Mettiamo un po' d'Europa nelle nostre università

Written by Fulvio Esposito Friday, 29 February 2008 15:50 Print
Purtroppo, dopo un ottimo programma elettorale e un buon inizio delle attività, con tante idee e molte bozze di provvedimenti di notevole spessore ideale e politico, l’azione di governo sui temi dell’università e della ricerca è parsa progressivamente affievolirsi, fin quasi a spegnersi. Anche un qualificante elemento di discontinuità rispetto al passato – l’affermazione del primato della valutazione ex post dei risultati rispetto all’imposizione ex ante di regole – è sembrato negli ultimi mesi essersi diluito al punto da scomparire, travolto dalla pregressa logica delle formule aritmetiche e dei requisiti (più o meno) minimi. A questo punto, senza un colpo d’ala, o un salto della rana, si rischia una vera mortificazione per chi aveva creduto possibile una netta inversione di tendenza. È urgente allora riprendere la strada inizialmente intrapresa, che aveva suscitato speranze e consensi nel «popolo della ricerca»: la strada del cambiamento, della valutazione, della trasparenza. Abbiamo a disposizione, se vogliamo farne uso, un riferimento che avrebbe potuto e può ancora aiutarci a superare scetticismi, dubbi e resistenze, come avvenne quando abbiamo imboccato il difficile percorso dell’unificazione monetaria: l’Unione europea.

Una volta tanto, in Italia ci eravamo mossi per tempo, anzi per primi, sottoscrivendo come sistema universitario italiano, nel luglio del 2005, la Carta europea per i ricercatori e il Codice di condotta per il reclutamento dei ricercatori.1 Di che si tratta? Da un punto di vista formale è una raccomandazione della Commissione europea, trasmessa agli Stati membri l’11 marzo 2005. In concreto, sono principi di comune buon senso, privi di formule aritmetiche, ma densi di significato.

Va subito chiarito che in questa raccomandazione il termine «ricercatori » non indica una qualifica o una fascia della docenza, ma è riferito a tutti i «professionisti coinvolti nella concezione o creazione di nuova conoscenza, nuovi prodotti, metodi e sistemi e nella gestione dei relativi progetti», secondo la definizione riportata nel manuale di Frascati dell’OCSE (2002). Curioso che i luoghi d’Italia siano sempre associati a passaggi importanti dell’evoluzione dello Spazio europeo della ricerca e dell’alta formazione (il manuale di Frascati, il processo di Bologna, gli stessi Trattati di Roma) e poi il nostro paese arranchi sempre nelle ultime posizioni delle graduatorie OCSE sui parametri più significativi.

Il nostro paese si è sempre distinto, a livello politico, per una scelta europeista che, con poche e poco convinte eccezioni, è stata perseguita da tutti i governi, dal dopoguerra ad oggi. È stato quasi logico dunque che fosse il nostro paese a guidare il percorso di armonizzazione dei sistemi europei dell’alta formazione, nel processo di Bologna. Ciò che è poco logico è che il sistema universitario italiano, nei suoi meccanismi di reclutamento e progressione di carriera e nei suoi assetti di governance, sia così poco europeo. Oggi, la Carta europea per i ricercatori e il Codice di condotta per il reclutamento dei ricercatori possono fornire all’attuale governo e in particolare al MIUR lo stimolo e lo strumento per tentare di iniziare un processo di europeizzazione del sistema.

Non c’è bisogno di ulteriori codici etici, è già tutto scritto nella Carta e nel Codice, con il vantaggio che questa raccomandazione è stata ormai sottoscritta dai sistemi della ricerca e dell’alta formazione di quasi tutti gli Stati membri e associati e quindi costituisce oggettivamente un potente strumento di armonizzazione e di realizzazione concreta dello spazio europeo della ricerca e dell’alta formazione.

Si vogliono introdurre nel sistema – così pare – meccanismi di valutazione e di assicurazione della qualità. Bene, la Carta e il Codice dettano i principi cui ispirare i meccanismi istituzionali di assicurazione della qualità, che a loro volta dovrebbero servire da base per il finanziamento. Lo snodo centrale di questa operazione dovrebbe essere evidentemente l’ANVUR, ma quando potrà partire se ad ogni stormir di fronda se ne mettono in discussione finalità e meccanismi di funzionamento? Comunque, se e quando l’ANVUR partirà, dovrebbe prendere come documento di riferimento per la propria attività la Carta e il Codice, piuttosto che – cosa che prevedibilmente avverrà – concentrarsi nella redazione di note tecniche, zeppe di formule e paletti fatti apposta per essere aggirati, in uno slalom nel quale, come è noto, siamo maestri quasi imbattibili.

