Un diritto preso sul serio. Massimo D'Antona tra crisi e modernizzazione del diritto del lavoro

Written by Giovanni Abbraciavento Friday, 29 February 2008 14:53 Print

All’inizio degli anni Ottanta, e con un’intensità crescente negli anni più recenti, iniziò a prendere corpo il dibattito sulla crisi, ovvero sulla «fine», del diritto del lavoro, secondo forme e categorie che lasciavano intendere la difficoltà di interpretare sino in fondo i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Chiedersi –come in effetti avvenne, e senza alcun intento retorico – se il diritto del lavoro avesse o meno ancora un futuro era la spia più evidente che non si trattava solo di una discussione accademica interna al mondo dei giuslavoristi, ma che quel dibattito era, piuttosto, il luogo in cui venivano riversate le paure e le preoccupazioni di una società frastornata dalle trasformazioni epocali di cui si stentava a cogliere con la necessaria rapidità il senso, la direzione e il movimento.

Massimo D’Antona, guardando ai vacillanti pilastri dell’identità del diritto del lavoro, si chiedeva se davvero, con la caduta del Muro di Berlino, si fosse definitivamente chiusa una fase storica, e se con essa fossero venute irreversibilmente meno le condizioni che avevano favorito l’approdo del diritto del lavoro dalla periferia dei codici liberali al cuore delle costituzioni contemporanee.

Le paure non provenivano da uno scenario del tutto ipotetico quale la fine del lavoro, né da uno scenario, pur reale, quale la disoccupazione di massa. Venivano, piuttosto, da tendenze che sembravano mettere in discussione i diritti dei lavoratori e rendere obsoleto il diritto del lavoro, il «diritto del secolo», come è stato chiamato con riferimento al Novecento.

Una lettura approssimativa e superficiale dei fenomeni economicosociali attribuiva l’erosione dei diritti a processi connotati da una forte valenza politica, come se l’affermazione tout court e senza contrappesi delle politiche liberiste degli anni Ottanta e Novanta potesse essere, in un contesto di piena globalizzazione, l’unica spiegazione di fenomeni dalla matrice assai complessa. Al di là di analisi particolarmente suggestive sulla «fine» del lavoro o sulla «fuga» dal lavoro – letture tanto di successo quanto incomplete, alla fine, nello svelare la trama di complessità che avvolge la materia – D’Antona preferiva ricordare che tutto il diritto – e soprattutto il diritto del lavoro – è un «costrutto storico, che non ha nulla di ontologico», e che malgrado la radicalità dei cambiamenti si compie lentamente e con la fatica delle donne e degli uomini. La transizione al modello postfordista determinava la disgregazione dell’ordito sociale su cui fino ad allora si era retto il modello capitalista e apriva, in effetti, scenari nuovi. Al conflitto binario tra capitale e lavoro – al quale le costituzioni sociali del secondo dopoguerra offrirono una base di compromesso sviluppato successivamente attraverso l’edificazione dello Stato sociale – si sovrapponevano nuovi conflitti di interessi. Nuovi valori si inoltravano nella dimensione collettiva. La crisi dello Stato-nazione come luogo esclusivo della produzione legislativa, il tramonto più o meno definitivo del concetto di piena occupazione, l’eclissi della grande fabbrica, intesa come luogo di organizzazione del lavoro e della vita dei lavoratori, la difficoltà del sindacato tradizionale ad esprimere la natura pluralistica e conflittuale degli interessi del lavoro venivano a complicare lo schema basilare del rapporto di lavoro e spostavano il baricentro della materia. Al tradizionale droit du travail si sostituisce il droit de l’emploi, per significare che non è più il rapporto di lavoro subordinato, ma la posizione del lavoratore nel mercato del lavoro, con le sue istituzioni, le sue dinamiche e con le diverse forme contrattuali a stabilire i confini della materia.

