Le pietre e l’arco

Written by Chiara Ingrao Monday, 06 December 2010 12:23 Print

Si potrebbe partire da Garibaldi, come di prammatica. Per gettare luce sul presente, scrutare le mille facce di quell’eroica spedizione, in bilico tra messaggi di libertà e rivolte contadine soffocate nel sangue, tra slancio unitario e dono di terre colonizzate a un re sabaudo. O fare un salto di un altro centinaio d’anni, per interrogarsi su una spedizione un po’ più vicina, che nel 1972 fece scendere a Reggio Calabria i lavoratori di tutta Italia, a gridare «Nord, Sud, uniti nella lotta». Quale direzione prenderebbe, nell’Italia malata del nuovo millennio, una spedizione che volesse resuscitare quegli slanci?

 


«Se Armilla sia così perché incompiuta
o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un
capriccio, io lo ignoro». (Italo Calvino, Le città invisibili)

Si potrebbe partire da Garibaldi, come di prammatica. Per gettare luce sul presente, scrutare le mille facce di quell’eroica spedizione, in bilico tra messaggi di libertà e rivolte contadine soffocate nel sangue, tra slancio unitario e dono di terre colonizzate a un re sabaudo. O fare un salto di un altro centinaio d’anni, per interrogarsi su una spedizione un po’ più vicina, che nel 1972 fece scendere a Reggio Calabria i lavoratori di tutta Italia, a gridare «Nord, Sud, uniti nella lotta». Quale direzione prenderebbe, nell’Italia malata del nuovo millennio, una spedizione che volesse resuscitare quegli slanci?

Quarant’anni fa si trattava di rispondere a una rivolta torbida, disperata e rabbiosa, provocata dalla scelta del governo di assegnare il capoluogo ai vicini-rivali di Catanzaro, e cavalcata dai neofascisti per «bruciare questa oscena democrazia». Oggi, l’uso eversivo del localismo echeggia all’estremo opposto della penisola, e con protagonisti ben diversi. Evasori fiscali invece che disoccupati, riti celtici invece che molotov, e al posto delle barricate porte blindate, a tenere lontani gli intrusi dalle villette ornate di ulivi secolari, strappati di nascosto alla rossa terra di Puglia. C’è questo benessere assediato e ansioso dietro agli inviti a pulirsi il culo con il tricolore, alla scuola pubblica di Adro marchiata a fuoco dai simboli di partito, alla regressione dall’italiano ai mille dialetti da osteria; come dietro al fiorire di consensi per i partiti xenofobi, perfino negli angoli più civili d’Europa.

È una sfida globale: vogliamo parlare anche di questo? Ci sono cupe rassomiglianze fra i populismi identitari che lacerano le identità nazionali da un angolo all’altro del pianeta: fra l’America gretta e rurale che brucia il Corano e i maiali italiani portati a pascolare sul terreno su cui deve sorgere una moschea; fra la rinascita del nazionalismo indù nella democratica India e la xenofobia anti-immigrati nel Sudafrica di Mandela; fra i barbuti fautori di una “purezza religiosa” marchiata sul corpo delle donne a suon di fustigazioni e le orde che nei Balcani degli anni Novanta praticavano con la stessa sistematica ferocia gli stupri sui corpi di donna e lo stupro delle città, luoghi “impuri” della mescolanza fra religioni, fra culture, fra etnie.

«La guerra attuale non è una guerra tipicamente jugoslava» scriveva nel 1992 la filosofa croata Rada Ivekovic´ «ma una guerra europea: ripropone un gesto di emarginazione, che è tipicamente europeo ». Ma quanti allora, in Europa o in Italia, erano disposti a guardarsi negli occhi, nello specchio di Srebrenica? Vent’anni dopo, senza bisogno di versare una goccia di sangue, la pulizia etnica rispunta nella Francia dei diritti umani con le espulsioni in massa dei rom, e l’Italia plaude. Noi alle deportazioni ancora non ci siamo arrivati, ma sui respingimenti in mare di chi osa l’audacia della speranza andiamo alla grande, e per i rom possiamo vantare un bel po’ di sgomberi, in non-luoghi sorvegliati come campi di prigionia o in angoli oscuri delle periferie. Le periferie: o vogliamo chiamarle banlieues? Terre ignote, che definiamo sbrigativamente “degradate”. Non è Italia anche quella?

