L’intervento in Libia: la situazione attuale e gli scenari futuri

Written by Carlo Jean Tuesday, 26 April 2011 15:04 Print
L’intervento in Libia: la situazione attuale e gli scenari futuri Illustrazione: Lorenzo Petrantoni

La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la quale è stato approvato l’intervento della cosiddetta “coalizione dei volenterosi” in Libia lascia aperti numerosi interrogativi a livello internazionale in merito ai rapporti di forza tra i paesi europei, all’assetto istituzionale della nuova Libia, alla legittimità dell’uso della forza, alle reali ragioni delle posizioni russa e cinese e alle possibili conseguenze per il nostro paese.


L‘approvazione della Risoluzione 1973 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha legittimato l’impiego della forza per proteggere la popolazione libica con «tutti i mezzi necessari», escludendo unicamente l’occupazione militare e la divisione del paese. Non ha però fatto cessare le polemiche sui limiti dell’uso della forza e sugli scopi ultimi dell’intervento internazionale, cioè sugli assetti finali della “nuova” Libia. Come tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, la 1973 è stata frutto di faticosi compromessi, necessari per evitare il veto di qualche membro permanente, e presenta quindi numerose ambiguità. Esse permettono a ciascuno Stato, organizzazione regionale e a quello strano organismo denominato “gruppo di contatto” costituito nella conferenza tenutasi a Londra il 29 marzo di interpretarla in modo diverso, a seconda dei propri interessi politici ed economici.

La Risoluzione 1973 prevede espressamente l’imposizione di una no-fly zone e di un blocco navale e aereo (anche se il termine “blocco” non viene esplicitamente impiegato), volto a far rispettare l’embargo sulle armi alla Libia, approvato dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 1970. Non è chiaro se l’autorizzazione a impiegare «tutti i mezzi necessari» superi l’embargo nei confronti degli insorti, al cui fianco si sono schierati Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Qatar. È questo un punto molto controverso in termini sia giuridici che di efficacia.

In termini giuridici è considerato generalmente una forzatura. La Francia e il Regno Unito sono favorevoli, dato che esiste in tutti e due i paesi una notevole riluttanza a intervenire con forze terrestri in Libia a sostegno degli insorti. Gli Stati Uniti hanno oscillato fra il sì e il no, ma sembra che quest’ultimo prevalga. Il segretario generale della NATO, Rasmussen, si è dichiarato nettamente contrario ad armare gli insorti. Ha affermato che l’Alleanza è intervenuta per proteggere la popolazione civile, non per armarla, prolungando il conflitto e aumentando le perdite. Anche la Lega araba si è opposta a tale soluzione. Secondo taluni media, l’Egitto e il Qatar stanno clandestinamente inviando armi agli insorti; sembra però che l’Egitto sia preoccupato di una progressiva radicalizzazione della Cirenaica. Da parte sua, la Senussia è collegata con la Fratellanza musulmana, principale forza di opposizione al potere, gestito dai militari in Egitto dopo la deposizione del presidente Mubarak.

Sotto il profilo dell’efficacia, invece, vi è da notare che gli insorti dispongono già di un gran numero di armi e di munizioni, provenienti sia dalla diserzione di interi reparti, sia dai depositi dell’esercito libico in Cirenaica, anche in vista di un possibile nuovo scontro con l’Egitto, del tipo di quello verificatosi nel 1977. Dispongono anche di missili portatili terraaria: uno di essi avrebbe abbattuto, per errore, un MIG-23 passato agli insorti.

Dubbi sull’efficacia dell’invio di armi ai ribelli sono stati espressi anche per altri due motivi. Il primo riguarda l’impossibilità che li ponga in condizione di vincere le forze lealiste: le armi non bastano; occorrono l’addestramento, la creazione di una struttura di comando e controllo e la padronanza di capacità logistiche di cui gli insorti non dispongono. Lo hanno dimostrato il disordine e la confusione che hanno caratterizzato la loro avanzata verso Sirte e la successiva ritirata. La creazione di un’adeguata capacità operativa richiede tempi lunghi, di cui la coalizione non dispone. La seconda perplessità riguarda l’incertezza sulla natura dell’insurrezione. Numerose notizie confermano la presenza tra le fila degli insorti di ex jihadisti, evacuati dall’Iraq dopo il “risveglio sunnita”. Va ricordato che la Cirenaica ha fornito, dopo l’Arabia Saudita, il maggior numero di volontari che hanno combattuto in Iraq agli ordini di al-Zarqawi, luogotenente di Bin Laden.

