Presidenziali francesi 2012: i progressisti e la rottura neoconservatrice

Written by Olivier Ferrand Monday, 28 March 2011 16:00 Print
Presidenziali francesi 2012: i progressisti e la rottura neoconservatrice Illustrazione: Maurizio Santucci

La Francia si appresta ad affrontare le elezioni presidenziali della primavera del 2012 in una situazione inedita: crollo dei consensi per il presidente della Repubblica uscente, difficoltà a individuare un candidato unico per la sinistra, aumento della febbre populista, ascesa dell’estrema destra. Il panorama politico francese appare indecifrabile, l’esito delle elezioni imprevedibile. L’unica certezza è data dal fatto che la rottura neoconservatrice in corso modificherà profondamente il panorama politico del paese: nulla sarà più come prima.

 

La Francia si avvicina al suo cimento politico quinquennale: le elezioni presidenziali che si terranno nella primavera del 2012. Le affronta in una situazione inedita: crollo dei consensi per il presidente della Repubblica uscente, incertezza sull’identità del principale candidato di sinistra, aumento della febbre populista, con l’ascesa dell’estrema destra a livelli mai raggiunti, estrema frammentazione politica. Il panorama politico francese appare indecifrabile, l’esito delle elezioni imprevedibile.

Per definire questa situazione è necessario comprendere che le attuali scosse sono originate da un mutamento storico: l’avvicinamento fra la destra di governo (l’UMP, il partito del presidente Nicolas Sarkozy) e l’estrema destra (il Front National).

Il baricentro della destra di governo si collocava finora sul centrodestra. La destra di governo aveva accettato un compromesso ideologico intorno al modello francese, ispirato dalla sinistra ma anche dal “gollismo sociale” sintetizzato nel programma del Conseil national de la résistance nel 1944. Un modello che si può definire per brevità “socialdemocratico” e fondato su due pilastri. La democrazia, con l’estensione delle libertà individuali, la tutela dei diritti del cittadino, lo sviluppo dei diritti dell’uomo – in questo il modello francese è fondamentalmente un modello umanista –, e il sociale, con lo Stato sociale, i servizi pubblici, la fiscalità ridistributiva: si tratta di un modello ugualitario, di solidarietà.[1] Ancora non molto tempo fa, Jacques Chirac personificava questo posizionamento della destra; nel 1995 non aveva esitato a condurre la sua campagna su un tema della sinistra, quello della “frattura sociale”.

Il sarkozismo, al di là delle sue tattiche di sbarramento (l’apertura del governo a ministri di sinistra) e delle sue incertezze dottrinali (per esempio sull’ambiente), ha mandato in mille pezzi quel compromesso ideologico. Ha operato una duplice rottura, neoconservatrice nella sostanza.

Una rottura anti-umanista, prima di tutto, che si caratterizza per la ricerca sistematica di colpevoli, di capri espiatori da additare al rancore collettivo. Ci sono sempre i bravi cittadini da proteggere e i cattivi da espellere dalla collettività nazionale: gli immigrati, i mussulmani, la teppaglia delle banlieue, i delinquenti, gli assistiti, i funzionari privilegiati. Per costoro, per la prima volta dopo la guerra, si riducono i diritti individuali.

Questo atteggiamento antiumanista si esplica nel dibattito sull’identità nazionale e sull’Islam. La visione neoconservatrice della nazione resta cristallizzata sull’identità fantasmatica del passato, con una tentazione etnica (bianca), decisamente culturalista (religiosa, le radici cristiane). Un’identità chiusa, che esclude le generazioni di francesi di recente immigrazione, di cultura islamica, considerati stranieri sul loro stesso suolo.

Questa rottura si ritrova anche in una politica dell’immigrazione sempre più brutale. “Retate” di sans-papier, perfino di bambini nelle scuole, da parte della polizia; prefigurazione di un “reato di solidarietà”; espulsione di profughi politici verso l’Afghanistan; messa al bando dei rom; clima di sospetto nelle prefetture… L’esempio della regione di Calais, che concentra i richiedenti asilo in transito verso l’Inghilterra, è illuminante: chiusura del centro di accoglienza di emergenza di Sangatte, smantellamento dei campi di fortuna che l’hanno sostituito – la cosiddetta “jungla” – fino alla condanna per vagabondaggio: dalla padella alla brace.