«Il mio background mi ha insegnato a saper distinguere l’essere dall’apparire», ha scritto della sua Tor Bella Monaca la ventisettenne Manuela Maiolatesi, in polemica con il progetto di Alemanno di demolire il quartiere.1 Nascono proprio in quei background di frontiera, creativi e drammatici insieme, nuove generazioni di italiane e italiani che solo il razzismo e l’ignoranza, confortati da una legge arcaica ancora fondata sul diritto del sangue, possono continuare a considerare “stranieri”. Nella mia città parlano il romano greve degli adolescenti di borgata e incespicano sull’italiano né più né meno dei loro coetanei bianchissimi, debitamente forniti di passaporto nazionale. A differenza di questi ultimi, però, nei rapporti col mondo non incespicano affatto: parlano correntemente francese e arabo, o inglese e spagnolo, portoghese, somalo…

«Soomaly baan ahay, come la mia metà che è intera», dichiara Cristina Ali Farah, in apertura del suo emozionante romanzo “Madre piccola”. «Io sono somala»: ma Cristina è nata a Verona, da una madre italiana. Scrive in un italiano ardito e sperimentale, punteggiato qua e là dall’irrompere della lingua paterna. Più leggi, più senti che è declinata proprio nel vocabolario poliglotta di questi nuovi intellettuali trentenni l’esile speranza di ricostruire una cultura nazionale non più protesa solo a guardarsi l’ombelico: dai toni tragici del napoletano Saviano alla graffiante ironia del borgataro Celestini, dalla lucidità della sarda Michela Murgia nell’esplorare la ferocia dei call center o gli enigmi del fine vita, alle esplorazioni parallele della mugellina Simona Baldanzi nel mondo dei cantieri TAV e in quello di sua madre operaia, negli anni Sessanta. Fino a Milano, alla Milano che si vorrebbe tutta cinica e leghista, in cui risuona la scelta controcorrente di Benedetta Tobagi, quando rifiuta di consegnare la palma di protagonisti degli anni Settanta agli assassini di suo padre, per restituire invece centralità alla vita e alle parole di lui, e di quelli come lui: «parole che cantassero l’elogio del limite, che fa attenti all’altro, alla realtà delle cose, […] per trasformare e costruire piuttosto che distruggere».

Temi e accenti diversi, nei diversi brandelli di storia d’Italia. Ma voci italiane, tutte: profondamente italiane, anche quando sono meticce. «Sono cosa? Sono chi?», scrive Igiaba Scego, in “La mia casa è dove sono”. «Sono nera e italiana. Ma sono anche somala e nera. Allora sono afroitaliana? Italoafricana? Seconda generazione? Incerta generazione? Meel kale? Un fastidio?».

Il fastidio è una bandiera dell’Italia fino a ieri orgogliosa culla di mille diverse gastronomie regionali e oggi pronta a considerare intollerabile ogni odore imprevisto di spezie, diffuso dalla cucina della porta accanto. «Padroni in casa nostra» grida a gran voce questa Italia cafona, dimentica che nella nostra tradizione nazionale una brava padrona di casa è quella che sa accogliere con grazia gli ospiti, non quella che sbatte loro la porta in faccia. «L’ospite è sacro» dice quella stessa antica tradizione: proprio quella nostra, quella che si grida di voler difendere, giudaico-cristiana o greco-romana che sia. Vogliamo parlare di Ulisse? O di Gesù? O del viandante delle fiabe, dietro cui si nasconde una fata in incognito? Più è misero e infreddolito, più è irriconoscibile e bisognoso di aiuto, più è portatore di verità preziose, l’ospite ignoto della nostra tradizione, delle nostre radici.

Forse è proprio l’ingombro delle radici a far scattare il fastidio e le paure più profonde. Non la paura dell’altro, ma di noi stessi. Di ciò che siamo stati, invasori e invasi, meticci e migranti, veneti e siciliani allo stesso modo; di ciò che potremmo tornare a essere. La paura del declino, di essere travolti e ricacciati indietro, senza capire nemmeno bene verso cosa e da chi.

