Il ruolo delle Nazioni Unite nel processo di pace in Medio Oriente

Written by Alvaro De Soto Thursday, 02 July 2009 17:52 Print

Dall’armistizio che nel 1949 pose fine alla prima guerra arabo-israeliana alla costituzione del Quartetto nel 2001, le Nazioni Unite sono rimaste ai margini dei negoziati di pace in Medio Oriente. Tuttavia, l’inclusione del segretario generale nel Quartetto se da un lato ha permesso il coinvolgimento dell’ONU nel processo di pace, dall’altro è stato all’origine di una situazione ambigua che ha portato la più alta carica delle Nazioni Unite ad avallare azioni contrarie ai principi sanciti dallo Statuto dell’ONU.

Sono molte le difficoltà che si incontrano, nell’era della globalizzazione, quando si tenta di dividere i conflitti in compartimenti geografici, soprattutto dopo l’11 settembre 2001. Le Nazioni Unite svolgono vari ruoli nell’area geografica compresa tra il Mediterraneo e la Mesopotamia, ma i lettori comprenderanno se, per le finalità di questo articolo, ci si limiterà a parlare del conflitto arabo-israeliano e, al suo interno, di quello israelo-palestinese, che ne rappresenta il nodo cruciale.

Ci si concentrerà sul ruolo politico e diplomatico dell’ONU e, in particolare, del suo segretario generale, che conduce la propria attività diplomatica direttamente o attraverso degli inviati. Gli organismi delle Nazioni Unite svolgono una funzione indispensabile per il mantenimento della pace e per l’assistenza ai profughi palestinesi, che sono milioni, sparsi nei territori occupati, in Giordania, Libano e Siria. Ma sin dall’armistizio – concluso dal mediatore ONU Ralph Bunche nel 1949 – che pose fine alla prima guerra arabo-israeliana, e fino alla costituzione del Quartetto per il Medio Oriente nel 2001 (di cui fanno parte l’ONU, l’Unione europea, la Russia e gli Stati Uniti), le Nazioni Unite sono state lasciate ai margini delle attività politiche e diplomatiche nella regione, soprattutto a causa del sospetto, da parte di Israele, che all’ONU albergasse un pregiudizio anti-israeliano.

La costituzione, nel 2001, del Quartetto, del quale il segretario generale fu tra gli architetti e i membri fondatori, offrì l’opportunità di un ritorno dell’ONU sulla scena diplomatica e politica. Lo scopo principale dell’iniziativa, nel periodo della seconda Intifada, con il rischio incombente di un fallimento del processo di Oslo, era di fornire al presidente americano George W. Bush – riluttante a impegnarsi in quell’attività diplomatica di coinvolgimento diretto per la quale era famoso il suo predecessore – uno strumento che permettesse agli Stati Uniti di svolgere il ruolo di guida, senza il quale è difficile immaginare il raggiungimento della pace. L’iniziativa ebbe successo su un punto: il presidente Bush considerò per la prima volta la prospettiva di una soluzione del conflitto attraverso la creazione di due Stati, e il Quartetto disegnò una road map in tre fasi, basata sull’assolvimento di condizioni concrete, per raggiungere quell’obiettivo. L’OLP accettò la Road Map senza riserve, mentre Israele condizionò il proprio assenso all’inserimento di quattordici commenti che in pratica produssero un’altra Road Map – assai diversa da quella avallata dal Consiglio di Sicurezza. Il presidente Bush non arrivò mai vicino al genere di coinvolgimento, di impegno coraggioso e di presenza continua che sarebbero stati necessari per procedere in modo franco in direzione dell’obiettivo auspicato.

Il Quartetto, tuttavia, acquisì una vita propria, come meccanismo elastico e itinerante di consultazione e coordinamento. Ciò detto, sebbene fosse chiara l’utilità di coinvolgere nell’area mediorientale la potenza degli Stati Uniti, le risorse dell’Unione europea e il ruolo storico della Russia – tre attori che altrimenti sarebbero stati tentati di prendere iniziative contrastanti (della parte giocata dalle Nazioni Unite si parlerà più avanti) – e malgrado fosse essenziale l’ampio consenso sul ruolo centrale riservato agli Stati Uniti, il Quartetto in quanto tale non ha svolto la funzione di monitoraggio prospettata nella Road Map, anzi non ha svolto alcun ruolo in autonomia. In realtà, quello che è stato il progresso più significativo dalla creazione della Road Map – il ritiro di Israele da Gaza nell’agosto 2005 – è stato un atto unilaterale che ha finito per scavalcare il metodo in fasi e ha riconsegnato il Quartetto a un ruolo marginale.