La politica penale ha subito un identico processo d’irrigidimento. Il confine che delimita “criminali” e “mostri” si allarga sempre di più. Si intensifica la repressione nei loro confronti. È emblematica la politica di castrazione chimica dei pedofili. Fino all’inaudito appello del ministro Michèle Alliot-Marie per la castrazione fisica: una mutilazione di Stato, una visione della Francia degna di “Arancia meccanica”.

Si può collegare questa rottura antiumanista anche al riorientamento della politica estera. La diplomazia di Sarkozy ha rinunciato a un equilibro tra universalità dei diritti umani e interessi nazionali a vantaggio di una Realpolitik talora estrema, come in occasione dell’accoglienza in Francia del colonnello Gheddafi. Con le conseguenze che ora si possono misurare nella primavera araba: amici dei dittatori ieri, freddezza con i democratici di domani. In senso più globale, la diplomazia francese ha oscillato entro una logica dalle sfumature manichee, spingendo la Francia nel ruolo di “nuovo falco” sulla scena internazionale.

La seconda rottura è stata di senso antiegualitario. La politica fiscale ne appare un marchio indelebile. La sinistra critica a ragione il “pacchetto fiscale”, il primissimo intervento adottato da Sarkozy appena salito all’Eliseo: più di dieci miliardi di euro annui tolti dalle tasche di tutti i francesi per essere assegnati alle famiglie più ricche. Nel complesso, dal 2002 e dall’arrivo al potere della destra, sono trenta i miliardi all’anno oggetto di una ridistribuzione al contrario: dalle classi medie e popolari verso le famiglie più benestanti.

Nicolas Sarkozy lo ribadisce di continuo: chi ha successo ha diritto ad arricchirsi. «A grandi responsabilità, grandi profitti» ha ripetuto ancora a Davos. La società meritocratica che egli auspica è una società della disuguaglianza. L’arricchimento dei ricchi finirà pure per beneficiare i poveri, nella pura logica dello “sgocciolamento” (trickle-down) neoconservatore.

Mentre la politica fiscale aiuta i forti, quella sociale abbandona i deboli. Il sarkosismo ha diffuso nel paese una devastante ideologia antiassistenzialista: non è il caso di aiutare gli esclusi, perché si tratta di assistiti che hanno scelto il proprio destino e non vogliono lavorare. Così, con l’andar del tempo, i benefici sociali minimi francesi sono scesi a livelli allarmanti: appena il 40% del salario medio, contro il 60% della media europea e più del 70% in Danimarca, in Olanda e nel Regno Unito. Impoverire i poveri: coltiviamo in tal modo una deleteria eccezione francese.

Questa rottura neocoservatrice provoca un terremoto nel panorama politico. La destra sta perdendo l’elettorato di centrodestra, di cultura democristiana, che non può seguire una tale svolta conservatrice. Questo elettorato, imbevuto di spirito umanitario, non vuole che si mandino i poliziotti nelle scuole, ed è scioccato dalla criminalizzazione dei rom. Per merito della sua sensibilità sociale respinge il culto appariscente del “re denaro” promosso dal presidente della Repubblica.

Il sarkosismo accelera così un movimento di lungo termine, avviato dall’Occidente cattolico diversi decenni fa, che fa inclinare l’elettorato democristiano verso sinistra. L’altro ieri votava centrodestra (per l’UDF, il partito cristiano-democratico fondato dall’ex presidente Valery Giscard d’Estaing); ieri il centro (Bayrou); ormai vota a sinistra, soprattutto per Daniel Cohn-Bendit ed Europe Ecologie.

Il sarkosismo determina all’inverso un avvicinamento ideologico tra la destra e l’estrema destra. Per Nicolas Sarkozy l’obiettivo era quello di federare i due elettorati. È quanto è avvenuto in occasione delle presidenziali del 2007: attingendo al terreno ideologico del Front National (FN) è riuscito a catturarne l’elettorato fin dal primo turno. Ma la sua presa non è durata a lungo. Il rapporto di forze si è ribaltato: nel 2007 Sarkozy era al culmine della popolarità e il FN era sulla difensiva, soffrendo gli ultimi anni di predominio del suo ormai vecchio leader, Jean-Marie Le Pen; oggi Nicolas Sarkozy è al minimo dei consensi e il FN è di nuovo all’offensiva, forte di una nuova guida carismatica, Marine, la figlia di Le Pen. La scommessa politica di Sarkozy si è di colpo ritorta contro di lui: suonare fino alla nausea sulla corda dell’estremismo non è servito a svuotare il FN, ma gli ha dato una seconda vita, essendo l’originale, come dice l’adagio, più convincente della copia.

