Crisi dell'economia e declino della socialdemocrazia

Written by Giorgio Ruffolo Thursday, 08 October 2009 17:54 Print

L’attuale crisi economica offre uno spunto di riflessione per analizzare un’altra crisi, quella delle socialdemocrazie eu­ropee, che è stata drammaticamente messa in evidenza dai risultati delle ultime elezioni, ma che ha le sue radici più in­dietro nel tempo e, in particolare, nell’incapacità dei parti­ti socialisti e socialdemocratici europei di intuire e sfrutta­re a proprio vantaggio la portata internazionalista del pro­cesso di globalizzazione. La “tempesta perfetta” economica offre un’imperdibile occasione per fornire risposte adegua­te e sviluppare un nuovo progetto politico.

Secondo il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi l’attuale crisi economica è la più grave dal 1929, forse la più grave di tutte. È mai possibile che ci si limiti a chiedersi quando finirà e che ci si schieri a destra con gli ottimisti e a sinistra con i pessimisti? Sulle cause e sulle conseguenze di questa crisi, certo, si dispone di ottimi saggi e di prestigiose analisi. Tuttavia, nel dibattito politico il tema è praticamente assente.

Rispetto agli anni Trenta il clima politico, al riguardo, è cambiato radicalmente. Non c’è più traccia di annunci apocalittici sulla fine del capitalismo. Eppure si trattava non di incubi, ma di possibilità concrete. Il capitalismo andò molto vicino alla catastrofe. Oggi, invece, la crisi si inscrive nella continuità politica: è giusto, dunque, escludere ipotesi apocalittiche. Il capitalismo non ha i giorni ma i secoli contati, anche se non è una condizione eterna del mondo; esso è stato, infatti, una delle più grandi rivoluzioni della storia e ha inserito nella modernità una frattura introducendovi tre elementi costituenti di una storia nuova: il primato dell’economia nella società, il primato del capitale nell’economia, il primato del mercato nel capitale. Queste tre caratteristiche sono alla base della quarta: il moto di crescita continuativa che il capitalismo ha impresso all’economia mondiale. Queste caratteristiche fanno del capitalismo un sistema praticamente insostituibile, almeno nella prospettiva storica percepibile. La sua alternativa più grandiosa, quella comunista, è naufragata, e non merita nostalgie.

Tutto ciò, però, non significa affatto che il capitalismo rappresenti una realtà immodificabile. Questa realtà non ha fatto altro che cambiare durante le sua storia avventurosa, adeguandosi ai tempi con prodigiosa versatilità e adattando i tempi a se stessa. C’è stato un capitalismo liberale, un capitalismo keynesiano, un capitalismo neoliberista: ciascuno con sue caratteristiche strutturali specifiche.

Dalla fine dell’ultima guerra mondiale ad oggi abbiamo attraversato due di queste epoche: un’epoca d’oro e una turbolenta. Epoca d’oro è stata definita da Eric J. Hobsbawn – un grande storico non certo simpatetico nei riguardi del capitalismo – quella che va dalla fine della guerra alla metà degli anni Cinquanta. D’oro, perché costituisce per l’insieme dei paesi capitalistici un periodo di grande sviluppo economico e di notevole progresso sociale.

Due sono le caratteristiche principali di quest’epoca. Nel campo dei rapporti internazionali del mondo capitalistico, una supremazia americana incontestabile, ma esercitata appunto in termini “egemonici”, vale a dire con lungimiranza e responsabilità. Nel campo dei rapporti sociali, due “patti” impliciti, o meglio compromessi storici: il primo, concernente la distribuzione del reddito, tra salari e profitti; il secondo, relativo all’allocazione del reddito, tra beni privati e beni pubblici.