La Risoluzione 1973 non prevede né la cacciata di Gheddafi, né un mutamento di regime, ad esempio con la sua democratizzazione, ma il solo mantenimento dell’unità della Libia. Né fissa un termine all’impiego della forza: esso sarà stabilito solo dopo che le autorità libiche avranno accettato un cessate il fuoco “effettivo” e posto fine alle ostilità nei riguardi della popolazione. Nella conferenza di Londra il gruppo di contatto si è riservato il diritto di decidere quando il cessate il fuoco sarà effettivo e l’uso della forza da parte della “coalizione dei volenterosi” debba terminare.

Inoltre, la Risoluzione 1973 non distingue la popolazione dagli insorti. Questo ne permette teoricamente ogni interpretazione: finchè si continuerà a combattere, anche dopo l’eventuale eliminazione di Gheddafi, vi sarà un buon motivo per giustificare la prosecuzione dell’intervento. È un’ipotesi del tutto probabile, data la struttura tribale e clanica della società libica e la distribuzione di armi alla popolazione voluta da Gheddafi. Sembra che, attribuendo tutta la responsabilità al colonnello e al suo stretto entourage, non si siano approfondite adeguatamente le ragioni del suo potere, che non dipendeva né dipende da mercenari pagati dal leader libico con le grandi risorse finanziarie a sua disposizione, derivate dalla vendita di idrocarburi. Egli è sostenuto da molte tribù, le maggiori delle quali originarie della Tripolitania e del Fezzan. Esse non si lasceranno sottomettere dagli insorti – ammesso, ma non concesso, che vincano, come fecero in Bosnia i croato-musulmani e in Afghanistan l’Alleanza del Nord. Le tribù darebbero invece inizio a una guerriglia prolungata, spinte anche dal timore di essere asservite a Bengasi e di dover subire le rappresaglie dei vincitori. In caso di massacri dei libici fedeli a Gheddafi, è improbabile che la coalizione internazionale bombardi le forze del Consiglio nazionale transitorio libico di Bengasi; si determinerebbe così una situazione simile a quella irachena o somala. Questo ha giustificato l’affermazione del comandante supremo alleato in Europa della NATO (SACEUR), ammiraglio Stavridis, che nel suo hearing al Congresso americano del 29 marzo ha dichiarato che alla fine delle ostilità sarà verosimilmente necessario schierare in Libia una consistente forza di stabilizzazione, come si è fatto in Bosnia, nel Kosovo o in Afghanistan. È una prospettiva che sta provocando dubbi in molti paesi, dubbi accresciuti dal fatto che gli Stati confinanti con la Libia (dall’Algeria, al Ciad, al Niger) sosterranno la guerriglia anticirenaica in Tripolitania e in Fezzan.

Nell’ultimo paragrafo – disatteso dalla conferenza di Londra ma la cui attuazione è stata richiesta dalla Russia – la Risoluzione 1973 incarica il Consiglio di Sicurezza dell’ONU di seguire la situazione e di decidere la cessazione dell’autorizzazione all’uso della forza oppure un suo inasprimento. Quest’ultimo potrebbe andare dallo schieramento di un dispositivo di interposizione fra le forze rimaste fedeli a Gheddafi e gli insorti (o della forza di stabilizzazione di cui ha parlato il SACEUR) a un intervento terrestre e all’occupazione temporanea del territorio libico, con una robusta forza di stabilizzazione che impedisca le violenze contro i vinti.

