L'università dall'utopia alla scienza

Written by Giancarlo Schirru Friday, 29 February 2008 16:21 Print

Le diverse voci che intervengono nel dibattito incessabile sul sistema universitario italiano sono concordi su una premessa: l’università, così com’è, non funziona. Ma a chi scrive è capitato più volte di ascoltare una sentenza ben più drastica, formulata da parte di dirigenti politici, sindacalisti o persone legate al mondo imprenditoriale: l’università italiana – si dice – così com’è non serve a niente. Non stupisce quindi che, da tale punto di vista, ogni intervento, ogni risorsa, ogni riforma vengano mentalmente rubricati tra le voci degli sprechi di denaro e di energie. Una conclusione così ultimativa è il frutto – crediamo – di una presupposizione non dimostrata, che porta ad assumere comportamenti sbagliati e dannosi. La presupposizione incriminata è quella per cui un sistema universitario è utile, serve al paese, se le sue energie sono spendibili strumentalmente.

Questa posizione può essere declinata in modi diversi, ma ha fondamentalmente portato, dalla grande crisi della comunità nazionale esplosa nel 1991, all’estensione incongrua al campo della scienza di un paradigma economico per cui i pregi e i difetti di un sistema dovrebbero essere misurati in termini di rapporto tra costi e benefici, tra domanda e offerta, e in cui ci si attende il benefico intervento della concorrenza a discriminare il buono dal cattivo. Chi si colloca in questa posizione non sa, o finge di non sapere, che nessun sistema universitario al mondo funziona in questo modo. O meglio, nessun vero sistema universitario di livello internazionale, quale quello che un paese come l’Italia aspirerebbe ad avere. Funzionano così le università che svolgono nelle loro realtà nazionali un ruolo residuale: per esempio in gran parte dei paesi sudamericani, nei paesi arabi, e ormai anche in Europa orientale, il sistema universitario serve fondamentalmente a formare i quadri tecnici e intermedi (burocrazia, insegnanti ecc.). Le vere classi dirigenti si formano all’estero: le enormi risorse patrimoniali di cui godono, in queste realtà, le classi alte (non solo in rapporto ai ceti popolari, ma anche in termini assoluti se paragonate ai patrimoni privati del primo mondo) consentono alle élite economiche e politiche di mandare i propri figli a studiare negli Stati Uniti o in Europa occidentale, dove esiste l’«università vera», e da dove poi tornano in patria gli individui destinati ai ruoli di governo e di alta dirigenza delle imprese. Il risultato è che gli atenei di quei paesi sono simili a quelli che, negli Stati Uniti, vengono chiamati «università didattiche »: non ci sono grandi biblioteche o laboratori, non ci sono forti tradizioni scientifiche, o se c’erano si stanno spegnendo, la ricerca è intesa di fatto come aggiornamento del corpo docente rispetto ai progressi che le discipline hanno raggiunto nei paesi più progrediti, in modo da poter offrire una didattica non troppo staccata dai risultati recenti della scienza. Quando in queste realtà si formano studenti brillanti, che manifestano la vocazione e l’intenzione di continuare a fare ricerca, questi si trasferiscono all’estero per compiere un periodo più o meno lungo nelle realtà universitarie dei paesi avanzati, e dove si compie il loro reale tirocinio all’attività di studiosi.

Ciò che abbiamo finora vagamente definito come «università vera» risponde a grandi linee, ovunque esista, in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, in Australia, e ora sempre di più anche in alcuni paesi emergenti, all’unico modello di università finora elaborato dalla civiltà moderna: ovvero quello che si sviluppò originariamente nella Prussia del primo Ottocento, e che viene generalmente chiamato università humboldtiana. Il tratto caratterizzante di tale modello è la congiunzione di didattica e ricerca: la base di legittimazione del sistema universitario non è nella sua capacità di «servire a qualcosa», ma è quella di sviluppare l’alta cultura e la scienza. Le classi dirigenti, nei paesi avanzati, sono cioè consapevoli del fatto che lo sviluppo delle nazioni da loro dirette dipende in misura non secondaria dalla forza scientifica della comunità accademica locale, e questa non si misura in termini di trasferimento diretto delle scoperte scientifiche al mondo produttivo, ma dalla sua robustezza culturale, dalla sua capacità di sviluppare le singole discipline scientifiche, dalla presenza di studiosi in tutti i campi del sapere moderno, dal suo prestigio internazionale.

