Dalla Costituzione europea al Trattato di riforma. Rilancio o restaurazione?

Written by Nicola Verola Friday, 29 February 2008 16:14 Print

Il Consiglio europeo del giugno 2007 ha segnato una data importante per l’Unione europea. Dopo due anni di «pausa di riflessione», i capi di Stato e di governo dell’UE hanno raggiunto un accordo sulla ripresa del negoziato istituzionale, superando l’impasse determinata dai referendum francese e olandese sulla Costituzione europea.

È bene premettere fin da subito che, date le circostanze, si è trattato di un risultato positivo. L’alternativa, infatti, non era fra un accordo meno ambizioso e la Costituzione. L’alternativa era fra «salvare il salvabile» e niente. La presidenza tedesca ha svolto in maniera impeccabile il suo compito di «pastore» di un gregge indisciplinato. Smentendo i pessimismi della vigilia, è riuscita a far accettare al Consiglio europeo un mandato «chiuso» ed estremamente dettagliato che, salvo sorprese, dovrebbe portare a una chiusura della Conferenza intergovernativa (CIG) sotto la presidenza portoghese.

In prima approssimazione, i termini dell’accordo possono essere sintetizzati come segue: la rinuncia agli aspetti di carattere simbolico della Costituzione in cambio della preservazione delle sue principali innovazioni di sostanza. Do ut des che si conclude con un sostanziale pareggio, se lo si guarda dal punto di vista strettamente giuridico, ma che non può essere ridotto a una mera operazione di restyling. Il passaggio dal Trattato costituzionale (TC) al Trattato di riforma (TR) – come verrà chiamato il nuovo trattato – ha infatti una serie di importanti implicazioni politiche. Vale la pena cercare di analizzarle in dettaglio, prendendo le mosse dalle innovazioni contenute nel mandato della CIG.

«Primum vivere»: il ritorno alle «realizzazioni concrete» Lo scopo principale della Costituzione era sottoporre a una revisione complessiva – una sorta di «tagliando» politico-istituzionale – i meccanismi dell’UE allargata. Un’esigenza più che comprensibile dopo cinquant’anni di onorato servizio dei Trattati di Roma e soprattutto dopo una serie di allargamenti che hanno portato il «club» europeo dagli originari sei membri agli attuali ventisette. L’obiettivo non è stato perso di vista dall’accordo sul mandato della CIG. Sulla base di questo accordo, infatti, quasi tutte le innovazioni del Trattato costituzionale che miravano a migliorare il funzionamento dell’Unione allargata verranno riprese anche nel Trattato di riforma.

È il caso, innanzitutto, delle disposizioni volte a semplificare e rendere più intelligibile la struttura dell’Unione. Particolarmente importante, da questo punto di vista, è che il TR mantenga una delle maggiori conquiste introdotte dalla Convenzione, prima, e dalla CIG 2003-04, poi: la personalità giuridica unica. Viene quindi confermato il superamento dell’attuale «schizofrenia» fra Comunità e Unione, fonte di non poche ambiguità e disfunzioni, in particolare per quanto riguarda la proiezione dell’Unione europea verso l’esterno. E, soprattutto, viene ribadito quello che fin dai tempi del Gruppo di lavoro sulla semplificazione della Convenzione è il principale portato della personalità unica: il superamento della struttura a pilastri dell’Unione. Come conseguenza, i Trattati non saranno più articolati, come avviene attualmente, in un Trattato sull’Unione europea, che riguarda il secondo e il terzo pilastro, e in un Trattato che istituisce la Comunità europea, che attiene invece al primo. La nuova articolazione ruoterà invece attorno a due trattati: nel primo, che continuerà a chiamarsi Trattato dell’Unione europea (TUE), verranno incluse quasi tutte le principali disposizioni di carattere istituzionale; mentre il secondo, il Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFU), conterrà prevalentemente le disposizioni di dettaglio sul funzionamento delle istituzioni e sulle politiche.

Certo, si arriverà a questa soluzione in maniera un po’ tortuosa. Si è deciso di abbandonare la strada della codificazione costituzionale e di tornare al metodo emendativo classico di revisione dei trattati. Il Trattato di riforma sarà quindi costituito da un’elencazione delle modifiche da apportare ai testi attuali.