Le politiche corrispondenti cui essi hanno dato luogo sono: il primo, le politiche dei redditi, con la regola implicita di una dinamica dei salari e dei profitti proporzionale all’aumento della produttività; il secondo, le politiche del benessere, istitutive di una serie di assicurazioni e protezioni sociali e di fornitura, da parte dello Stato ai cittadini, di beni pubblici. Questa età dell’oro fu interrotta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso da quella che si potrebbe chiamare una controffensiva capitalistica, poiché costituì in qualche modo una risposta alle “conquiste sociali” e ai loro “costi economici” – secondo i punti di vista – che avevano segnato una netta modifica nei rapporti di forza tra economia e politica, tra Stato e mercato, tra lavoro e capitale. Tre sono gli aspetti principali di questa svolta. In primo luogo, il passaggio della supremazia americana dall’esercizio responsabile dell’egemonia a una gestione unilaterale ed egocentrica. Episodio emblematico ne fu lo sganciamento del dollaro dall’obbligo della convertibilità in oro all’inizio degli anni Settanta. Il secondo aspetto fu la liberalizzazione dei movimenti di capitale dai vincoli stabiliti a Bretton Woods, con la conseguente globalizzazione economica. Significative in questo senso furono le decisioni assunte all’inizio degli anni Ottanta rispettivamente da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Infine, la formazione di un mercato finanziario mondiale, centrato su Wall Street, praticamente sottratto a vincoli e regole di natura politica, nazionali e internazionali. Si consideri a questo proposito la completa deregolamentazione, decisa negli Stati Uniti e poi estesa all’Europa, dei vincoli stabiliti in America al tempo del New Deal sulla gestione dei flussi finanziari destinati alle imprese. Si può dire che queste tre decisioni (la deregolamentazione valutaria, quella dei movimenti di capitale e quella finanziaria) costituiscono i momenti del passaggio da un capitalismo socialmente ben temperato a quello che è stato definito da Edward Luttwak «turbocapitalismo », con allusione sia alla sua potenza sia alla sua turbolenza.

Sono due le principali caratteristiche di quest’epoca: il coinvolgimento di vastissime aree depresse del globo (Cina, India) in una crescita della produzione su grande scala, che ha segnato il loro storico ingresso nella modernità, e l’instabilità di questo processo, caratterizzato da gravi crisi, dapprima circoscritte alle zone periferiche del mondo capitalistico (Argentina, Messico, Asia sudorientale, Russia) e da ultimo precipitate in questa crisi attuale, impetuosamente rivolta al centro del sistema.

Bisogna considerare il capitalismo turbolento da ambedue questi punti di vista. La prodigiosa estensione di forme di vita “moderne” a vastissime e popolose aree del mondo, con i grandi progressi materiali che essa comporta – a partire dall’allungamento della vita stessa – è infatti inscindibile dall’alternanza di boom e di crisi, dall’instabilità sistemica.

Oggi quella tormenta ha investito il centro del sistema capitalistico. L’attenzione in queste pagine sarà rivolta soprattutto a tale aspetto e ad altri importanti elementi quali le premesse reali della crisi finanziaria, l’inflazione finanziaria americana, la “tempesta perfetta”.

La maggiore attenzione nei dibattiti sulla crisi si è concentrata sugli aspetti finanziari, sebbene le sue premesse debbano essere individuate nell’economia reale. E precisamente in due elementi: gli squilibri delle bilance dei pagamenti e gli squilibri nella distribuzione del reddito all’interno, in particolare degli Stati Uniti, ma non solo.

Per quanto riguarda gli squilibri esterni, tra il 1996 e il 2008 il disavanzo corrente americano è passato da 125 a 677 miliardi di dollari, e cioè dall’ 1,6 al 4,5% del prodotto nazionale. Nello stesso periodo si è verificato un corrispondente avanzo nei saldi dei paesi esportatori di petrolio (13 miliardi di dollari pari al 14,2% del loro PIL complessivo nel 2008) e di altri paesi non produttori di petrolio come la Germania (279 miliardi di dollari, il 7,3% del PIL) il Giappone (194 miliardi, 4% del PIL) e soprattutto la Cina (399 miliardi, 9,5% del PIL).