Vi sono paesi, in particolare la Francia, che danno al mandato ONU l’interpretazione più ampia, sostenendo che lo scopo di proteggere la popolazione può essere attuato solo con la cacciata di Gheddafi e la vittoria del Consiglio nazionale di Bengasi, a cui dovrebbero essere fornite le armi necessarie. Altri – in particolare il segretario generale della NATO – ne danno un’interpretazione più ristretta, limitata all’embargo per l’intera Libia e alla no-fly zone, senza un sostegno diretto all’insurrezione. Questi ultimi ritengono che, però, l’attuale Risoluzione consenta l’invio di truppe per la protezione degli aiuti umanitari o per il recupero di piloti e – aspetto più controverso – anche il reclutamento di truppe speciali per “marcare” gli obiettivi la cui distruzione è necessaria per proteggere la popolazione, riducendo i danni collaterali, cioè le vittime civili.

Di fatto, anche se non vi sono conferme ufficiali, sembra che un rilevante numero di forze speciali americane e britanniche fosse presente sul territorio libico anche prima dell’inizio dell’intervento internazionale. Altre fonti affermano che sono presenti anche forze speciali egiziane. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno smentito che i loro reparti si stiano coordinando con gli insorti: ciò appare quanto meno singolare, dato che questi ultimi dispongono certamente di migliori informazioni e che la coalizione deve evitare di attaccare i loro elementi avanzati, necessariamente frammischiati con le forze lealiste nella confusione dei combattimenti.

La Risoluzione tace sugli assetti della Libia alla fine della missione internazionale. Nella prima fase dell’intervento, il coordinamento degli attacchi aerei è avvenuto con accordi diretti fra i governi americano, britannico e francese. AFRICOM proponeva ai tre paesi un elenco di obiettivi, fra cui essi sceglievano quelli da colpire. Un migliore coordinamento sia politico-strategico che operativo è stato realizzato con l’assunzione delle responsabilità da parte della NATO. Tutt’altro che chiari rimangono però gli assetti finali della Libia – e la sorte di Gheddafi – alla fine dell’intervento internazionale, ammesso che esso consegua risultati decisivi.

In altre parole, non si sa che cosa fare né se vincerà Gheddafi, né se vinceranno gli insorti, oppure se i “volonterosi” della coalizione si trasformeranno in “dubbiosi”. Non è escluso che ciò avvenga: cresce l’irritazione sull’interventismo di Parigi e Londra, volto sempre più chiaramente a perseguire gli interessi dei due paesi e a utilizzare la Risoluzione 1973 solo come copertura di politiche nazionali. La conferenza di Londra non ha fatto – né poteva fare – molta luce al riguardo. Molto verosimilmente, quindi, non verranno indicati obiettivi politici all’azione militare: essi verranno definiti ex post, a seconda dell’evoluzione della situazione sul terreno. Il povero von Clausewitz, fautore della dipendenza più completa dell’azione militare dalla politica, si rivolterà certamente nella tomba.

Il principale rischio è che, ora che si sono impegnati, Stati Uniti ed Europa non potranno tornare indietro senza perdere la faccia. Si rischiano un mission creep, l’escalation irragionevole del conflitto, la creazione di una lunga instabilità in Libia, la radicalizzazione dei contendenti, il coinvolgimento dei paesi vicini e così via. Il rischio è aumentato dal fatto che nella Risoluzione ONU 1970, quella che decretava l’embargo sulle armi, è anche previsto che Gheddafi venga sottoposto a un tribunale internazionale che dovrà giudicarlo per i suoi crimini. Lo si è così messo con le spalle al muro, contravvenendo al buon senso della massima popolare “a nemico che fugge, ponti d’oro”. Anche se verrà sconfitto sul campo, o se la defezione dei suoi sostenitori lo indurrà ad accettare un esilio, o se sarà eliminato da un attacco aereo, l’interrogativo di fondo rimane inalterato: che cosa accadrà in Libia? Il problema non può essere risolto con la Dichiarazione di rappacificazione democratica del paese del Consiglio nazionale transitorio, che tanto entusiasmo ha suscitato in molti dei partecipanti alla conferenza di Londra. Temendo rappresaglie, le tribù fedeli a Gheddafi, che forniscono gli effettivi aiuti alle forze lealiste, continueranno a resistere.