Qualcosa di assolutamente incomprensibile per i non addetti ai lavori. Ma questa perdita di trasparenza, in realtà, sarà provvisoria, dato che, una volta entrato in vigore il Trattato di revisione, sarà possibile elaborare delle versioni consolidate dei Trattati TUE e TFU. Il risultato finale sarà abbastanza vicino alla proposta di riarticolazione del Trattato costituzionale elaborata nei primi mesi del 2007 dal Gruppo di lavoro «Amato-Ziller».1

Carattere prevalentemente funzionale hanno anche le innovazioni riguardanti le istituzioni, che il TR riprende quasi integralmente dalla Costituzione. È il caso, ad esempio, della creazione di un presidente elettivo (per due anni e mezzo) del Consiglio europeo, che dovrebbe porre fine al turbinoso alternarsi delle presidenze e dare maggiore stabilità ai lavori di quest’organo. Sorge il dubbio se un «generale senza truppe», per quanto autorevole e competente, sarebbe riuscito a condurre il forcing negoziale che ha consentito alla Cancelliera Merkel di incassare l’accordo sul mandato. Si tratta ovviamente di una domanda destinata a rimanere senza risposta.

Alla stessa logica risponde anche l’aver posto un argine alla deriva assembleare della Commissione, riducendo il numero dei Commissari ai due terzi degli Stati membri. Grazie a questa e ad altre innovazioni, l’esecutivo comunitario dovrebbe «recuperare la sua dimensione politica, l’indipendenza dai governi e la sola responsabilità verso il Parlamento».2 Al di là degli aspetti nominalistici, il nuovo Trattato dovrebbe preservare anche l’innovazione istituzionale più significativa prevista dalla Costituzione: la creazione di un ministro degli esteri – ribattezzato Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza – che sarà al tempo stesso vicepresidente della Commissione e presidente del consiglio relazioni esterne dell’Unione. L’Alto rappresentante avrà un portafoglio di tutto riguardo, dato che erediterà le competenze, le risorse e le strutture che attualmente fanno capo a Javier Solana (presso il Consiglio) e a Benita Ferrero-Waldner (presso la Commissione). Prerogative che dovrebbero consentirgli di dare maggiore coerenza ed efficacia all’azione esterna dell’Unione.

Per quanto riguarda il Consiglio, infine, più ancora che le presidenze collegiali e la distinzione fra consiglio affari generali e consiglio relazio- ni esterne, conterà la quasi generalizzazione del voto a maggioranza, che è la vera misura dei progressi compiuti sul fronte dell’integrazione. In questo quadro la nota stonata è il compromesso raggiunto sul metodo di voto, al termine di lunghi ed estenuanti negoziati con la Polonia. Già la CIG 2003-04 aveva considerevolmente complicato il criterio della doppia maggioranza – degli Stati membri e della popolazione – elaborato dalla Convenzione. La CIG 2007 rasenta il grottesco, con l’introduzione di nuovi periodi transitori e il rafforzamento dei meccanismi di tipo «Iaonnina».3 È un esito paradossale se si pensa che l’argomento addotto a favore della doppia maggioranza durante la Convenzione era il suo carattere più trasparente e «costituzionale» rispetto al voto ponderato di Nizza.

Oltre che sul fronte delle istituzioni, la CIG 2007 dovrebbe difendere in maniera abbastanza onorevole l’eredità della Costituzione anche sul fronte delle politiche. Certo, vi sono alcuni arretramenti. Il principale, probabilmente, riguarda la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), che resta codificata nel TUE. Questo non vuol dire, però, come è stato sostenuto, che il Trattato di riforma preservi il secondo pilastro, perché, come abbiamo visto, la personalità giuridica unica abolisce di per sé tutti i pilastri. Piuttosto, il TR sottolinea, ancor più della Costituzione, la specificità della PESC, con una serie di disposizioni particolari e con una dichiarazione ad hoc che verrà allegata ai Trattati. È un peccato, in un’ottica europeista, che oltre alla «cintura» (delle disposizioni restrittive che erano già previste dalla Costituzione) si siano volute aggiungere anche queste «bretelle». Bisogna tenere presente, però, che le potenzialità di sviluppo della PESC dipenderanno, prima ancora che da questi distinguo, dal modo in cui l’Alto rappresentante riuscirà a far emergere una volontà politica comune sui grandi dossier dell’attualità internazionale. Ed è un fatto che le prerogative di questa figura rimarranno sostanzialmente invariate.