Si è così determinato uno squilibrio globale (global imbalance) tra l’eccesso di risparmio (saving glut) nel secondo gruppo di paesi e il difetto di risparmio nel primo gruppo. Il risparmio dei primi ha finanziato i consumi e gli investimenti degli altri. Le economie avanzate, soprattutto quella americana, sono diventate dipendenti da quelle emergenti, in particolare dalla Cina. Si è accresciuto il grado di indebitamento delle prime: lo squilibrio esterno si è aggiunto allo squilibrio finanziario interno.

Quanto agli squilibri interni, sono emersi essenzialmente quelli dell’economia americana. A causa delle innovazioni tecnologico-informatiche, della globalizzazione, che ha permesso l’integrazione dei mercati del lavoro indiano e cinese in quello mondiale, e della deregolamentazione del mercato del lavoro americano, la quota dei redditi di lavoro sul prodotto nazionale è declinata. I salari reali hanno ristagnato per tre decenni, mentre la produttività, spinta dalle innovazioni tecnologiche, aumentava. Per mantenere il loro tenore di vita, le famiglie americane che percepiscono redditi di lavoro hanno fatto continuo ricorso al credito. Nel 1970 il rapporto tra debiti e consumi si aggirava attorno al 70%. Nel 2007 era schizzato al 140%. Si tratta di una seconda formidabile fonte dell’indebitamento. Anziché avvertire questo come un aspetto minaccioso, le massime autorità monetarie americane (Alan Greenspan e Robert Rubin) lo hanno salutato come un segnale positivo di disciplina dei redditi da parte del mercato. E, anziché correggere una politica dei redditi lasciata alla totale disponibilità del mercato, hanno dato pieno sostegno a una politica di deregolamentazione e di formidabile espansione del credito.

Ecco dunque la terza componente della crisi, quella propriamente finanziaria, che integra le altre due “reali”. La finanza ha assunto una posizione dominante e preponderante nell’economia. Il ruolo della finanza è essenziale nell’economia capitalistica, ma è strettamente legato alla sua funzione: quella di convogliare il risparmio verso gli investimenti nelle forme più rapide ed efficienti. Con la politica di deregolamentazione praticata su vasta scala dai governi americani nell’ultima parte del secolo scorso, la finanza è stata trasformata in un settore che provvede principalmente a se stesso. Nel 1981 l’indebitamento promosso dal settore finanziario rappresentava il 22% del prodotto interno lordo, nel 2008 era giunto al 120%.

Come afferma un economista americano, Jeff Faux, «il termine investimento non traduce più il processo di costruzione di un’impresa che genererà reddito nel corso degli anni, ma quello di acquisto di una tranche di “derivati” alle dieci di mattina per rivenderli a mezzogiorno».

Quella che si è sviluppata nelle forme, non previste dagli economisti, di una inflazione finanziaria, si manifesta essenzialmente in tre modi: la deregolamentazione, l’innovazione e l’estensione della leva finanziaria.

La deregolamentazione è il vero e proprio smantellamento delle regole, in gran parte imposte alle banche durante il New Deal, intese a limitare, separare, specializzare l’esercizio del credito per ridurre al minimo i rovesci della speculazione provocati dalla crisi del 1929. L’innovazione è la proliferazione di nuovi contratti e di nuovi intermediari, nella quale la ricerca ossessiva del massimo guadagno nel minimo tempo dimostra tutta la sua fertile potenza.

È impossibile qui, e inutile, ripercorrere sia pure in sintesi questo nuovo mondo di acrobatici esercizi di ingegneria finanziaria. È stato fatto egregiamente, ad esempio, da Luigi Spaventa, che ha districato con esemplare chiarezza un’intricatissima matassa di complicate ricette.