A questo punto è Marine Le Pen a portare a compimento l’avvicinamento ideologico tra destra ed estrema destra, sdoganando il Fronte Nazionale. Sotto la leadership del padre, il FN era un partito infrequentabile, nostalgico del regime di Vichy, che riproponeva gli slogan della gioventù hitleriana, coltivava un antisemitismo tanto disgustoso quanto superato: un partito destinato solo alla protesta. La figlia si è impegnata a “sdemonizzarlo”, con una strategia simile a quella perseguita da Gianfranco Fini in Italia con Alleanza Nazionale. Propone il FN come secondo partito della destra, quello della destra nazionale, a fianco dell’UMP: ha messo fine alle scivolate e ai richiami al neonazismo, offrendo un’immagine pacificata e moderna, dando nuova centralità alla tesi del FN sul rifiuto dell’Islam in nome della conservazione dell’identità nazionale francese, una questione al centro delle tensioni attuali della società francese e che preoccupa le classi popolari. Il FN non è più un partito di protesta: Marine Le Pen vuole governare.

A questo punto il cambiamento sembra ineluttabile. L’asse destra-estrema destra è in corso di costituzione. In tempi più o meno brevi, il FN avrà accesso al potere nel quadro di una piattaforma di governo con l’UMP.

Nel complesso, in Francia si assiste a una profonda ricomposizione del panorama politico. L’avvicinamento fra UMP e un FN modernizzato è in grado di creare un nuovo blocco neoconservatore. A fronte di questo, il campo progressista si stende su un arco ampio, che va dalla sinistra della sinistra ai cristiano-democratici.

Gli equilibri politici ne sono profondamente modificati. Finora, come aveva affermato François Mitterrand, la sinistra era sociologicamente minoritaria. A questo punto dispone invece di un forte potenziale maggioritario. Lo hanno dimostrato le ultime due elezioni, le europee del 2009 e le regionali del 2010: un rapporto di forza quasi di 60 a 40 a vantaggio dei progressisti.

La sinistra, pertanto, è obiettivamente favorita alle prossime elezioni presidenziali. Lo è tanto più in ragione del fatto che Nicolas Sarkozy si è personalmente molto indebolito, con quasi il 70% di giudizi negativi; mai un presidente in carica aveva toccato un livello di popolarità tanto basso. Sarkozy ha perso il proprio elettorato di centrodestra a vantaggio della sinistra, ha perso l’elettorato popolare conquistato nel 2007, che è ritornato al FN; è addirittura più debole nell’elettorato a lui più vicino, sconcertato più dal suo stile personale che dalle sue scelte politiche.

Secondo i sondaggi, la sinistra vincerebbe con ampi margini al secondo turno delle presidenziali. Il rapporto di forza potrebbe essere compreso tra 55-45 e 65-35 a seconda dei candidati: percentuali faraoniche. Stenterebbe invece al primo turno, raggiungendo percentuali insolitamente basse. Un sondaggio recente colloca al primo turno Marine Le Pen davanti a qualsiasi candidato socialista (24 contro 22% in media), il che rievoca lo spettro di una nuova eliminazione al primo turno delle presidenziali, come successe a Lionel Jospin nel 2002. Il rischio di un “nuovo 21 aprile” non è irrilevante. Lascerebbe Nicolas Sarkozy di fronte a Marine Le Pen al secondo turno, che è probabilmente l’unica soluzione che oggi permetterebbe al presidente uscente di essere rieletto. I sondaggi rivelano anche l’ipotesi di un “21 aprile a rovescio”, con l’eliminazione di Nicolas Sarkozy al primo turno. Si tratta tuttavia di una prospettiva poco credibile, perché numerosi candidati della destra inseriti nei sondaggi sono in gran parte virtuali e frammentano artificialmente la base elettorale della destra: è probabile che Sarkozy sia l’unico candidato della destra di governo, con una strategia unitaria che persegue da vari mesi e che si scontra in realtà solo con l’animosità personale nei suoi confronti dell’ex primo ministro Dominique de Villepin, sempre tentato di proporre una candidatura dissidente.