Non sembra troppo negativo, poi, il bilancio sulle politiche dell’area Giustizia e affari interni. Per venire incontro alle red line britanniche è stato necessario introdurre alcuni opt-out in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia; tuttavia, l’aspetto qualificante della Costituzione era il trasferimento dell’attuale terzo pilastro sotto il pilastro unico e questo risultato è stato sostanzialmente mantenuto. Inoltre, non si può affermare che l’accordo abbia introdotto arretramenti sul fronte delle altre politiche UE, visto che non sono venute meno le nuove basi giuridiche istituite dalla Costituzione e non sono state ritoccate quelle per le quali era previsto il passaggio dall’unanimità al voto a maggioranza qualificata. In alcuni casi si sono anzi addirittura registrati dei miglioramenti, con il rafforzamento delle basi giuridiche che riguardano l’ambiente e l’energia. Se non altro, l’aver raggiunto un accordo su tutti questi punti dovrebbe aver messo una volta per tutte una pietra sull’oziosa distinzione fra «Europa dei risultati» e «Europa delle istituzioni» che era stata proposta durante la pausa di riflessione per suggerire di voltar pagina e accantonare la Costituzione. È evidente, infatti, che, al di là delle buone intenzioni, senza meccanismi istituzionali adeguati è impossibile raggiungere dei risultati. Lo conferma la sostanziale paralisi cui l’Unione è condannata nei settori in cui vige il voto all’unanimità.

Pur non avendo nulla di rivoluzionario, le innovazioni cui abbiamo accennato dovrebbero sbloccare l’Unione e consentirle di riprendere la strada delle realizzazioni concrete, secondo i dettami classici del metodo Monnet.4 Nei prossimi anni, il suo banco di prova saranno: le nuove frontiere delle politiche, a cominciare da quella ambientale ed energetica; la riflessione sul futuro del Modello sociale europeo e su come assicurare la competitività dell’Unione nel mondo globalizzato; la ridefinizione delle priorità finanziarie e della governance economica della UE; il ruolo dell’Europa nel mondo post bipolare e le sfide della sicurezza interna e internazionale; l’utilizzo degli strumenti della transformational diplomacy5 nel contesto della politica di vicinato e via dicendo. Si tratta di un programma di lavoro ambizioso e impegnativo, ma non irrealistico per un’Unione che si doti di nuove regole di funzionamento e che soprattutto recuperi fiducia nel proprio futuro.

Rinunce simboliche o rinunce sintomatiche? Tutto bene quel che finisce bene, quindi? Non esattamente o, almeno, non del tutto. La Costituzione non si proponeva soltanto di dotare l’Unione del minimum politico-istituzionale necessario per svolgere i suoi compiti. Aveva anche obiettivi più ambiziosi, il principale dei quali era assecondare un graduale distacco del processo di integrazione dalla logica funzionalista delle realizzazioni concrete e promuovere, anche con misure di carattere simbolico, l’identificazione dei cittadini con la res publica comunitaria. Il primo passo verso forme più evolute – e non meramente utilitaristiche – di adesione al progetto europeo.6 Era questa la logica della scelta della Convenzione di adottare una forma e una simbologia «costituzionale» per il nuovo testo di riferimento dell’Unione. Alcuni commentatori hanno voluto vedere proprio in questa forzatura7 l’origine delle disavventure del TC, dato che, senza la simbologia costituzionale, pochi Stati membri, e sicuramente non la Francia e l’Olanda, avrebbero sentito il bisogno di ratificarlo per via referendaria. Sul piano della ricostruzione degli eventi, potrebbero avere in parte ragione. Tuttavia, sarebbe fuorviante bollare la scelta della Convenzione come un semplice errore tattico. Al contrario, dietro la mimesis costituzionale c’era un autentico progetto politico: quello di promuovere, a partire dalla sfera dei simboli, un mutamento della percezione del processo di integrazione da parte dei cittadini europei. Un mutamento che, in prospettiva, avrebbe dovuto portare alla nascita di un autentico sentimento di fedeltà repubblicana nei confronti dell’Unione europea. Proprio su questo terreno, però, l’UE ha dovuto fare marcia indietro. Per salvare le disposizioni di carattere funzionale, che abbiamo brevemente illustrato nelle pagine precedenti, si è dovuto pagare quello che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito un prezzo elevato in termini di «riduzione delle ambizioni costituzionali dell’Unione» e di «affievolimento della forza e leggibilità del progetto europeo».8 Il primo arretramento è stato di carattere metodologico. Piaccia o no, la Convenzione europea aveva portato una ventata di aria fresca nei processi di revisione dei trattati internazionali e aveva consentito di accumulare un patrimonio costituzionale che nessuna CIG avrebbe potuto, da sola, elaborare. La CIG 2003-04 aveva poi affinato il legato della Convenzione senza stravolgerlo nella sostanza.