Qui sarà sufficiente trarne, se possibile, il senso profondo: la mercatizzazione del credito.1 I mutui concessi dalle banche non sono più soltanto promesse da onorare, contratti da osservare, ma diventano essi stessi oggetti di compravendita, di contrattazione. Da rapporti sociali bilaterali, “giuridici”, diventano rapporti sociali diffusi, “mercatistici”. Lo scopo di questa mercatizzazione è chiaro: i rischi dei crediti si differenziano e si diffondono, facilitando l’accesso al credito da parte di una clientela molto più vasta. Però, diffondendosi il credito, mentre i rischi esistenti si riducono, ne vengono causati di nuovi e più numerosi. La mercatizzazione, com’è ovvio, amplia il mercato. Proprio questo ampliamento è stato considerato dalla “vulgata” economica come il più positivo risultato della “democratizzazione della finanza”. Si è trascurata la possibilità che rischi più diffusi e meno controllati potessero “precipitare” in determinate circostanze, imprevedibili ma possibili, in fallimenti clamorosi. E che la girandola della moltiplicazione dei rischi, come tutti i processi “alla Ponzi”, ripetitivi, privi di eventi chiave risolutivi, potesse essere interrotta mediante il ritiro dal circuito di alcuni tra i partecipanti.

La “mercatizzazione del futuro”– poiché di questo in fondo si tratta – nasconde tale insidia. Non c’è una porta dove la palla possa fermarsi. Prima o poi qualcuno dovrà lanciarla fuori dal campo. Insomma: non c’è un pagatore di ultima istanza.2

Ci si trova qui in piena “filosofia della crisi”: per ragioni logiche, ancor prima che etiche (ma i due concetti non sono estranei l’uno all’altro), la finanza non può finanziare se stessa.

Si è accennato a una terza caratteristica dell’esplosione finanziaria: l’estensione della “leva finanziaria”. Anch’essa è una conseguenza logica, non un semplice azzardo. La moltiplicazione dei rischi comporta una loro estensione. Per abbracciare uno spazio di rischio più grande occorre una leva più forte.

Questa «euforia irrazionale» – il termine è di Robert J. Shiller,3 che ha descritto in termini rigorosi, ma a quanto pare ignorati da economisti e politici osservanti, il meccanismo delle bolle speculative – è sfociata nella peggiore crisi di questi ultimi settant’anni. 4 Una «crisi perfetta», è stata definita da Ben Bernanke. Ricorda “La tempesta perfetta”, il film di Wolfgang Petersen nel quale un gruppo di pescatori riceve in alto mare l’allarme su una tempesta che sta montando alle loro spalle, ma decide di non rinunciare alla ricchissima preda offerta dai banchi di pescespada che gli stanno di fronte; e così, investiti dall’uragano Grace, periscono tutti miseramente. Questo tragico esito sembra ormai scongiurato per quanto riguarda la crisi economica, che, diversamente da quella degli anni Trenta, è stata affrontata con prontezza, determinazione e un vasto spiegamento di forze.

Si calcola che finora i governi dei paesi occidentali abbiano gettato nella fornace della crisi, in una forma o nell’altra, all’incirca il 10% del loro prodotto interno lordo. Se questo sarà sufficiente ad arginarla definitivamente non lo si può ancora dire. La questione tuttavia non è tanto sapere quanto durerà la frenata provocata dalla crisi, ma quali saranno i problemi che ne deriveranno.

Le opinioni in proposito variano lungo un ampio raggio. Si presentano immediatamente e naturalmente i due scenari opposti che potrebbero essere chiamati del “ripristino” e del “ritorno”.

Ripristino del ritmo e del tipo della crescita esistente prima del diluvio: heri dicebamus, l’aspirazione suprema dell’ideologia economica dominante. Lo Stato paghi i conti della crisi e si ritiri dalla scena il più presto possibile, senza altro pretendere. E tutto tornerà come prima. È un’aspirazione irrealizzabile, non per ragioni di giustizia ma di irreversibilità storica: non si può ricreare un clima psicologico e delle motivazioni che sono stati spazzati via dalla crisi e che non possono essere “riesumati”, non più di quanto fosse possibile negli anni Trenta riesumare l’euforia degli anni Venti. La crisi ha deviato i grandi flussi della crescita dalle direzioni che avevano preso, e tali flussi assumeranno, anche nel caso di una ripresa degli “spiriti animali”, nuovi orientamenti e nuove direzioni.