Nel maggio del 1999 – in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», l’ultima occasione ufficiale cui il giuslavorista partecipò prima che la vigliaccheria brigatista lo sottraesse ad una vita di impegno e affetti – D’Antona ripercorreva queste strade e si inoltrava con efficace sintesi lungo i percorsi per nulla agevoli di un ramo del diritto, come quello del lavoro, più di tutti esposto alla mutevolezza dei tempi. In quel tornante di tempo, al cospetto di prepotenti fenomeni che coinvolgevano nel profondo i valori, il significato, la dimensione culturale e identitaria del lavoro, D’Antona provava a fronteggiare due atteggiamenti drasticamente presenti nella cultura giuridica. Il nichilismo di chi registra lo strapotere del sistema delle imprese, invincibile da qualsiasi strumentario giuridico; e la linea di chi lascia al giurista solo il compito di razionalizzare i comportamenti imprenditoriali, quasi a voler dare legittimazione a puri rapporti di forza. Atteggiamenti che, in definitiva, offrivano – e offrono tuttora – copertura a qualsiasi iniziativa della business community, dando per scontato che nel mondo dell’economia, non solo di quello globale, si dovesse prendere definitivo congedo dalle regole della democrazia.

Occorreva riconoscere che il postfordismo aveva fatto emergere nel mondo del lavoro altrettante diversità quante erano state le uniformità ingenerate dal taylor-fordismo. Era ormai deflagrato il sistema unitario (e forse anche l’idea unitaria del lavoro) messo insieme e tenuto insieme dalla potente coercizione uniformante esercitata dal capitalismo industriale del Novecento. Ma, di fronte alle profonde modificazioni nel modo di lavorare indotte dall’emersione dei cosiddetti «nuovi lavori», non vi era spazio alcuno per la contemplazione impotente dell’insufficienza delle politiche del lavoro nel governo delle trasformazioni economico- sociali. Promanava, invece, dal fondo di quello stesso disorientamento, una rinnovata domanda di stabilità e sicurezza da declinare, semmai, in forme più attuali. L’analisi di D’Antona, ricca di grande sapienza tecnico-giuridica e di una inesauribile passione civile e umana, partiva da qui.

Il diritto al lavoro dell’articolo 4 della Costituzione, pur nella sofisticata e ampia articolazione del catalogo dei diritti sociali fondamentali così come innestatisi nella riflessione del costituzionalismo contempora- neo, dischiudeva un punto di vista privilegiato nelle osservazioni sulle trasformazioni del ruolo dello Stato nazionale, ma, soprattutto, offriva un esempio rilevatore e paradigmatico della complessità di qualsiasi discorso sulla «crisi» del modello classico di welfare State nel secondo Novecento. Da questo angolo visuale, risultava per D’Antona poco attraente ribadire le consuete coordinate entro cui andava ascritta la vicenda interpretativa dell’articolo 4. Sembrava più utile, piuttosto, muovere dalla storicità di quella norma per attualizzarla, nelle mutate condizioni, quale veicolo privilegiato di costruzione di una moderna cittadinanza sociale.

L’azione politica dello Stato – e D’Antona lo rilevava perfettamente – si era compendiata sino ad allora nel monopolio pubblico della gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro accompagnato, secondo la classica ricetta keynesiana, dall’adozione di programmi di spesa in investimenti sociali idonei ad espandere la domanda aggregata. Ma a partire dagli anni Ottanta un impulso decisivo al suo superamento provenne dal processo di disarticolazione delle strutture dello Stato-nazione a favore, verso l’alto, della «comunitarizzazione» del diritto e del mercato e, verso il basso, più tardi, a favore dei governi territoriali. Proprio nel progressivo accrescimento della dimensione sovrastatale e multilivello della governance ci si avvedeva del senso del radicale cambiamento di prospettiva. L’intera strategia europea dell’occupazione, con poche differenze tra la fase pre e post Lisbona è basata, infatti, su una diversa idea di responsabilità pubblica, prevalentemente centrata sullo stimolo all’«impiegabilità » e «occupabilità» dei lavoratori con misure dal lato dell’offerta. I legislatori nazionali hanno ovviamente fornito risposte significativamente diverse, tentando per lo più di non sovvertire le tradizioni regolative dei rispettivi sistemi di diritto del lavoro. Ma D’Antona si rendeva conto che la diversa impostazione di fondo delle politiche comunitarie imponeva di prendere atto che il destino del diritto del lavoro sarebbe appartenuto sempre meno ai ben noti attori domestici e sempre più ad una miriade di attori posti fuori dei confini nazionali. Il Modello sociale europeo generava, dunque, un nuovo ordinamento sociale plurimo e diversificato, policentrico e irrelato; in questo contesto il diritto al lavoro si presentava emblematicamente come il punto di intersezione tra la necessità di adeguamento del sistema e l’irrinunciabilità di un apparato di tutele a favore della persona. Il diritto al lavoro si spogliava, quindi, dei densi riferimenti storici che sin qui lo avevano connotato per consistere piuttosto «nella garanzia dell’uguaglianza (formale e sostanziale) delle persone rispetto al lavoro disponibile, un’uguaglianza che significa equilibrata concorrenza tra le persone sia nel mercato del lavoro sia durante il rapporto di lavoro».