Con il Trattato di riforma, invece, si torna ai metodi tradizionali. Lo si fa sul piano delle forme (tant’è che, come si è visto sopra, il TR non assumerà l’aspetto di un trattato di codificazione ma quello, classico, di un trattato emendativo) e lo si fa sul piano delle procedure, dato che i negoziati si svolgeranno secondo le modalità tradizionali delle conferenze intergovernative. Ci sono alcune buone ragioni per questo ritorno al passato. La prima è che la CIG 2007 non deve fare nulla di nuovo, o meglio, deve fare il meno possibile. Il suo incarico è di riversare l’accordo già rag- giunto dai capi di Stato e di governo in un nuovo testo, che appaia quanto più possibile tecnico e anodino, con l’obiettivo dichiarato – ed è questa la seconda ragione per cui si torna al passato – di scongiurare il rischio di nuovi, devastanti fallimenti referendari. L’accordo tacito fra i leader europei è di sottoporre il nuovo testo alla sola ratifica parlamentare. Per riuscirci occorre però che i negoziati rimangano quanto più possibile sottotraccia – l’esatto contrario di quanto era nelle intenzioni della Convenzione – e che il loro prodotto finale appaia, anche sul piano della presentazione, grigio e politicamente poco controvertibile. Insomma, l’obiettivo è di non surriscaldare gli animi. Peccato che, così facendo, non si riscaldino nemmeno i cuori. Che la presidenza tedesca abbia deciso di percorrere questa strada è, tutto sommato, comprensibile. L’obiettivo, in questa fase, è salvare il salvabile e portare a casa in maniera discreta almeno una parte del patrimonio di innovazioni contenute nella Costituzione. Ma c’è da sperare che sia l’ultima volta che l’Unione debba indossare il mantello di Sigfrido per raggiungere i suoi obiettivi (per quanto lodevoli) al riparo da sguardi indiscreti.

Dalla decisione di sterilizzare il Trattato di riforma da tutti gli aspetti che possano ricordare una costituzione discendono anche una serie di scelte che appartengono alla sfera dei simboli. Alcune hanno carattere terminologico. È il caso, ad esempio, del titolo del nuovo trattato, che per l’appunto girerà alla larga dalla terminologia costituzionale; delle denominazioni degli atti dell’Unione, che riprenderanno i termini classici di regolamento, direttiva e decisione (abbandonando quindi i termini evocativi di legge e legge quadro) e del ministro degli affari esteri europeo che tornerà a chiamarsi Alto rappresentante. L’incidenza di queste variazioni è limitata sul piano giuridico ma significativa su quello politico. «Nomina sunt numina», avrebbero detto i latini, e le scelte terminologiche dei costituenti europei rispondevano proprio alla volontà di dotare la Costituzione europea di una potenza evocativa che andasse anche al di là della portata giuridica delle sue disposizioni. Le stesse considerazioni valgono anche per la rinuncia all’articolo della Costituzione che elencava i simboli dell’Unione. Dal punto di vista tecnico, l’unica vera vittima sarà il motto dell’Unione («uniti nella diversità »), dato che gli altri facevano già parte dell’acquis comunitario.9 Ciò non deve portare, però, a sottovalutare l’impatto politico del ritorno allo statu quo. Bandiera, inno, motto sono simboli identitari adottati per suscitare nei cittadini europei un sentimento di appartenenza verso l’Unione. Per la prima volta, con l’articolo I-8 questa loro funzione veniva riconosciuta solennemente in un testo costituzionale, anziché in atti di diritto secondario o in dichiarazioni politiche. Per la prima volta, la loro funzione di referenti simbolici attorno ai quali coagulare un sentimento di identificazione repubblicano era esplicitamente affermata.