Altrettanto irrealistico è un ritorno al clima economico dell’età dell’oro, fortemente caratterizzato da un capitalismo ben temperato, sorretto da regole keynesiane. Un ritorno a quello che in Europa è stato definito, con molta approssimazione, il compromesso socialdemocratico e che ha caratterizzato il successo dei partiti socialisti e riformisti nell’Europa degli anni Sessanta. Quel ritorno appare oggi improponibile. La controffensiva capitalistica degli anni Settanta-Ottanta ha travolto i confini economici degli Stati instaurando, particolarmente attraverso la liberalizzazione dei movimenti di capitale, una globalizzazione delle economie capitalistiche. Quella che avrebbe dovuto essere la caratteristica specifica del socialismo – l’internazionalismo – è stata realizzata pienamente dal capitalismo. I partiti socialisti e socialdemocratici, al contrario, si sono chiusi in quella gabbia politica che Nino Andreatta definiva ironicamente «socialnazionalismo». Essi hanno contrastato, peraltro assai debolmente, la globalizzazione, anziché considerarla – come avrebbe fatto Marx – la premessa economica a un nuovo ordine politico socialista e internazionalista. Da questo punto di vista la politica dei partiti socialisti in Europa è stata particolarmente dissennata. Anziché puntare con decisione sull’unificazione europea, come contraltare politico democratico alla globalizzazione economica – una risposta socialista alla globalizzazione capitalistica – le socialdemocrazie si sono proposte come campioni degli interessi nazionali. In tal modo hanno clamorosamente perduto un’occasione storica preziosa, negli anni in cui i partiti socialisti e socialdemocratici, da soli o nell’ambito di coalizioni di centrosinistra, erano giunti al governo in quasi tutti gli Stati dell’Unione europea.

Oggi una politica socialdemocratica di tipo keynesiano è improponibile a livello nazionale. Né è sostenibile un ripiegamento reazionario verso il protezionismo, che sarebbe la tomba di quel socialnazionalismo piccolo borghese e provinciale venduto dai vari Blair come la terza via vittoriosa della socialdemocrazia. Insomma, factum infectum fieri nequit. Ciò che è fatto è fatto. Il mondo è cambiato. E bisogna cercare altre soluzioni.

Su quali possano essere tali soluzioni è vano formulare previsioni. È probabile che per un periodo indeterminato di tempo le condizioni dell’economia mondiale oscilleranno tra le opposte tendenze a introdurre nuove norme di regolazione dei mercati e a difendersi da quelle stesse norme.

Anziché formulare ricette è più utile tentare di individuare i nuovi grandi problemi che la crisi ha posto e che, in qualche modo, al di là delle contingenze, dovranno essere affrontati. A questo scopo sarà necessario ripartire da quelle caratteristiche storiche del capitalismo che sono state enunciate all’inizio, per domandarsi fino a che punto, nella nuova prospettiva storica, possano essere poste in causa: il primato dell’economia, il primato del capitale, il primato del mercato, la crescita. Se ne discuterà qui in un ordine diverso.

Si è parlato di mercatizzazione della finanza, quando cioè il credito, un rapporto contrattuale, viene trasformato in uno strumento che si compra e si vende sul mercato. Si tratta di una tendenza più generale del capitalismo a una progressiva mercatizzazione. La mercatizzazione investe per primi i beni e i servizi, quindi i fattori di produzione, come la terra e il lavoro, e da ultimo le regole. Questa è la fase critica che può portare il mercato all’autodistruzione. Un mercato nel quale contratti e leggi possono essere comprati e venduti sistematicamente (non solo patologicamente) non può letteralmente mantenersi in piedi. C’è, nei processi di deregolamentazione, un punto oltre il quale la deregolamentazione diventa sregolatezza. Ciò è avvenuto non in uno ma in più punti del sistema finanziario durante la fase euforica dell’ultima crisi: con la conseguenza di una sua “ubriacatura” (un esempio è costituito dalle agenzie di rating coinvolte nell’interesse a massimizzarlo).