Oggi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che è il principale organo responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, guarda al Quartetto come a una guida. La partecipazione al Quartetto ha offerto alle Nazioni Unitela prima occasione dal 1949 per contribuire al raggiungimento della pace in Medio Oriente. La presenza nel Quartetto assicura al segretario generale la possibilità di sedere al tavolo della diplomazia mondiale. Secondo la prassi stabilita, è lui che legge le comunicazioni alla stampa e questo lo rende il relatore e il portavoce ufficiale del Quartetto. Inoltre, grazie al ruolo che riveste, egli conferisce una certa legittimità alle azioni e alle prese di posizione del Quartetto – azioni e posizioni che però ha poche possibilità di influenzare e che ne limitano l’indipendenza. In un certo senso, il segretario generale è stato assorbito nel Quartetto: la posizione delle Nazioni Unite, rappresentata dal segretario generale, non è più distinguibile da quella del Quartetto ed egli ha rinunciato alla possibilità di esprimersi criticamente a riguardo.

Poiché al segretario generale compete la nomina dei responsabili dei programmi delle Nazioni Unite – per esempio della United Nations Relief and Works Agency (UNRWA), l’agenzia che si occupa dell’assistenza ai profughi palestinesi – la più alta carica dell’ONU ha anche una certa responsabilità nei loro confronti, anche se uno scarso controllo sulle loro attività quotidiane. Dunque, al di là del merito intrinseco del suo coinvolgimento nel Quartetto, si pone una questione cruciale riguardo all’interazione tra il Quartetto e le attività dei programmi ONU: collaborano in modo sinergico? Si limitano a incrociare le proprie azioni? Sono in sostanziale contraddizione e confliggono direttamente?

Tutto è andato bene finché il Quartetto si è mosso nella direzione stabilita e il segretario generale non ha dovuto agire in contrasto con i principi e la prassi delle Nazioni Unite. Le cose sono bruscamente cambiate il 25 gennaio 2006, quando i palestinesi sono andati alle urne per eleggere il nuovo Consiglio legislativo dell’Autorità palestinese. Il Quartetto si è riunito a Londra il 30 gennaio 2006, appena cinque giorni dopo, e ha preso posizioni che hanno messo il segretario generale e il suo ruolo sotto una luce diversa e sgradevole. Si trattava di posizioni che non solo si ponevano in contrasto con quanto precedentemente sostenuto dal Quartetto, ma entravano persino in contraddizione con i principi e la prassi delle Nazioni Unite; infliggevano un grave colpo alle condizioni di vita e agli interessi di lungo periodo dei palestinesi e, sarebbe il caso di dire, alle stesse speranze di pace per il Medio Oriente. Ne è derivata, in larga misura, una serie di disastri provocati, o almeno favoriti, dal Quartetto. Da quel momento in poi la partecipazione del segretario generale al Quartetto non è stata più fonte di semplice disagio, ma si è trasformata in un problema molto più serio.

Come si è giunti a questo punto? All’inizio del 2005, poco dopo essere stato eletto, il successore di Yasser Arafat, Mahmoud Abbas, più noto con il nome di Abu Mazen, cercò di cooptare nella corrente di maggioranza le varie fazioni palestinesi e, in particolare, quella di gran lunga più potente, Hamas, poiché senza il loro contributo non avrebbe potuto controllare la violenza anti-israeliana e riavviare i negoziati. Abu Mazen riuscì a convincere Hamas a cessare gli attacchi contro Israele e a partecipare alle elezioni legislative, fortemente incoraggiate dagli Stati Uniti e dall’Europa, inizialmente previste per il luglio di quello stesso anno. A sua volta Abu Mazen avrebbe fatto pressioni per una riforma dell’OLP, in modo che fosse possibile accogliere Hamas. Sebbene il primo ministro israeliano Sharon si opponesse a gran voce alla partecipazione di Hamas alle elezioni, la strategia di Abu Mazen, che puntava alla sua inclusione, incontrò il sostegno del Quartetto. Il terreno sembrava fertile e i leader di Hamas già parlavano della creazione di uno Stato nei territori rimasti sotto controllo arabo fino al 4 giugno 1967. Resa forte dalla propria reputazione di onestà e disciplina, Hamas presentò un programma pragmatico, ben diverso dal suo impegno solenne del 1988, che esortava all’eliminazione di Israele. Facendo una campagna nel rispetto del gioco democratico, Hamas trasse vantaggio dall’immagine offuscata, dall’eccesso di fiducia, dal dilettantismo e dalla disorganizzazione di Fatah, il partito di Abu Mazen, e nelle elezioni che si tennero il 25 gennaio conquistò un numero di seggi sufficiente a formare un governo.