Altre innovazioni di carattere costituzionale sono riuscite a passate attraverso le forche caudine del Consiglio europeo, ma a condizione di «abbassare la testa»: ovvero di passare quanto più possibile inosservate. Fra queste vi è il conferimento di piena valenza giuridica alla Carta dei diritti attraverso la formula, meno vistosa, del rinvio recettizio, contenuto nell’articolo 6 del TUE, anziché quella della riproduzione integrale del testo. In questo caso, però, a differenza che per i simboli, non ci sarà una diminutio, dato che la Carta, seppure fuori dai Trattati, manterrà il suo carattere di atto di diritto primario e di termine di riferimento imprescindibile per l’evoluzione del diritto comunitario. Non va esagerata, da questo punto di vista, la reale portata dell’opt-out ottenuto dalla Gran Bretagna (e in parte dalla Polonia) in virtù di un protocollo ad hoc. Oggi Londra si sottrae, per ragioni politiche (e di gestione della fase di ratifica) all’applicazione giurisdizionale della Carta. Ma i diritti codificati da quest’ultima sono espressivi di principi comuni agli ordinamenti europei, come ha opportunamente sottolineato la nostra Corte costituzionale. È tutto da vedere quale sarà la portata reale dell’«isolazionismo giuridico» della Gran Bretagna. E soprattutto, ciò che conta è che, con o senza il contributo delle corti britanniche, l’Unione avrà finalmente un suo bill of rights, una grammatica dei diritti a partire dalla quale costruire gradualmente un patriottismo costituzionale europeo. Appare inoltre positivo, sotto il profilo della creazione di una identità europea, il rafforzamento del Parlamento europeo. L’Assemblea di Strasburgo non è la General Motors del processo di integrazione e non tutto quello che è buono per lei è buono anche per l’Europa. Tuttavia, è senz’altro vero che la creazione di un demos europeo passa attraverso la realizzazione di un’autentica dialettica politica transnazionale e che il luogo di elezione di questa dialettica non può che essere il Parlamento.10 L’estensione della codecisione legislativa, il rafforzamento delle preroga- tive dell’Assemblea in materia di bilancio e il consolidamento del rapporto fiduciario con la Commissione costituiscono quindi un passo nella giusta direzione e contribuiscono tutto sommato a rendere meno amari gli arretramenti sugli altri fronti della «costituzionalizzazione». Un giudizio più sfumato merita una delle poche modifiche «in aggiunta» introdotte dal Consiglio europeo: il rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali nel controllo della sussidiarietà. La modifica è di taglia, dato che consiste, in pratica, nell’inserire per la prima volta le assemblee rappresentative all’interno delle procedure decisionali europee anziché con funzioni di controllori esterni (dell’operato delle delegazioni nazionali in Consiglio, come è stato finora).11 Quale sarà l’impatto di questa innovazione? Probabilmente è troppo presto per dirlo. L’ingresso dei parlamenti nazionali nell’arena europea potrebbe avere una serie di effetti positivi, potrebbe contribuire a «europeizzare» le classi politiche nazionali e favorire la nascita di una dialettica politica autenticamente europea. Ma potrebbe anche avere delle controindicazioni. Il rischio più grave è forse quello di indebolire il Parlamento europeo, o quantomeno la sua pretesa di essere il legittimo rappresentante dei cittadini europei e il principale veicolo di immissione della legittimità democratica nella costruzione europea. L’idea che il rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali sia necessario per emendare il deficit democratico dell’Unione e per assicurare una reale partecipazione dei cittadini riflette da sempre la visione in base alla quale il Parlamento europeo è sostanzialmente un’assemblea «di serie B» e non sarà mai in grado di svolgere il ruolo di un vero e proprio parlamento. Una visione di fatto refrattaria a ricreare a livello transnazionale le dinamiche di investitura e di responsabilità che sono proprie delle democrazie nazionali.