La sinistra galopperebbe al secondo turno grazie al rifiuto del sarkosismo, ma stenta al primo, al punto di rischiare un crollo, perché non sa sempre essere attraente. Questa mancanza di dinamismo della sinistra ha tre motivazioni principali, tre difficoltà che dovrà superare nei prossimi dodici mesi

In primo luogo la sinistra non ha un leader. Dopo il 2002 e il ritiro di Lionel Jospin, nessuno è riuscito a imporsi come capo legittimo della sinistra. È un grave handicap nel sistema presidenzialista francese, che rafforza la personalizzazione della politica. La ragione è di natura istituzionale: il partito socialista non ha procedure atte a designare il suo leader. I suoi congressi si basano su un sistema di doppio proporzionale che impedisce il costituirsi di una maggioranza intorno ad un unico nome. Le istanze dirigenti sono composte proporzionalmente alle mozioni sottoposte al voto dei militanti, le mozioni sono costituite per aggregazione di personalità politiche nazionali e di baroni locali, in proporzione al loro peso presunto nell’apparato del partito. Così, la mozione di Martine Aubry, prima segretaria del partito socialista, ha raggiunto il 25% dei voti all’ultimo congresso di Reims, ed era una mozione che riuniva sensibilità molto diverse, di modo che i suoi sostenitori superano a stento il 10% nelle istanze di direzione.

Per questa ragione, su iniziativa della fondazione Terra Nova e sulla scorta degli esempi americani, greci e italiani, il Partito socialista francese si è dotato di una procedura di “primarie aperte”: il candidato socialista alle presidenziali sarà designato il prossimo ottobre dai cittadini simpatizzanti di sinistra. Oltre al progresso democratico che questo nuovo diritto dato ai cittadini rappresenta, le primarie dovrebbero portare al candidato socialista tre elementi di dinamicità. In primo luogo una dinamica elettorale: la legittimità politica conferita dalla scelta da parte di vari milioni di cittadini ha una forza infinitamente superiore a quella offerta dalla designazione interna da parte di centomila militanti e, a maggior ragione, dalla nomina da parte della direzione in un conclave di apparato; in secondo luogo una dinamica militante: tra i milioni di elettori delle primarie, diverse centinaia di migliaia non si accontenteranno di andare a votare e andranno a infoltire i ranghi dei militanti nella campagna presidenziale. Infine una dinamica personale: la competizione delle primarie è una macchina formidabile per preparare il candidato, che avrà la possibilità di mettere alla prova i suoi slogan, le sue idee, le sue squadre.

È difficile dire quale candidato uscirà dal cappello delle primarie. Dominique Strauss-Kahn è dato come gran favorito nei sondaggi, ma dovrebbe prima decidere di lasciare il Fondo monetario e di rientrare nell’arena politica francese: dovrebbe avere pochi concorrenti nelle primarie, trasformate così in “primarie di ratifica”, dove il vincitore si conosce già in anticipo, come nelle primarie italiane del 2004 che hanno investito Romano Prodi. Le primarie sono particolarmente necessarie proprio per Strass-Kahn: permetterebbero di mettere fine, fin da ottobre, al processo di illegittimazione («è troppo di destra, non può rappresentare il popolo della sinistra») intentato dalla sinistra della sinistra, che altrimenti andrebbe avanti fino al primo turno delle presidenziali. Sarebbe difficile, infatti, negare la legittimità del popolo della sinistra a un candidato eletto dal voto democratico e massiccio del popolo della sinistra. Se Strauss-Kahn dovesse rinunciare, le primarie prenderebbero un andamento competitivo, all’americana, con Martine Aubry favorita, in lotta con seri outsider – François Hollande (ex primo segretario del partito), Ségolène Royal (la candidata socialista alle presidenziali del 2007) e alcuni esponenti della giovane generazione, Arnaud Montebourg (deputato e principale artefice delle primarie), Manuel Valls (deputato e sindaco di Evry) o ancora Pierre Moscovici (ex ministro degli Affari europei). In qualsiasi caso, l’elemento essenziale di successo delle primarie è la logistica: è legato al numero dei votanti, a sua volta correlato al numero di seggi elettorali che il partito sarà in grado di organizzare in tutto il paese. È anche psicologico: i socialisti hanno votato in massa (quasi al 75%) per le primarie aperte, ma si tratta di una rivoluzione culturale difficile e molti quadri dirigenti continuano sostanzialmente a nutrire riserve verso un processo che non volevano e questo potrebbe ostacolarne la buona riuscita.