Forse, se continua l’attuale situazione di stallo, la soluzione migliore consiste nel successo della mediazione turca fra gli insorti e Gheddafi e nella separazione, almeno temporanea, della Cirenaica dalla Tripolitania, peraltro difficile, dato che molte tribù sono transfrontaliere. Solo il colonnello sembra in grado di evitare una guerra prolungata, con le conseguenze negative a cui si è prima accennato. Tale soluzione non sarebbe disastrosa per l’Italia, dato che le concessioni petrolifere dell’ENI si trovano nella parte occidentale e sudoccidentale della Tripolitania. Inoltre, contribuirebbe a salvare dalle intemperanze del suo presidente la Francia, tanto indispensabile per l’Europa. Insomma, qualora Gheddafi non decidesse di togliersi di mezzo da solo, o perché costretto dai suoi, l’alternativa al prolungamento del conflitto sarebbe una soluzione simile a quella adottata in Kosovo, dove Milosevic fu lasciato al potere a Belgrado, per poi regolare successivamente i conti con lui.

Sugli insoddisfacenti esiti della riunione di Londra ha influito anche il fatto che a complicare le cose sono intervenuti diversi elementi: la decisione dell’Unione africana di non parteciparvi; la controffensiva delle forze lealiste a Sirte (che ha ricacciato i ribelli di centinaia di chilometri verso est); la richiesta russa di risottoporre la questione libica al Consiglio di Sicurezza e la condanna cinese dell’azione della coalizione. È prevedibile che non sarà possibile raggiungere un accordo internazionale. Continueranno quindi le decisioni unilaterali dei singoli paesi, polemiche a non finire e molta confusione, anche perché gli Stati Uniti, gli unici capaci di esercitare la leadership di una coalizione tanto disomogenea, hanno deciso di farsi da parte. In caso di prolungamento dell’intervento, è probabile che la coalizione vedrà erodere la propria solidità, anche per le critiche dell’Unione africana e della Lega araba, a cui potrebbero aggiungersi dimostrazioni antioccidentali. In tal caso, aumenterebbe la probabilità di destabilizzazione dell’Arabia Saudita, ben più importante della Libia a livello globale: le sue esportazioni petrolifere, infatti, sono indispensabili per l’economia mondiale, la cui ripresa dalla crisi del 2008-09 è già minacciata dall’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi.

Insomma, la questione libica continuerà a riservare sorprese. È avvenuto sin dall’inizio: la prima sorpresa è consistita nella richiesta della Lega araba all’ONU di creare una no-fly zone sulla Libia; la seconda nel mancato veto russo e cinese al Consiglio di Sicurezza, su cui molti contavano; sono seguite l’inaspettata, rapida ripresa di Gheddafi, le cui forze hanno in pochi giorni raggiunto i sobborghi di Bengasi, roccaforte degli insorti.

Ci si chiede ancora quali motivi abbiano indotto Mosca e Pechino ad astenersi. Una ragione probabilmente risiede nel fatto che esse hanno tutto l’interesse a vedere Stati Uniti ed Europa impegnati in un nuovo conflitto in un paese islamico. Si prolungherebbe così la “finestra di opportunità” di cui dispongono per continuare a perseguire i loro obiettivi, rispettivamente in Europa centrorientale e in Asia sudorientale. Mosca ha poi unito l’utile al dilettevole: la crisi libica ha comportato un aumento del prezzo del petrolio e del gas, dalle cui esportazioni dipende l’economia russa. Inoltre, la crisi eroderà la coesione europea e transatlantica, permettendo a Mosca di consolidare le sue già ottime relazioni con Berlino. Taluni esperti strategici russi parlano già di “Ge-Russia”. Non è neppure da escludere che Pechino abbia teso a screditare gli Stati Uniti e l’Europa in Africa, dove sta estendendo la propria influenza.

Altri fatti inaspettati, come le improvvise decisioni unilaterali della Francia, o le numerose (troppe) iniziative di pace fanno pensare, in conclusione, a un pasticcio di cui non si vede l’uscita. L’Italia, in particolare, che è il paese con maggiori interessi in Libia, rischia di subire notevoli danni. Dovremo ringraziare soprattutto Parigi e l’interventismo spericolato del presidente Sarkozy, motivato da interessi di politica interna ed economica prettamente francocentrici. C’è da sperare che – per usare le parole del presidente francese – «la riconquista da parte della Francia del suo ruolo storico» non avvenga a spese dell’Italia e non comporti l’indebolimento della coesione della NATO e dell’Unione europea.