Funzionalismo e costituzionalismo Considerate tutte le sue implicazioni, è evidente che l’accordo di giugno non può essere liquidato come un semplice ripiego tattico. Al contrario, esso è il frutto di una precisa scelta strategica, si potrebbe dire quasi ideologica: quella di trovare rifugio, di fronte alle difficoltà del processo di costituzionalizzazione, sul terreno familiare del metodo Monnet. In fondo, preservando le sole innovazioni di carattere funzionale della Costituzione, i capi di Stato e di governo non hanno fatto altro che privilegiare le realizzazioni concrete sulla sistematizzazione astratta; il «bricolage» tecnico-negoziale sull’ingegneria costituzionale; la creazione di solidarietà di fatto sull’idea, di stampo federalista, che la nascita di un demos europeo possa essere promossa attraverso decisioni di carattere simbolico. Con il Trattato di riforma il dibattito politico europeo torna a focalizzarsi sugli strumenti piuttosto che sui fini; sulle funzioni piuttosto che sugli obiettivi. Mette da parte il telos e la questione della finalità politica del processo di integrazione per privilegiare il concetto quasi bernsteiniano, e volutamente indeterminato, di processo (di integrazione). Ne è una conferma quasi plastica la ricomparsa del riferimento alla «unione sempre più stretta fra i popoli europei» che, rimosso dal preambolo della Costituzione, tornerà a figurare, invece, nel preambolo del TUE emendato. Se si volesse riassumere il tutto con una formula, si potrebbe affermare che, nell’ultracinquantennale competizione per l’anima europea, Monnet ha segnato un ulteriore punto su Spinelli. Una formula che, però, come tutte le semplificazioni, richiede una serie di precisazioni e alcuni caveat. Il primo caveat è che, Spinelli o Monnet, il revirement ideologico del Consiglio europeo non deve far sottovalutare i contenuti del Trattato di riforma. Il risultato complessivo del processo costituzionale 2002-07 resta positivo e questo soprattutto grazie allo slancio iniziale impresso dalla Convenzione. Rispetto al Trattato di Nizza, il TR rappresenta un considerevole progresso e consente di introdurre gli aggiustamenti necessari per evitare la paralisi dell’UE allargata. Difficilmente una CIG ordinaria sarebbe riuscita a raggiungere risultati comparabili. Procedere per miglioramenti incrementali non è la stessa cosa che adottare in maniera solenne delle regole costituzionali, ma si può affermare che, di «sconfitta ai punti» in «sconfitta ai punti», molte idee spinelliane si sono fatte e si stanno facendo largo, come dimostra il fatto che i due terzi delle innovazioni introdotte con le ultime revisioni dei Trattati erano già presenti nel progetto del 1984.12

Il secondo caveat è che la «battaglia per l’anima europea» non è, e non è mai stata, una partita a eliminazione diretta. È un incontro su più round. Le vicende del processo costituzionale 2002-07 costituiscono un episodio importante, non un epilogo. In fondo, la storia della integrazione europea è fatta di arretramenti, fasi di stasi e improvvise accelerazioni. In un momento di risacca dello spirito europeista, come quella che attraversiamo da alcuni anni, è già molto che si riescano a consolidare gli assetti istituzionali dell’Unione.

Sotto questo profilo uno dei vantaggi del Trattato di riforma, rispetto alla Costituzione, deriva paradossalmente dal fatto che esso non è scritto nel marmo. Non rappresenta, secondo la famosa definizione di Giscard d’Estaing, «una Costituzione per i prossimi cinquant’anni dell’Europa». Esso rende quindi più agevole una ripresa, in tempi più o meno brevi, della riflessione sugli strumenti e sulle politiche dell’Unione. È vero che questa ricerca dovrà muoversi, almeno per i prossimi anni, nel perimetro ideologico ben conosciuto del funzionalismo, ma questo non significa che, attraverso le realizzazioni concrete, non si possa preparare il terreno per sviluppi ulteriori.