Il mercato ha bisogno, per funzionare, di strutture non mercatizzabili: sia a livello internazionale (le intese fondamentali dell’ordine monetario che determinano gli equilibri da osservare nei flussi della ricchezza tra i vari paesi) sia a livello sociale (le soglie da osservare tra ciò che si può e ciò che non si può comprare e vendere).

Il primato del capitale non può sovrastare gli altri fattori di produzione, in particolare il lavoro, senza generare squilibri alla lunga intollerabili nella distribuzione del reddito. Come si è visto, nelle fasi iniziali della crisi è avvenuto proprio ciò: il ristagno relativo dei redditi da lavoro ha provocato il massiccio ricorso all’indebitamento.

Inoltre, squilibri altrettanto gravi possono essere provocati da un afflusso sproporzionato di capitali verso la produzione di beni privati rispetto a quelli destinati alla produzione di beni sociali. Anche qui, il capitalismo deve essere ben temperato, per evitare che il traffico incontri strozzature (troppe auto, pochi ponti). Un eccesso di titoli rispetto ai beni reali provoca congestioni analoghe.

Come si è detto, è nell’intreccio tra accumulazione del capitale e mercatizzazione che il capitalismo trova la fonte della crescita continua che sembra diventata, all’incirca da un secolo, la sua legge esistenziale. Sembra che solo pedalando forsennatamente si possa evitare la caduta. Ma pedalare senza soste è alla lunga impossibile. Il capitalismo incontra prima o poi i limiti ecologici della sostenibilità.

Negli ultimi trent’anni il tasso di aumento della produzione mondiale è stato in media pari al 2,3%. Se lo stesso tasso dovesse mantenersi nei prossimi cinquant’anni – un periodo relativamente breve – la produzione mondiale triplicherebbe. Se lo si proiettasse nei cinquant’anni successivi l’aumento sarebbe di venticinque volte. È il terrore degli interessi composti.

Negli ultimi decenni il dramma dell’insostenibilità è apparso all’orizzonte rivelando le premesse “insostenibili” dell’economia politica; il processo economico è un sistema chiuso tra produzione e consumo: di ciò che viene prima della produzione e di ciò che avviene dopo il consumo, dell’esaurimento e dell’inquinamento non ci si preoccupa. Il sistema dei prezzi, si dice, permette di affrontare le scarsità relative; ed è vero. La tecnologia le scarsità assolute; e non è vero. La tecnologia incontra i limiti posti dalla seconda legge della termodinamica, dell’inesorabile aumento dell’entropia. Il saccheggio delle risorse incontra limiti di esaurimento e di inquinamento. Ma incontra limiti anche la produzione di bisogni. Se non si tratta di bisogni assoluti, ma di esigenze indotte dai consumi degli altri, lo scopo del processo economico diventa “autofrustrante”. Si distrugge la natura per uno scopo irraggiungibile, come quello dei cani da corsa che inseguono una lepre di pezza. Non si può evitare il problema di una svolta decisiva nella storia dell’umanità: il passaggio da una economia in crescita illimitata a un’economia, non della decrescita – una definizione fuorviante, che evoca visioni primordiali – ma dello sviluppo equilibrato, nella quale la quantità di risorse resta costante e la qualità muta continuamente. È l’utopia concreta dello stato stazionario che era stata evocata già dagli economisti classici, primo fra tutti John Stuart Mill, e che è stata rievocata ai nostri tempi dagli economisti ecologisti, primo fra tutti Nicholas Georgescu-Roegen.

