Editoriale 10/2011

Written by Italianieuropei Tuesday, 22 November 2011 13:20 Print
Editoriale 10/2011 Illustrazione di Emanuele Ragnisco

Dopo una lunga e via via sempre più preoccupante agonia (soprattutto per il paese e per le forze sane che sa ancora esprimere), dopo che persino il “Financial Times”, a chiare lettere, «nel nome di Dio, dell’Italia e dell’Europa», ha intimato a Silvio Berlusconi di dimettersi, pare essere giunta a conclusione la parabola del berlusconismo.

 

Dopo una lunga e via via sempre più preoccupante agonia (soprattutto per il paese e per le forze sane che sa ancora esprimere), dopo che persino il “Financial Times”, a chiare lettere, «nel nome di Dio, dell’Italia e dell’Europa», ha intimato a Silvio Berlusconi di dimettersi, pare essere giunta a conclusione la parabola del berlusconismo. È un momento che aspettavamo da tempo, che ha il sapore della fine di un’epoca. Durante i dieci anni in cui ha governato, Berlusconi ha profondamente, e in peggio, cambiato il paese, ribaltando quanto di positivo fatto dai governi di centrosinistra.

Sin dalla sua discesa in campo, nel 1994, Berlusconi, nonostante il ruolo di statista che ambiva a ritagliarsi per sé, si è fatto paladino di una visione antipolitica dai tratti populistici e artefice di una personalizzazione del confronto inedita per il panorama italiano. Una vera e pensata forma di “egemonia culturale” è stata messa in atto per la gestione del potere: Berlusconi ha cambiato il modo di fare comunicazione politica, sfruttando pienamente l’enorme spiegamento di forze garantito dal predominio su entrambi i fulcri del duopolio televisivo italiano; ha cambiato il modo di interpretare la realtà e di interagire con essa, eleggendo il sondaggio a strumento conoscitivo per eccellenza; è riuscito in operazioni di continua mistificazione della realtà, impedendo a tutti noi cittadini di distinguere il vero dal falso. Soprattutto ha saputo dare vita a un fenomeno, il berlusconismo, egemone dal punto di vista culturale per gran parte degli ultimi due decenni, e cementare intorno ad esso un poderoso blocco sociale. Ha fatto di se stesso e delle leggi concepite a suo personale beneficio il perno del dibattito politico nazionale. Tutto ciò mentre il paese scivolava lento verso il baratro, mentre si erodeva, in gran parte anche per sua responsabilità, la trama della convivenza civile, mentre i cittadini si allontanavano dalle istituzioni e la politica dai cittadini e dalle terribili realtà che molti di essi vivono.

Qualcosa però è saltato nel meccanismo perfetto concepito dal Cavaliere, e le sconfitte di PDL e Lega hanno cominciato a prodursi sempre più brucianti: Milano, Napoli, Cagliari, Trieste.

La crisi finanziaria, l’incapacità di dare ad essa risposte adeguate, il discredito internazionale hanno accelerato il declino di Berlusconi e la crisi del berlusconismo. È un momento che aspettavamo e che avremmo voluto festeggiare, come una liberazione. Lo stato in cui Berlusconi lascia il paese è però così drammatico, la situazione talmente grave che c’è davvero poco spazio per lasciarsi andare ai festeggiamenti.

Fuori dal palazzo in cui il nostro premier si è rinchiuso negli scorsi anni c’è uno scenario fatto di macerie. Chiunque verrà dopo di lui si troverà a dover compiere una titanica opera di ricostruzione. In primo luogo ricostruzione del tessuto produttivo del paese, della sua solidità finanziaria, della capacità di crescita economica, e non perché siano la BCE o i mercati finanziari a chiederlo, ma perché lo esigono i troppi disoccupati, le famiglie che non arrivano alla fine del mese, i nuovi poveri che affollano le mense della Caritas, i giovani, a cui non siamo più in grado di offrire né un’occupazione né una prospettiva per il futuro. E poi ci sarà da ricostruire in termini di credibilità: per il paese credibilità internazionale; per le istituzioni credibilità di fronte ai cittadini. Un lavoro immane di ricostruzione concertata della struttura statale e sociale. Modernizzazione, rimozione, caso per caso, di impedimenti, ostacoli, resistenze, per giustificare e valorizzare l’investimento di ogni centesimo di denaro pubblico.

Va ricostruito, infatti, lo Stato, vanno recuperate le vocazioni personali, ricreata una coscienza sociale.

Ci aspetta un periodo difficile, di sacrifici, e speriamo che non debbano di nuovo assumersene il carico coloro che già li hanno sostenuti in passato, che non siano sempre gli stessi a pagare.

Per ripartire occorre compiere un grande sforzo narrativo. Dobbiamo provare a raccontare quella che sarà l’Italia migliore nel 2020, l’Italia che consegneremo ai nostri figli. Un’Italia che sarà capace di superare le gravi diseguaglianze sociali esistenti, impegnata a restituire i sogni di giustizia ai suoi cittadini, consapevole che tra i loro bisogni e le risposte della politica ci deve essere un comune sentire, capace di restituire fiducia e speranza alle nuove generazioni.

Non sarà un compito facile, ma è un nuovo inizio. Il peggio forse, per fortuna, è passato.