Il terzo e più importante caveat è che, se si vogliono promuovere ulteriori progressi della costruzione europea, non ci si può limitare a constatare la perdurante validità del metodo Monnet. Occorre anche adeguarlo ai tempi, e in particolare alla nuova realtà dell’UE allargata. Il Consiglio europeo di giugno ha evidenziato come il livello di eterogeneità interno all’Unione sia ormai elevatissimo. Ma, contrariamente a quanto si pensa normalmente, le linee di tensione non sono determinate tanto dalla distinzione fra vecchi e nuovi Stati membri, Nord e Sud dell’Unione, approcci di carattere liberista o colbertista. Le vere linee di tensione – le faglie della costruzione europea – riguardano, piuttosto, le diverse, e per certi versi antagoniste, visioni sulla natura e sul futuro dell’Europa, con la contrapposizione fra i fautori della integrazione e il partito di chi vede nell’Unione un mero hub di coordinamento delle politiche nazionali; una dialettica complicata dalla comparsa di preoccupanti pulsioni veteronazionaliste in alcuni Stati membri vecchi e nuovi.

Da soli, gli strumenti tradizionali del metodo Monnet – realizzazioni concrete, approccio prevalentemente tecnocratico, individuazione di soluzioni consensuali, creazione di solidarietà di fatto, ecc. – non bastano a gestire questa diversità. Non foss’altro perché, con la moltiplicazione dei punti di veto a seguito dell’allargamento, rischiano di costringere l’Unione in un «letto di Procuste» a misura degli Stati membri meno favorevoli all’integrazione. La riflessione sulla Europa a due velocità promossa dal presidente del consiglio Romano Prodi nel suo discorso al Parlamento europeo del maggio scorso13 e a più riprese dal ministro D’Alema14 mantiene quindi tutta la sua validità.

Il dibattito sulle cooperazioni rinforzate nelle settimane precedenti il Consiglio europeo aveva in parte carattere tattico. La possibilità di una iniziativa autonoma degli Stati membri integrazionisti, infatti, è stata ventilata anche come espediente per «ammorbidire» le posizioni degli altri. Tuttavia, rimane il fatto che l’idea di consentire agli Stati membri che lo desiderano di proseguire più speditamente sulla strada dell’integrazione non è semplicemente un «mito» bensì una prospettiva politica seria, anzi, per certi versi, la naturale applicazione del metodo Monnet nell’Unione ampliata. Si tratta, in definitiva, di rendere possibili delle realizzazioni concrete che rischierebbero altrimenti di essere bloccate e di farlo senza nulla togliere alla solidarietà europea e alla stabilità dell’edificio comunitario. Una volta che l’Unione si sarà dotata di un nuovo testo fondamentale, quella delle cooperazioni rafforzate diverrà una strada più agevole, non solo sotto il profilo istituzionale, ma anche da un punto di vista politico. Se alcuni Stati membri avessero creato dei gruppi ristretti durante il periodo di riflessione avrebbero dato l’impressione di voler «abbandonare la nave che affonda», con effetti molto negativi sulla solidarietà comunitaria. Al contrario, una volta superata l’impasse costituzionale, la creazione di gruppi ristretti può essere presentata per quella che è: la naturale articolazione di un edificio comune piuttosto che una iniziativa «separatista».

D’altra parte, è questa, a ben vedere, la logica di molte delle disposizioni del Trattato di riforma. È il caso, in particolare, degli opt-out britannici (e forse irlandesi e polacchi) su gran parte del terzo pilastro, su Schengen e sulla Carta dei diritti; della clausola abilitativa che consente di creare automaticamente delle cooperazioni rafforzate agli Stati membri che si scontrino con il veto di una minoranza nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia; della fissazione in termini assoluti (a nove) degli Stati membri necessari per creare una cooperazione rinforzata. Ed è il caso anche del mantenimento di alcune disposizioni fondamentali della Costituzione, come quelle che riguardano l’istituzione di una cooperazione strutturata in materia di difesa e quella che consente ai membri di una cooperazione rinforzata di stabilire le procedure decisionali da utilizzare al suo interno.