È appena il caso, giunti a questo punto, di osservare che questo passaggio da un’economia in crescita illimitata a un’economia dello sviluppo equilibrato comporta ben più di una “ripresa” della crescita; e addirittura ben più di una riforma dell’economia. Comporta una visione della società non dominata da quest’ultima: una società “transeconomica” nella quale l’economia svolga un ruolo essenziale rispetto al benessere materiale, ma subordinato a una disciplina ecologica e inserita in una società rivolta al progresso scientifico, civile e morale.

Queste affermazioni perdono il loro carattere apparentemente declamatorio e acquistano concretezza quando si osserva, come si fa ormai in una fitta letteratura, che queste tendenze allo sviluppo di una società “metaeconomica”, lungi dal librarsi come utopie, sono all’opera ormai da tempo e su vasta scala, grazie al formidabile ruolo assunto, nel nostro tempo, dall’informazione.

Si parte, nel considerare questo ruolo, da fatti banali ben noti. In primo luogo, che da lungo tempo, ormai, l’attività economica si rivolge sempre più, anziché alla produzione di cose, alla prestazione di servizi, dai più banali ai più impegnativi e complessi. Ciò rende più difficile la loro quantificazione e misurazione, cioè la loro “valorizzazione”.

Per un’economia basata sullo scambio, come la nostra, già questo è un problema. Ma la questione più rilevante è che questi servizi tendono a sottrarsi allo scambio, ovvero al mercato. Quest’ultimo non è uno stato di natura, ma un’istituzione. Per millenni gli uomini hanno fatto a meno del mercato. A un certo punto, come ha spiegato Adam Smith, si sono accorti che era più conveniente dividersi il lavoro e scambiarsi i prodotti del lavoro, in quanto i costi dello scambio erano minori di quelli dell’apprendimento.

Con lo sviluppo dell’informazione, però, i costi dell’apprendimento sono drasticamente diminuiti. Ed è diventato in molti casi meno costoso (e più piacevole) produrre direttamente che comprare e vendere. La divisione del lavoro tra produttori e consumatori è venuta meno. I consumatori sono diventati produttori, Alvin Toffler con il suo linguaggio esoterico, li ha definiti «prosumatori». L’area delle attività economiche sottratta allo scambio ha ricominciato ad allargarsi e ciò ha creato per l’economia più di un problema. Finché l’area dell’autoconsumo era marginale, infatti, non sembrava grave non rilevarla. Se, come oggi pare,5 essa comprende già una buona metà delle attività, la nostra attuale contabilità economica diventa insignificante.

Inoltre, quando la ricchezza consiste di informazioni, queste, a differenza delle cose materiali, si conservano, anche se usate. Un brano musicale non si consuma se viene suonato. Anzi, l’informazione usata si accumula. Se due persone si scambiano un dollaro, ciascuna resta con un dollaro. Se si scambiano un’idea, entrambe restano con due. Insomma, l’informazione non sembra (quel “sembra” è importante anche se non è possibile soffermarsi sul concetto in queste pagine) essere soggetta alla legge generale della degradazione (aumento dell’entropia) e, per quanto riguarda l’economia, a quella della scarsità. Contrariamente al più venerato dei motti degli economisti – non esistono pasti gratuiti – internet offre informazioni gratuite che possono essere liberamente utilizzate violando i diritti d’autore. Ciò crea nuovi problemi conflittuali, e il libero mercato, per difendersi, deve minacciare di intervenire penalmente contro i trasgressori.

Quali conclusioni si possono trarre in ordine allo spunto iniziale, ovvero la crisi delle socialdemocrazie? Il tema è stato qui affrontato ampliandone notevolmente i termini, in modo da inquadrarlo in uno spazio che trascenda le sfide politiche che si pongono immediatamente ai partiti e agli eredi dei partiti socialdemocratici. Chi scrive è infatti convinto che una ricostruzione della sinistra riformista esiga una riflessione più ampia.