Si apriva – ed erano in molti a intenderlo – una fase nuova della storia del diritto del lavoro, per lo più incentrata sul tentativo non facile di una riscoperta dell’individuo. D’Antona percepiva con chiarezza l’acutizzarsi di un bisogno in precedenza trascurato: il «bisogno di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo, con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere ad esso esterno, anche se protettivo e benefico». E ciò che poteva sembrare ai più timorosi una rivoluzione culturale dagli esiti incerti nella sua teorizzazione, invece, prendeva le forme di una sfida appassionante, pur senza nascondersi l’oggettiva difficoltà di individuare direttrici di riforma dei sistemi nazionali ispirati, ad un tempo, ad una rimodulazione inevitabile delle tutele che tenesse conto dei cambiamenti, ma rispettosi al fondo dei fondamenti solidaristici che li avevano sin lì animati.

L’individualizzazione del rapporto di lavoro era in fondo questo: la capacità di dare luogo ad un assetto normativo «del rapporto di lavoro più adattabile agli interessi e ai bisogni del lavoratore in carne e ossa che a quelli del lavoratore astratto e massificato del quale ci parlano leggi e contratti collettivi», senza per questo rinunciare a quel nucleo forte di tutele che pure costituiscono il portato irrinunciabile del continuum storico del diritto del lavoro dalla rivoluzione industriale in poi.

Il merito di D’Antona sta nell’aver avuto la chiara consapevolezza di temi e argomenti che fluttuavano nell’aria per riproporli all’attenzione in termini originali e lontani da stereotipi e preconcetti ideologici. Se ne trova traccia nel celebre Rapporto Supiot sul futuro del diritto del lavoro in Europa, in cui la distribuzione per cerchi concentrici – dal più ampio, di segno universalistico, al più ristretto, ritagliato sui rapporti di lavoro in senso proprio subordinato – delle garanzie e dei diritti potrebbe in effetti costituire un modo di rivisitazione dei valori costituzionali di eguaglianza e solidarietà, e dello stesso diritto del lavoro, adeguato alle grandi trasformazioni della nostra epoca. Allo stesso modo, il Libro verde della Commissione europea sulla modernizzazione del diritto del lavoro pubblicato nel 2006 – pur nella grave indifferenza prestata ai contenuti della Carta dei diritti sociali fondamentali di Nizza – ripropone l’urgenza di un rilancio effettivo dei temi del lavoro attraverso il metodo aperto di coordinamento, dopo la stasi seguita al varo della Strategia di Lisbona del 2000. La riflessione di D’Antona – intessuta di scelte, idee e suggestioni poco disposte a lasciarsi irretire da una visione della condizione umana subalterna alle ragioni della produzione – dà la misura autentica delle possibilità reali e non illusorie di trovare una ragionevole via di uscita rispetto alla complessità e alle insicurezze del moderno homme de travail. Si può legittimamente pensare ad una società e ad un modello di convivenza maggiormente dominati dall’individualismo di mercato.

Ma è altrettanto legittimo chiedersi che cosa resta di quel modello di convivenza quando la modernizzazione da cui è avvolta non è più in grado di esprimersi attraverso la semantica dei diritti fondamentali e della tutela incondizionata del valore inclusivo del lavoro.

MASSIMO D’ANTONA Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario

1. Il diritto al lavoro «preso sul serio» Il diritto al lavoro (articolo 4 della Costituzione) è, tra i principi fondamentali della nostra Costituzione, quello che ha maggiormente subito il peso della storicità. Sulla sua valenza giuridica si è svolto, all’alba dell’attuazione costituzionale, un dibattito eccessivo perché (...) mosso dalla contrapposizione ideologica tra economia pianificata ed economia di mercato. Benché alcuni punti acquisiti in quel dibattito siano stati sviluppati dalla legislazione successiva (tra tutti il diritto al lavoro e la tutela contro i licenziamenti arbitrari), il diritto al lavoro non ha assunto quel rilievo di norma cardine del sistema lavoristico al quale poteva aspirare. Al di fuori della polarizzazione ideologica di allora, la disposizione costituzionale merita di essere riconsiderata e «presa sul serio», in un tempo in cui la questione del lavoro torna al centro di ogni progetto di società futura e una nuova articolazione dei pubblici poteri nell’economia, che vede al centro l’Unione europea, impone di riconsiderare il ruolo dello Stato nazionale.