Una paura insidiosa, che mina le relazioni fra le comunità, fra le persone, fra i sessi. Le donne, si dice, hanno paura dello straniero stupratore, in agguato nelle strade più buie. Meno si dice degli aggressori in costante ascesa, che le loro violenze le consumano tranquillamente in casa, nella luce soffusa dei salotti. Davvero vogliamo raccontarci che sono solo pakistani? Bastano le statistiche a sbatterci in faccia che è tutto il contrario. E dietro le statistiche spunta minaccioso un altro volto della paura italiana. Brucia nelle viscere dei violenti, ma sotto sotto perseguita anche i più miti, tanto più oscura e indicibile quanto più cresce la volontà femminile di prendere in mano la propria vita: gli uomini italiani hanno paura delle donne, e di loro stessi.

Con buona pace del nostro assatanato presidente del Consiglio la patetica macchietta del latin lover è stata spazzata via da decenni, e con lei anche i miti dell’uomo forte e del pater familias – ma cosa resta che consenta di riconoscersi uomini senza vergogna, nell’Italia del 2000? Quanto gioca anche questa crisi dell’identità maschile, nella feroce e impossibile ricerca di superiorità che anima le aggressioni ai gay e i raid razzisti, il celodurismo e le bande disperate di giovani maschi? Quanto il bisogno altrettanto disperato di autoaffermazione femminile nelle bande di ragazzine che fanno la fila per un posto di velina?

All’antica fragilità della nostra identità nazionale nella sfera pubblica si somma oggi la confusione più totale in tutte le sfere che un tempo davano connotati “nazionali” all’identità e alla vita privata. Le mamme italiane restano iperprotettive ma non sono più casalinghe prolifiche e cuoche provette, i padri italiani continuano a non alzare un dito in casa ma non sono più padri padroni, e gli uni e le altre sembrano rifuggire con terrore da ogni ruolo educativo, sostituito dall’illusione che la felicità e il benessere dei figli si possano acquistare al supermercato, come dicono gli spot. C’è anche questa mercificazione del rapporto fra le generazioni dietro allo scontro, anch’esso quasi identitario, fra chi aggredisce e chi tenta di difendere la scuola pubblica: l’unico soggetto che ancora abbia la pretesa di trasmettere valori non mercificabili, in un’Italia in cui al loro tradizionale ruolo di educatori hanno abdicato anche tutti i cosiddetti “corpi intermedi”: partiti, sindacati, parrocchie. Le grandi Chiese, protettive e oppressive come le famiglie patriarcali di un tempo, di cui erano insieme pilastro e figlie: chi di noi vorrebbe tornarci a quella forma di identità nazionale prescrittiva e gerarchica? E chi di noi si sente a suo agio oggi, quando il vuoto delle Chiese viene occupato dalle tribù?

A prima vista appare quasi una mutazione genetica: gli italiani brava gente non perdono occasione di mostrarsi incattiviti, rancorosi, stupidamente aggressivi. Anche le appartenenze più italiane per tradizione vengono brandite come clave, nel gioco tribale del noi contro loro: il municipalismo si fa secessionismo, il tifo calcistico si deforma in violenza ultrà, la fede si veste di integralismo. Ogni appello a riscoprire valori comuni cade nel vuoto, e forse non a caso: quando l’unità nazionale è lacerata da pulsioni distruttive e autodistruttive non basta l’invito alla riconciliazione per ricomporla. E meno che mai l’impossibile riconciliazione che alcuni quotidianamente predicano, fra fascismo e antifascismo, fra onesti e mafiosi, fra dignità del lavoro e sfruttatori di schiavi. Quando un paese porta al suo interno queste fratture, pensare di ricomporle rimuovendo il conflitto non è solo illusorio, è anche pericoloso, perché lascia gli individui soli con la propria rabbia, e lascia ai potenti lo spazio per manipolarla. E se invece fosse proprio nei conflitti il filo sottile che può ricucire, prima ancora che l’identità, la trama della nostra comunità nazionale frantumata e ferita? I conflitti sul lavoro, per affermare un’idea nazionale di diritti e dignità uguali per tutti. Il conflitto sull’acqua, per affermare un’idea nazionale dei beni comuni.