Per questa ragione si è deciso di partire da quella grande crisi economica cui proprio la sinistra dovrebbe dare una risposta. Si sono ripercorsi i suoi antecedenti: l’età dell’oro socialdemocratica, la controffensiva capitalistica liberista, le premesse reali della crisi – sia gli squilibri esterni dei pagamenti internazionali, sia quelli interni di distribuzione del reddito – e la grande deregolamentazione finanziaria che ha prodotto la sregolatezza del credito, dalla quale è nata la crisi perfetta. Si è tentato di spiegare l’improbabilità di un ripristino dello status quo ante, ma anche di un ritorno a un compromesso socialdemocratico di cui non esistono le basi nell’attuale assetto dell’economia globalizzata. Occorre dunque praticare altre vie, le quali sembrano avere come presupposto la ripresa della crescita.

A questo punto, però, emerge il nuovo spettro: l’insostenibilità della crescita nel lungo periodo. E riaffiora l’utopia concreta di un’economia in equilibrio dinamico (o, il che è lo stesso, in stato stazionario). Si è infine riferito di quelle nuove correnti di opinione che registrano una tendenza storica emergente, simmetricamente opposta alla mercatizzazione: l’espansione di un vasto spazio di attività economiche immateriali e non monetarie, che sembra sottrarsi al vincolo supremo della scarsità.

Per quanto riguarda il tema iniziale, è possibile affermare che una risposta alla crisi della socialdemocrazia non ci sarà fino a quando essa non avrà un messaggio suo proprio, che le permetta di distinguersi dalla destra, che le consenta di riacquistare poteri persi e che risponda a bisogni profondi e oggettivi della società.

Le due qualità politiche caratterizzanti sono quella di essere portatrice di un grande disegno politico, come quello europeo, e di un’inderogabile esigenza di eguaglianza e di giustizia sociale. Europa e welfare dovrebbero, dunque, essere le bandiere della socialdemocrazia.

Il concreto progetto politico di una federazione europea risponde all’esigenza di recuperare il primato della politica su un’economia fortemente condizionata dai poteri delle multinazionali e delle fluttuazioni dei mercati finanziari.

La riforma del welfare risponde all’esigenza di reidentificarsi con questa sua gloriosa conquista, ma liberandola dalle pesantezze burocratiche che l’hanno sfigurata e aprendola alla rete delle iniziative sociali autonome che possono vivificarla. Insomma, la sinistra deve riappropriarsi del suo messaggio e della sua storia.


[1] L. Spaventa, La grande crisi finanziaria del nuovo secolo, in XXI Secolo, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. III, in corso di pubblicazione.

[2] Questa condizione potrebbe essere definita la vendetta del postero. Dice Woody Allen: «Perché dovremmo preoccuparci dei posteri? Che cosa hanno fatto per noi? Dobbiamo preoccuparcene proprio perché non esistono; e non possono quindi pagare i nostri conti».

[3] R. J. Shiller, Euforia irrazionale. Analisi dei boom di borsa, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] La riflessione di Shiller era stata preceduta da quella di Hyman Minsky ed è stata seguita da quella di Charles P. Kindleberger. Tutto si può dire tranne che non esistessero, a disposizione dei policy makers, solide impalcature teoriche per interpretare correttamente ciò che stava succedendo. Sia Greenspan che Rubin erano stati avvertiti del resto, nella primavera del 1998, dal
responsabile della commissione incaricata della sorveglianza del mercato dei “derivati”, che esso si trovava “fuori controlllo”. La loro risposta era stata un invito esplicito a non parlarne. Del resto lo stesso Greenspan si lasciò sfuggire un giorno, a proposito degli eccessi di Wall Street, l’espressione: «Euforia irrazionale ». Nella sua autobiografia racconta che l’idea gli era venuta
mentre stava facendo il bagno. Sui mercati successe un finimondo. Greenspan rientrò in bagno, ma un altro bagno era in vista.

[5] Si veda in proposito A. Toffler, H. Toffler, Revolutionary Wealth, Knopf, New York 2006.