2. Due grandi trasformazioni: il difficile rapporto tra sviluppo e occupazione e la disarticolazione dello Stato nazionale nel processo di integrazione europea Il diritto al lavoro, per essere «preso sul serio», va collocato nel quadro di due gran- di trasformazioni in corso. La prima riguarda la posizione del lavoro nel processo di integrazione economica e monetaria europea. La seconda riguarda la posizione dei diritti sociali costituzionalizzati, tra i quali il diritto al lavoro, nel processo di integrazione giuridica, tra diritto comunitario e diritti nazionali. Quanto alla prima, è un dato acquisito che le economie europee hanno subito pesantemente le conseguenze di un fenomeno inquietante e direttamente legato al modo in cui si va realizzando l’integrazione economica e monetaria: la crescita senza occupazione (...). Quanto alla seconda, le costituzioni europee sono il punto di sutura, e quindi di tensione, di un processo di disarticolazione dello Stato nazionale, verso l’alto, ossia verso l’Unione, e verso il basso, ossia verso i governi territoriali. Questa disarticolazione riguarda sia il ruolo economico sia l’autorità normativa dello Stato, due funzioni cruciali nella prospettiva dei diritti sociali, la cui protezione richiede tipicamente un’azione dello Stato sia di tipo economico (prestazioni e intervento pubblico nell’economia) sia di tipo normativo (ascrizione di diritti e obblighi nei rapporti interprivati). La tensione costituzionale riguarda anche i valori: i principi costitutivi dell’Unione europea evidenziano il rilievo centrale del mercato rispetto ai diritti sociali, che invece nella nostra Costituzione non sono postergati alle libertà economiche (diverso essendo il valore della «riserva del possibile e del ragionevole», ossia il limite delle risorse finanziarie dello Stato come misura di realizzazione dei diritti sociali).

3. Il profilo giuridico del diritto al lavoro costituzionalizzato La costituzionalizzazione del diritto al lavoro è di per sé un dato da «prendere sul serio». Per farlo, tuttavia, occorre rimuovere il sedimento di un dibattito eccessivamente polarizzato intorno ai modelli alternativi dell’economia pianificata (orientata a realizzare il diritto al lavoro) e dell’economia di mercato (orientata a realizzare accumulazione e aumento di produttività) e attualizzare il profilo giuridico del diritto nel sistema costituzionale (...).Prendere sul serio il diritto al lavoro costituzionalizzato, significa prendere atto di tre dati che emergono dal processo descritto.

a) La nuova articolazione dei pubblici poteri nell’economia, che vede al centro l’Unione europea. Sottrae alle decisioni dei poteri costituzionali dello Stato italiano una buona parte delle leve mediante le quali si sono fatte fino ad oggi politiche di crescita economica, incentrate sulla domanda aggregata, e tali da promuovere l’occupazione. Non per questo viene meno il vincolo costituzionale per i pubblici poteri. Lo Stato italiano dovrà esercitare – uti socius nel contesto comunitario, anziché uti singulus, perché questo comporta la volontaria limitazione della sovranità nazionale implicata dall’adesione all’Unione – quell’obiettivo costituzionale. La questione è aperta: il recente documento italo-francese sulle politiche dell’occupazione, che ribadisce la necessità che azioni a livello macroeconomico, per stimolare la crescita, si affianchino alle misure microeconomiche, sulla struttura e sul funzionamento del mercato del lavoro, è al centro della discussione tra i governi dell’Unione.