Nella Carta si chiede agli Stati membri di curare particolarmente le condizioni di formazione e di lavoro nelle fasi iniziali delle carriere dei ricercatori, così da rendere questa professione attrattiva per le giovani generazioni. Insomma, trasferita al nostro sistema, questa sollecitazione si traduce in più investimenti e più considerazione per dottorandi, titolari di assegni di ricerca, ricercatori a tempo determinato. Con la bozza del bando PRIN 2007 si era fatto un primo passo avanti, aprendo a queste categorie la piena visibilità (una sorta di «certificato di esistenza in vita»), poi, chissà perché, nella redazione definitiva del bando se ne sono voluti fare due indietro.

La Carta raccomanda infatti che non si discrimini sulla base del tipo di contratto (a termine o indeterminato) per quanto riguarda, ad esempio, la possibilità di coordinare un progetto di ricerca o di essere titolare di un fondo. A questi principi si è scrupolosamente attenuto lo European Research Council quando, nel bandire gli starting grants nella primavera scorsa (finanziamenti da 400.000 a 2 milioni di euro), ha stabilito come unico criterio di accesso il conseguimento del dottorato di ricerca da non più di nove e non meno di due anni, senza nessun altro limite sulla qualifica, sull’esser di ruolo o non di ruolo, insomma su tutte quelle briglie delle quali il nostro sistema si ostina ad andare in cerca, magari per erogare poche migliaia di euro di finanziamento, anche quando non ce ne sarebbe proprio bisogno.

La Carta e il Codice contengono poi precise e incisive richieste di introdurre metodi di reclutamento e di progressione di carriera trasparenti, aperti, equi e internazionalmente accettati. I bandi dovrebbero essere chiari per ciò che riguarda le conoscenze e le competenze richieste e queste non dovrebbero essere tanto specialistiche da scoraggiare la partecipazione (i ben noti «vestitini su misura»). Dovrebbero comprendere una descrizione sia delle condizioni di lavoro che delle prospettive di carriera e avere date di scadenza che favoriscano un’ampia partecipazione (i ben noti bandi emessi la vigilia di Natale con scadenza 2 gennaio). Le commissioni dovrebbero coprire ambiti sufficientemente ampi, avere un adeguato equilibrio di genere, includere componenti provenienti da settori (pubblico e privato) e discipline diverse, da vari paesi e con le caratteristiche giuste per valutare i candidati. Il processo di selezione dovrebbe coprire l’intero ambito di esperienze dei candidati, con particolare attenzione alle doti di creatività e d’indipendenza (proprio come succede da noi). Per non penalizzare le interruzioni di carriera o le transizioni di disciplina o di settore, il merito dovrebbe essere giudicato sia qualitativamente che quantitativamente, dando il giusto rilievo ai risultati outstanding più che al numero delle pubblicazioni. Gli indicatori bibliometrici dovrebbero certamente avere un peso, ma dovrebbero anche lasciar spazio ad altri criteri di valutazione, che prendano in considerazione le attività didattiche e di supervisione, la capacità di lavorare in gruppo e di trasferire conoscenze e tecnologie, di coordinare e gestire attività di ricerca e innovazione, l’impegno nelle attività volte a stimolare nell’opinione pubblica la sensibilità e l’attenzione alla ricerca e via dicendo. Insomma, più o meno quello che si era cominciato pur timidamente a fare con il regolamento per il reclutamento dei ricercatori progettato dal nostro MIUR. Ma che fine ha fatto quel regolamento? Un mese fa, a Lisbona, la conferenza sul futuro della scienza e della tecnologia in Europa ha ribadito un invito pressante a sviluppare standard comuni e condivisi per il reclutamento, ma qui da noi il sistema di reclutamento dei ricercatori (intesi nel senso della Carta) si è di fatto bloccato, salvo una modesta apertura sui concorsi per la terza fascia, condotti con le vecchie regole che, almeno a parole, nessuno ama e che, comunque, non sono certo coerenti con i principi della Carta e del Codice. Agli Stati membri è stato esplicitamente raccomandato di trasferire tali principi nelle rispettive legislazioni e avevamo anche cominciato a farlo (regolamenti per il dottorato di ricerca e per i concorsi da ricercatore, terza fascia, nuovo PRIN aperto ai giovani anche non strutturati ecc.), ma poi ci siamo fermati. Perché? A tutti i principi della Carta e del Codice è esplicitamente sottesa una logica di pari opportunità, che implica una scrupolosa avversione per qualunque valutazione che penalizzi le interruzioni di produttività (legate, per esempio, ma non solo, alla maternità) o l’impegno in attività quali l’educazione dei figli o il trasferimento di conoscenze alla società nel suo complesso. Il rispetto dell’equilibrio di genere non può prevalere su criteri di qualità e competenza, ma può e deve realizzarsi attraverso una politica di pari opportunità nel reclutamento e nella progressione di carriera. In questa direzione non è stato ancora fatto nulla, mentre altrove siamo già al punto in cui se ad un bando non si ha una partecipazione equilibrata secondo le attese statistiche, questo viene riemesso.