I conflitti nazionali sulla laicità, la cultura, la legalità, l’ambiente, la libertà femminile… Per quanto rumorose siano le tribù, non è vero che l’Italia è in preda a una guerra per bande. L’Italia è scossa ogni giorno da mille lacerazioni, da mille terremoti. Ha bisogno, per recuperare identità e dignità, di imparare a scegliere fra chi sulle scosse di terremoto ci sghignazza e ci lucra, e chi invece afferra una carriola per rimuovere le macerie, in prima persona e con altri.

È lì la risposta al localismo identitario: non nella gonfia retorica dell’inno di Mameli, ma nelle carriole dell’Aquila. Nell’affermazione sommessa, fatta con le braccia e la memoria delle persone in carne e ossa, che nessuna nazione potrà mai rinascere trasportando Milano Due in Abruzzo, tramutando il territorio in una fila di condomini tutti uguali, privi di storia ma ben forniti di lavastoviglie. Che le energie per una ricostruzione nazionale già ci sono, ad aver la pazienza di riconoscerle. Ci sono nei vicoli straziati dell’Aquila e di Scampia, ma anche in quelli intatti di Mantova, dove ogni anno centinaia di migliaia di italiani pagano per frugare fra i libri, e parlare di letteratura. Ci sono nelle piazze di chi scende in piazza, ma anche in quelle dei borghi un tempo spopolati della Locride, rinati grazie alla scelta di accogliere rifugiati e migranti, per reinventare con loro attività economiche e saperi tradizionali che parevano perduti.

Non è inevitabile che tutte le nazioni moderne siano lacerate dallo scontro identitario fra una cultura urbana aperta e cosmopolita e un mondo provinciale chiuso e regressivo, attanagliato dalla paura. C’è un’altra realtà, nella nostra nazione e nelle nostre stesse comunità locali, in Lombardia come in Puglia, in Toscana come in Veneto. Centinaia di comunità, impegnate non a costruire muri, ma ad abbatterli; a sperimentare nuove forme di convivenza sia nelle contrade di casa propria che scavalcando i confini, per costruire solidarietà nei Balcani o in Africa. L’Italia dei Comuni non è una macchietta, da mettere in scena come grottesca disputa fra coda alla vaccinara e polenta, opportunisticamente rappacificate da un’identità nazionale di plastica. E l’orgoglio di essere italiani, quotidianamente ferito ogni volta che apriamo i giornali, più che aggrappandosi al tricolore si può tentare di ritrovarlo aggirandosi per queste nostre città, invisibili ai media eppure reali: alla riscoperta di un sapore o di uno scorcio di paesaggio, della facciata di una chiesa o di un gruppo di persone appassionate, pronte a dare e a darsi in modi che nessun telegiornale racconta. È il paradosso dell’Italia, di quel suo impasto antico di natura e di cibo, di generosità e di meraviglie dell’arte: che proprio su questi luoghi comuni, così triti e ritriti, si giocano le moderne sfide su ciò che siamo e ciò che vogliamo essere, su cosa abbiamo in comune e cosa ci divide.

«L’identità non è data una volta per tutte, si costruisce e si trasforma durante tutta l’esistenza», ci ricorda il libanese Amin Maalouf, in un libro di denuncia contro le identità omicide, perché ridotte a una sola appartenenza. L’identità italiana, inafferrabile e umiliata, meravigliosa e sordida, ci interroga nel profondo, dalle nostre città invisibili come da quelle che narra Calvino. In ciascuna, il viaggiatore Marco Polo scopre un volto diverso del mondo, e mentre lo svela a Kublai Kan impara a comprendere i campielli della sua Venezia, ad ascoltare la voce del suo passato, a soffermarsi pensoso di fronte a un ponte, per descriverne ogni pietra.

«Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?» chiede Kublai Kan. «Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra» risponde Marco «ma dalla linea dell’arco che esse formano». Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa». Polo risponde: «Senza pietre non c’è arco».

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