Le discipline che vengono impartite e coltivate sono tutte quelle basate sul metodo scientifico, ovvero sulla verificabilità dei risultati, la pubblicità delle ricerche, la possibilità di un dibattito basato su argomenti e controargomenti attorno alle singole posizioni. Si insegna quindi l’astronomia, ma non l’astrologia, malgrado questa darebbe tanti posti di lavoro nella stampa d’informazione, mentre quella apre solo carriere nell’università e nei centri di ricerca. Il rapporto tra scienza e morale, e quindi tra scienza e società, è basato sull’etica del metodo sperimentale: ovvero lo studioso è tassativamente tenuto a non falsificare i dati dei suoi studi, a non plagiare le ricerche altrui, a divulgare tempestivamente le sue scoperte; a rendere quindi possibile il dialogo all’interno della comunità scientifica. Queste regole sono nel complesso rispettate – salvo le ovvie eccezioni di comportamenti sleali da parte di individui o gruppi in genere sanzionati dalla restante comunità scientifica. Per fare un solo esempio, negli ultimi anni le ricerche sul genoma hanno ottenuto risultati impensabili fino a poco tempo fa grazie alla tempestiva pubblicazione di tutti i risultati in tutto il mondo, malgrado la riservatezza di alcune scoperte avrebbe dato innegabili vantaggi materiali ai loro autori. In questo modello di università il rapporto con lo sviluppo economico c’è ed è fortissimo, ma avviene per l’effetto dei grandi numeri, e nel tempo: ciò che nell’immediato appare come una scoperta disinteressata di un gruppo di ricerca, si rivela poi, col crescere del livello culturale generale e della complessità degli apparati produttivi, la base dell’innovazione tecnica.

In questa prospettiva non esiste la distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata: la ricerca semplicemente non ha aggettivi. La comunità scientifica autonomamente si pone domande, e lavora per fornire risposte. Tutto qui. Le altre chiavi di volta del sistema humboldtiano sono quindi costituite dalla libertà di ricerca e di insegnamento, dal finanziamento pubblico dell’intero sistema, dal principio per cui i competenti sono gli unici a poter emettere giudizi sul lavoro scientifico svolto nelle proprie discipline, a giudicare cioè della scientificità delle ricerche altrui. La valutazione del merito scientifico, insomma, non è equiparata all’azione del mercato: se in questo tutti i consumatori di un prodotto sono anche i giudici del suo valore, e quindi rispondono razionalmente al rapporto tra costo e beneficio, determinando la selezione del migliore, nella scienza solo chi sa è in grado di giudicare, e quindi va messo in grado di emettere il suo giudizio senza interferenze.

Abbiamo detto che tutti i sistemi avanzati rispondono a grandi linee a questo modello: a grandi linee appunto. Perché l’università humboltdiana ha subito adattamenti alle particolarità nazionali: così ad esempio in Francia, dove esiste una forte tradizione di centralismo statale, questo si riflette anche nel sistema universitario; negli Stati Uniti, dove invece è molto forte la tradizione associativa libera e privata dei cittadini, anche gli atenei sono plasmati su di essa. Non si creda però che, per restare all’esempio statunitense, ciò voglia dire che il sistema universitario non sia finanziato dai poteri pubblici: con la morale flessibile e pragmatica che caratterizza la cultura americana, l’imponente massa di risorse che si riversa sugli atenei assume nomi di comodo, solo apparentemente utilitaristici. Così – tanto per fare un esempio – viene spesso citato il fatto che le ricerche di grammatica generativa furono ampiamente finanziate negli anni Cinquanta e Sessanta attraverso massicci fondi militari: ovviamente il committente non si attendeva alcun risultato immediatamente utile da tali ricerche, ma aveva cura di far crescere in tutti i campi il prestigio di atenei che nel frattempo sviluppavano risultati nella fisica nucleare e nelle comunicazioni elettroniche.