La seconda difficoltà è data dal fatto che il campo progressista è molto frammentato. La maggioranza delle famiglie politiche che lo compongono medita di presentare un suo candidato alle presidenziali: i centristi François Bayrou, gli ecologisti Eva Joly o Nicolas Hulot, gli ex comunisti Jean-Luc Melenchon, i due partiti trotzkisti Olivier Besancenot e Nathalie Arthaud, perfino i radicali, con Bernard Tapie, e la sinistra repubblicana con Jean-Pierre Chevènement. Questa frammentazione spiega la dispersione delle intenzioni di voto nei sondaggi del primo turno. Il rischio è tanto più serio in quanto parecchi di questi candidati (Bayrou, Hulot, Melenchon), data la loro personalità, hanno un forte potenziale elettorale e uno di loro potrebbe benissimo “decollare” nella campagna elettorale, ben oltre la base di partenza (tra il 5 e il 10%), condannando il candidato socialista a una sicura sconfitta al primo turno.

La soluzione dipende dalla negoziazione di una piattaforma politica tra il partito socialista e i suoi alleati, che permetta un accordo di governo e uno sulla ripartizione dei seggi parlamentari in cambio di una rinuncia a candidarsi alle presidenziali. Anche le primarie possono essere uno strumento decisivo per contribuire alla convergenza dei progressisti: primarie allargate agli ecologisti permetterebbero di puntare a un risultato del 30% al primo turno per il candidato PS-Verdi, tutelandolo dal rischio di eliminazione. I Verdi, in maggioranza, sono ostili a questa prospettiva, ma i sondaggi invitano ad agire in questa direzione.

L’ultima difficoltà è data dalla sostanziale mancanza di credibilità della sinistra. Il suo programma non è definito e le sfide sono enormi. Il modello storico della sinistra, lo Stato sociale, è in crisi da trent’anni. D’altra parte è per questo che la crisi finanziaria del 2008, che ha colpito in pieno il modello liberista, non ha riportato al potere i socialdemocratici: il loro modello non è più un’alternativa credibile. Non si tratta semplicemente di elaborare misure programmatiche puntuali, bisogna rifondare la matrice intellettuale della socialdemocrazia, inventare una nuova fase del socialismo, in grado di tenere sotto controllo le nuove trasformazioni del capitalismo. Il progetto dovrà comunque tenere conto di un importante vincolo imposto dal debito pubblico, che tocca ormai il 90% del PIL: come si potranno coniugare in futuro austerità e investimenti? Si dovrà tenere conto anche di un altro vincolo dato dalle profonde mutazioni dell’elettorato di sinistra. L’elettorato storico della sinistra era rappresentato dalla classe operaia e dai suoi satelliti: ora si è ristretto e vota in maggioranza per la destra. Sta emergendo un nuovo elettorato progressista, che riunisce gli “outsider” della società – i giovani, le donne, le minoranze. Quale strategia elettorale va attuata davanti a queste trasformazioni sociologiche e come articolarvi un progetto politico?

Queste difficoltà spiegano il paradosso della sinistra: vittoria schiacciante nei sondaggi del secondo turno delle presidenziali, rischio di eliminazione al primo. Spiegano anche gli inediti risultati del Fronte Nazionale, accreditato di un 20-25% nelle intenzioni di voto al primo turno: il FN si alimenta della crisi dei partiti di governo, dall’impasse sarkosista agli errori dell’opposizione.

Nessuno può dire chi uscirà vincitore dalle elezioni presidenziali. Una cosa è certa, invece: travagliato dalla rottura neoconservatrice in corso, il panorama politico francese ne uscirà profondamente modificato. La politica di domani in Francia non avrà più niente a che vedere con quella di ieri.



[1] Questo modello socialdemocratico, d’altra parte, non è una specificità francese, ma europea. È radicato nella storia del continente: la cristianità medioevale,