La logica di queste disposizioni è: meno integrazione forzata per tutti in cambio di più flessibilità per chi ne sente il bisogno. Ed è probabilmente questa una delle chiavi di interpretazione più pertinenti del Trattato di riforma. Se nel futuro immediato la sfida sarà quella di rileggere il metodo Monnet alla luce delle esigenze dell’Unione ampliata, il nuovo Trattato ci fornisce quantomeno una base di partenza. Spetterà agli Stati membri, ai cittadini e alle forze politiche europeiste fare in modo che quelli che sembrano oggi degli ostacoli insormontabili sulla strada dell’integrazione si trasformino in gradini. Su cui continuare a salire.

[1] Istituto Universitario Europeo, Feasibility Study for a New Treaty and Supplementary Protocols to Take Over the Substance of the Constitutional Treaty, Firenze, aprile 2007.

[2] S. Fagiolo, La Commissione recupera sovranità, in «Il Sole 24 Ore», 22 luglio 2007.

[3] Il compromesso del tipo «Ioannina» consiste nella possibilità, offerta a un numero di Stati non sufficiente a costituire una minoranza di blocco, di chiedere che la decisione sia rinviata, per permettere al Consiglio, entro un congruo termine, di fare quanto necessario per pervenire a una soluzione soddisfacente. Il nome è tratto dalla città greca dove, il 29 marzo 1994, si tenne una riunione informale dei ministri degli esteri dell’Unione.

[4] La migliore definizione di questo metodo resta il notissimo passaggio della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 in base al quale: «L’Europa non si farà d’un tratto, né in una costruzione globale: essa si farà con delle realizzazioni concrete, creando anzitutto una solidarietà di fatto». P. Gerbet, F. de La Serre e G. Nafilyan (a cura di), L’Union politique de l’Europe, Jalons et textes, La Documentation française, Parigi 1998.

[5] M. Leonard, Why Europe Will Run the 21st Century, Fourth Estate, Londra 2005.

[6] N. Verola, L’identità dell’Unione, in AA.VV., La Costituzione europea, Il Mulino, Bologna 2004.

[7] Sulla natura giuridica del testo firmato a Roma, pochi erano disposti a mettere seriamente in dubbio che rimanesse quella di un trattato. Come aveva a suo tempo lucidamente osservato Giuliano Amato, per passare dalla logica dei trattati internazionali a quella delle costituzioni sarebbe stato quantomeno necessario dotare la Costituzione europea di un meccanismo di revisione che non prevedesse la firma di tutti gli Stati membri e la successiva ratifica. Così non è stato. Cfr. AA.VV., La Costituzione europea cit.

[8] Intervento del presidente della Repubblica in occasione del Terzo simposio COTEC Europa, Lisbona, 17 luglio 2007. Disponibile su https://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=33533.

[9] La menzione all’euro è spostata in un altro articolo, mentre gli altri simboli – come l’Inno alla gioia, la bandiera europea, il giorno dell’Europa – preesistevano alla Costituzione (sono stati istituiti negli anni Ottanta dal Consiglio europeo) e non decadono con il venire meno dell’articolo I-8.

[10] N. Verola, L’Europa legittima, Passigli Editori, Firenze 2006.

[11] Il meccanismo tratteggiato dal Consiglio europeo prevede che un eventuale early warning dei parlamenti nazionali non abbia semplicemente un effetto sospensivo (come era il caso previsto dalla Costituzione) ma possa portare, in pratica, al blocco della proposta della Commissione. Senato della Repubblica, Il progetto di mandato alla Conferenza intergovernativa per la riforma dei Trattati europei, Ufficio dei rapporti con le istituzioni dell’Unione europea, dossier n. 59, 16 luglio 2007.

[12] P. Ponzano, Il Trattato «Spinelli» del febbraio 1984: l’avvio del processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea, paper per l’Istituto Universitario Europeo, 2006.

[13] Intervento del presidente del consiglio al Parlamento europeo, Strasburgo, 22 maggio 2007, disponibile su https://www.governo.it/Presidente/Interventi/dettaglio.asp?d=34599.

[14] Intervento sul tema «Europe at 50: lessons and visions for European integration», Università di Oxford, 8 Maggio 2007; Comunicazioni del ministro degli affari esteri al parlamento italiano in materia di politica estera, 25 luglio 2007, disponibile su https://www.esteri.it/MAE/IT/Ministero/ Ministro/Interventi/2007/07/20070725DalemaSenato.htm.