b) La dinamica economica generata dall’integrazione economica e monetaria espone l’Italia, più di altri paesi europei, a rischi «interni» dovuti al ritardo con cui si aggiorna il diritto del lavoro e il sistema di welfare, nel confronto con altri paesi (è implicito infatti, nel coordinamento comunitario delle politiche dell’occupazione, un rischio legato ai tempi relativi dell’adattamento dei vari partner). In Italia, sistema di tutela del lavoro e welfare sono e restano pesantemente sbilanciati verso la tutela degli occupati e sull’azione risarcitoria verso chi perde un lavoro che aveva già (il che genera un mercato del lavoro rigido, ma sempre più duale, e un sostegno costoso e inefficiente, oltre che fortemente diseguale, del reddito sul lato dell’offerta). Questo è comprovato da un dato inquietante: la distribuzione della disoccupazione per fasce d’età, che è sotto la media dei migliori paesi europei per le fasce adulte e registra una concentrazione anomala nelle fasce giovani. È evidente che la disoccupazione italiana dissimula un conflitto tra generazioni.

c) La disoccupazione italiana è poi legata alla criticità delle condizioni economiche e sociali delle regioni meridionali, dove si concentra in misura preponderante. La creazione di condizioni favorevoli all’investimento, come si cerca di realizzare con i patti territoriali e i contratti d’area, costituisce una premessa essenziale. L’emersione del lavoro nero e i processi di riallineamento contrattuale offrono un altro contributo, se non altro al ripristino di una legalità sociale che è incentivo in sé. La disciplina europea dei mercati e il principio di trasparenza dei costi sociali impediscono invece politiche di incentivazione delle imprese differenziate per aree geografiche. Ma non impediscono di concentrare servizi e risorse sulle persone che, anche in ragione del contesto territoriale e degli elevati tassi di disoccupazione esistenti, incontrano maggiore difficoltà a lavorare. Di migliorarne selettivamente, per usare il termine accolto, l’impiegabilità, anche con interventi straordinari e mirati sulla formazione, l’orientamento, la riqualificazione.

4. Il diritto al lavoro dall’«avere» all’«essere» Nel progetto di società europea, il diritto al lavoro conserva e perde qualcosa. Conserva il suo legame con la crescita ossia con una visione non meramente monetaria e/o finanziaria dell’aumento della produttività del sistema economico e quindi della ricchezza. Il nesso tra crescita e occupazione che nella società industriale fordista era nelle cose, nella società che avanza è terreno di scelte politiche, e non solo monetarie. Il punto è che ormai queste scelte non sono, o sono solo in parte, nelle mani dei poteri costituzionali degli Stati. Ma il nostro Stato, vale la pena di ricordarlo ancora, ha costituzionalizzato il diritto al lavoro, sottraendo alla discrezionalità legislativa e politica dei poteri costituzionali, se non il come, certo il se della concretizzazione delle «condizioni che lo rendono effettivo».

Il diritto al lavoro perde anche qualcosa, rispetto ai densi riferimenti storici che lo connotano, e il qualcosa è il forte orientamento all’«avere» (alla stabilità, all’uniformità). Avere il lavoro, ossia il posto, con le garanzie di stabilità, cosa che si può esprimere anche in termini di property in job, con il corredo di identità di status legata alla qualifica, sono derivazioni storiche del diritto al lavoro che tuttavia sopravanzano il nucleo essenziale e attuale della tutela costituzionale, anche perché rimandano ad un modello di impresa e di organizzazione del lavoro, rigida, uniforme, durevole, che tende al declino. Il diritto al lavoro, sia come «pretesa » sia come «diritto di», sembra spostare il suo baricentro, pur condensando la sua valenza assiologica e prescrittiva, sull’«essere» ossia sulla persona. Quando si parla di impiegabilità, quando si sottolinea l’irrinunciabilità di una tutela che assicuri a chi cerca, o cerca di conservare, il lavoro, uguali punti di partenza ma non di arrivo; quando si indica nelle strategie di sostegno del lavoratore nel mercato del lavoro il meglio che l’approccio microeconomico può fare in aree di alta disoccupazione (fermo restando che senza sviluppo non si creano posti di lavoro); quando infine si denuncia il carattere risarcitorio del nostro welfare e l’assenza o quasi di forme di sostegno del reddito universali e orientate a favorire la riallocazione nel lavoro, e non invece l’autoesclusione a carico dello Stato delle sole categorie che godono di ammortizzatori sociali; altro non si fa che «prendere sul serio il diritto al lavoro» come garanzia costituzionale della «persona sociale», aggiornandola però come garanzia dell’essere anziché dell’avere.

da M. D’Antona, Diritto al lavoro e politiche per l’occupazione, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», supplemento al 3/1999.