porsi sono i seguenti. Primo: i vincoli posti dalla specifica forma proprietaria delle banche popolari sono ancora così stringenti da impedire o da rendere molto costose le aggregazioni con altri intermediari finanziari che hanno la forma di Spa? Secondo: le quotazioni di borsa dei nostri maggiori gruppi bancari italiani, popolari e non, hanno raggiunto livelli così elevati da scoraggiare acquisizioni da parte di intermediari europei, che hanno quotazioni più basse e che incontrano – quindi ––maggiori difficoltà a corrispondere certi prezzi o a costruire convenienti operazioni «carta contro carta»? Se si rispondesse affermativamente ad ambedue gli interrogativi, le alternative di consolidamento all’interno del sistema bancario italiano sarebbero abbastanza limitate. Oltre a perseguire un’evoluzione per linee interne, Capitalia e Monte dei Paschi potrebbero tentare una fusione fra loro oppure rassegnarsi a fungere da preda per Unicredit o (cosa al momento improponibile) per Intesa-San Paolo; e un analogo discorso andrebbe fatto, nell’ambito delle banche popolari, per BPU e BPM.L’elemento più interessante di un simile scenario non risiederebbe tanto nell’ipotetica costruzione del nuovo gruppo Capitalia-Monte dei Paschi (a proposito di cui rimando alle precedenti osservazioni critiche), quanto in una conseguenza dell’aggregazione fra Unicredit e Capitalia: il cambiamento negli equilibri proprietari di Mediobanca e, quindi, di Generali. Si tratterebbe di un cambiamento così traumatico rispetto all’ingessato intreccio esistente da scatenare reazioni di mercato. Il possibile esito positivo sarebbe quello di «liberare» le rilevanti potenzialità di Generali in campo europeo e internazionale. Se invece si rispondesse negativamente ad almeno uno dei due precedenti interrogativi, i giochi risulterebbero più aperti. In particolare, Capitalia potrebbe avere interesse ad acquisire banche ben radicate in regioni settentrionali così da estendere la propria rete distributiva nell’area più ricca del paese.A prescindere dalle ulteriori considerazioni che si potrebbero sviluppare a riguardo, l’interrogativo centrale rimane però il seguente: è realistico supporre che il sistema finanziario italiano esprima un terzo gruppo bancario capace di acquisire una posizione di leadership nel mercato europeo? Se la risposta è negativa, allora la soluzione più adeguata (anche se non alternativa all’ipotesi di rafforzamenti in ambito nazionale) sarebbe quella di perseguire aggregazioni con gruppi europei già presenti in Italia e ben posizionati nel mercato europeo.

Ie Un’ultima breve questione. Supponiamo che, nel giro dei prossimi mesi, si avverino le più rosee aspettative riguardo al nuovo processo di consolidamento nel sistema bancario italiano. Quali sarebbero i residui problemi da affrontare?

M.M. L’interrogativo posto meriterebbe una lunga riflessione. In termini molto sintetici la mia risposta è: fare sì che il mercato degli assetti proprietari del nostro sistema bancario funzioni come un mercato e non sia, viceversa, un intreccio di assetti proprietari inefficienti. Ciò vale per l’asse Mediobanca-Generali ma, più in generale, per gran parte dei nostri maggiori gruppi bancari. Basti ricordare che, se le aggregazioni in atto si realizzeranno, sei dei nostri otto maggiori gruppi bancari saranno controllati da fondazioni oppure avranno la forma di banca popolare quotata. Quanto alle fondazioni di origine bancaria, bisogna ormai riconoscere che hanno svolto opera di supplenza rispetto all’assenza di veri investitori istituzionali (in primo luogo, di fondi pensione) nel mercato italiano. È quindi necessario fare sì che tali fondazioni, pur non rispondendo ad alcun investitore e pur non essendo controllate da alcun proprietario, assomiglino sempre più a investitori istituzionali. A tale proposito, le condizioni minime sono due: tutte le fondazioni devono redigere e rendere pubblici bilanci trasparenti, con poste valutate a prezzi di mercato; tutte le fondazioni devono misurare l’efficienza dell’allocazione del loro patrimonio e dei loro impieghi nel settore non profit mediante indicatori trasparenti e riconosciuti a livello internazionale. Quanto alle banche popolari quotate, si tratta di adeguare la loro governance ai requisiti di contendibilità imposti dalla quotazione in mercati regolamentati.