L’Italia è investita da circa quindici anni da una grande crisi di identità: sono ormai aperte in permanenza due strade profondamente divergenti per il futuro del paese. Una è quella del suo ridimensionamento e della sua deindustrializzazione: se questa via verrà imboccata definitivamente non ci sarà più bisogno in Italia dell’«università vera».

Assomiglieremo quindi a quei paesi intermedi che hanno in casa solo un’università strumentale: questa soluzione viene indicata non a caso da ambienti imprenditoriali e sindacali, e da quei politici che si sono formati maggiormente a contatto con il sindacato e con l’impresa – le realtà che avvertono più immediatamente i segni di contrazione delle capacità produttive nazionali. Il modello che viene additato per l’università italiana è quello della formazione aziendale, ritenuto giustamente – in questo ordine di idee – più idoneo alle esigenze di formazione della forza lavoro intermedia e alle esigenze di finanziamento indiretto del sistema produttivo. I grandi giornali nazionali si sono fatti portavoce di questo punto di vista, grazie anche alla compiacenza di tanti professori-editorialisti a quanto pare impegnati ad anticipare un futuro in cui la ricerca non sarà fatta più in casa ma ci limiteremo a tradurre le scoperte effettuate altrove: questi politologi ed economisti quindi non solo hanno smesso di studiare e si limitano a rifriggere in casa nostra le ricerche dei loro colleghi stranieri, ma, avendo ormai tanto tempo libero, sfornano un editoriale a settimana su un quotidiano per «dare l’esempio» di quali debbano essere un domani le pubblicazioni di un accademico. Uno degli effetti di questa martellante azione si vede negli orientamenti delle immatricolazioni: i corsi delle discipline più strutturate, come matematica, fisica, filosofia, vedono le loro iscrizioni ridotte al lumicino. Sono ritenuti troppo difficili e astratti dalle famiglie, poco utili al futuro dei loro figli; poco redditizi nel bilancio tra i costi in termini di impegno e di studio, e i benefici in termini di possibilità future. Pertanto, tradizioni scientifiche nazionali che hanno una posizione rilevante nel mondo, e con una storia gloriosa alle spalle, rischiano oggi di spegnersi.

La seconda via che resta aperta al paese è quella di un ripensamento dell’identità della nazione, e la ricerca di un ruolo dell’Italia nel mondo di domani. Questa strada passa oggi per due incroci obbligati: la ristrutturazione del sistema industriale nazionale, soprattutto della grande impresa, attorno a un progetto forte di riconversione. E, dall’altra parte, la rivitalizzazione di un sistema universitario nazionale oggi disorientato e demotivato. Questa svolta, se mai avverrà, sarà il risultato di scelte inequivoche che matureranno nella più generale comunità della nazione. Qualche segno premonitore in questa direzione comincia ad affacciarsi, sia nel sistema politico, sia in quello della grande impresa. Ma se l’Italia ritroverà il desiderio di essere un grande paese, e si accorgerà quindi della necessità vitale di un’«università vera», scoprirà che esiste ancora oggi, malgrado tutto, una comunità scientifica nel paese, composta in gran parte da quegli universitari che hanno continuato, in condizioni di forte delegittimazione pubblica, a procedere nei propri studi, a pubblicarne i risultati, a insegnare. Quello sarà l’unico punto d’appoggio su cui si potrà far leva per ripartire.