La Carta a più riprese sottolinea il valore della mobilità, in tutte le sue accezioni. Geografica, certo, ma anche tra settori (privato e pubblico) e discipline. Quanto è lontano da qui il nostro sistema, con i suoi trecentosettanta settori scientifico-disciplinari reciprocamente impermeabili, con la sua pressoché costante condanna dell’eclettismo, di norma percepito come disvalore, con il suo privilegiare la fedeltà di scuola, di disciplina, spesso di luogo. I disastri prodotti da questo assetto sono visibili a tutti: il sistema che meno favorisce la mobilità è quello i cui ricercatori sono più mobili, purtroppo in maniera unidirezionale, cioè soltanto in uscita.

I talenti migliori se ne vanno e nessuno li rimpiazza. Il dato che emerge dal primo gradino di selezione degli starting grants dello European Research Council è eloquente nella sua drammaticità: un terzo dei ricercatori italiani selezionati svolgerà il suo progetto all’estero. L’Italia, unico tra i grandi paesi europei, ha dunque un saldo negativo del 30%, mentre a fronte di quarantadue ricercatori britannici selezionati, ben centouno condurranno il loro progetto nel Regno Unito, con un saldo attivo del 140%, saldo che è del 18% per Francia e Spagna, mentre la Germania – altro sistema di notevole rigidità – ha un saldo negativo, ma solo del 6%. La Finlandia, potenza emergente nello spazio europeo della ricerca, è in pareggio, mentre la Grecia non sta bene, ma sta comunque un po’ meglio di noi, con un saldo negativo del 27%.

Forse, anziché perdere mesi a discutere se e quanti ricercatori, quanti associati e quanti ordinari debbano essere impegnati ad insegnare nelle discipline di base e caratterizzanti, e ad elaborare i relativi algoritmi, avremmo fatto meglio a ragionare su come affrontare un fenomeno che avrà – se non si controlla – conseguenze drammatiche sulla capacità del sistema economico del paese di garantire in futuro il benessere dei suoi cittadini. Il sistema di reclutamento può influenzare l’andamento di questi fenomeni? Pare proprio di sì e si può anche qui produrre un’evidenza, magari circoscritta, ma significativa. In un’università italiana di piccole dimensioni negli ultimi due anni è stata introdotta una procedura di reclutamento dei dottorandi ragionevolmente aperta e trasparente. È bastato questo per moltiplicare per cinque il numero dei partecipanti e per dieci la partecipazione di candidati non italiani. Semplice, no? Pare che il sistema italiano della ricerca e dell’alta formazione si trovi davvero in una situazione di emergenza, anzi, rappresenta una vera e propria emergenza nazionale, ma pochi sembrano essersene accorti. Se ne sono accorti i ministri Mussi e Padoa Schioppa, che hanno proposto alle università un patto per il cambiamento e lo sviluppo per uscire dallo stallo in cui il sistema sembra essersi inceppato, con un perverso feedback negativo tra la perdita di considerazione da parte dell’opinione pubblica e la conseguente perdita di risorse. Di certo se n’è accorta la commissione tecnica del ministero dell’economia, che ha fatto un impietoso quanto lucido quadro delle troppo numerose falle del sistema, indicando anche i potenziali rimedi. Ma quanto sarebbe stato meglio, quanto bene avrebbe fatto alla deteriorata immagine del sistema universitario se esso stesso si fosse fatto spregiudicato autore di quel quadro, se esso avesse trovato al suo interno la forza autonoma e responsabile per il cambiamento, magari semplicemente provando a dare concreta attuazione ai principi della Carta europea e del Codice di condotta e a fornire così un’iniezione di buon ricostituente europeo ad un sistema prostrato dalla propria irrefrenabile autoreferenzialità. È ancora possibile? Sicuramente sì.

[1] Cfr. il sito www.europa.eu.int/eracareers/europeancharter