Il 30 gennaio 2006 un Quartetto sbigottito dalla sorpresa si trovò di fronte a un dilemma: da una parte c’era la strategia di inclusione di Hamas portata avanti da Abu Mazen e avallata dai Quattro, il cui successo era andato ben oltre le aspettative; dall’altra c’era il sentimento di orrore degli Stati Uniti, condiviso dall’Unione europea, per l’avvento al potere – in seguito ad elezioni fortemente incoraggiate da Washington, in quanto facevano parte della sua politica di democratizzazione del Medio Oriente – di un partito con un passato di azioni terroristiche che, a prima vista, lo metteva sullo stesso piano degli attentatori dell’11 settembre.

La vittoria di Hamas mise l’Occidente e soprattutto gli Stati Uniti in una situazione estremamente difficile. Hamas aveva raccolto la sfida americana, giocando sul campo degli Stati Uniti, e aveva vinto. La democrazia impone il rispetto dell’esito delle elezioni, che esso piaccia o no. Hamas non aveva di sicuro intenzione di rinunciare alla lotta contro l’occupazione, ma sembrava adesso muoversi in una direzione che in precedenza aveva evitato: le elezioni alle quali aveva preso parte si erano tenute nel quadro degli accordi di Oslo, accordi che fino a quel momento il movimento palestinese non aveva riconosciuto. Era quindi possibile supporre che Hamas avrebbe potuto spingersi ulteriormente nella direzione di una maggiore apertura. Accettando di interrompere gli attacchi contro Israele e rispettando gli impegni presi, Hamas dimostrava la capacità e la disponibilità ad allentare la presa. I suoi leader sembravano pronti ad accogliere, tacitamente se non esplicitamente, tanto una soluzione che prevedesse la creazione di due Stati quanto la formazione di un governo di ampia maggioranza. Si trattava di segni inequivocabili che preludevano a un impegno e lasciavano ben sperare per un’evoluzione futura nella stessa direzione. Poi c’era la brutale questione della potenza di fuoco: senza Hamas la leadership palestinese non poteva sperare di garantire la pace a Israele. Un governo con un ampio consenso, invece, avrebbe avuto la forza necessaria per assicurare la calma e offrire a Israele un interlocutore molto più valido.

Nei fatti l’opportunità non fu colta, fu addirittura screditata. Gli Stati Uniti vedevano il dilemma con le lenti della “guerra globale al terrorismo” che faceva perdere loro di vista la sostanziale differenza tra al Qaida, con la sua linea nefasta, nichilista, prewestfaliana, e Hamas, un’organizzazione fondata su un sentimento di rivalsa, con una forte base popolare. Posti di fronte alla scelta tra combattere senza compromessi un gruppo presente sulla lista delle organizzazioni terroristiche – senza tener conto delle sue caratteristiche e delle enormi differenze rispetto agli attentatori dell’11 settembre – e promuovere la democratizzazione e le trattative con un interlocutore che godeva di un ampio consenso fra i palestinesi, gli Stati Uniti scartarono sbrigativamente questa seconda opzione. Fino al 25 gennaio 2006 si era puntato alla cooptazione e all’inclusione di Hamas, attraverso l’offerta di incentivi, affinché collaborasse al processo di pace. Dopo quella data, sebbene avessero vinto alle elezioni, gli uomini di Hamas furono relegati nel ruolo che avevano anche in precedenza, quello di bersagli della “guerra globale al terrorismo”.

Così, il 30 gennaio 2006, dopo essersi congratulato con il popolo palestinese per come aveva partecipato alle elezioni, il Quartetto si attivò per isolare il nuovo governo: i suoi esponenti «dovevano impegnarsi per la non violenza, dovevano riconoscere Israele e accettare gli accordi e gli impegni precedenti, compresa la Road Map»; l’assistenza in futuro sarebbe stata inevitabilmente riconsiderata a fronte del rispetto di tali impegni. Gli Stati Uniti scoraggiarono con forza la partecipazione al governo di personalità esterne ad Hamas e Fatah respinse l’invito a entrare nel governo. Nel Quartetto non venne presa una posizione chiara sulla questione dei contatti con Hamas e con il nuovo governo, ma gli Stati Uniti e l’Unione europea rifiutarono di averne e l’inviato del segretario generale dell’ONU nella regione – che era anche il suo delegato presso l’Autorità palestinese – ne seguì l’esempio.

Rimane il dubbio su cosa perseguissero gli esponenti del Quartetto insistendo nella politica draconiana che venne seguita. Volevano il rispetto delle loro richieste? In quel caso, pretenderlo pubblicamente era assolutamente il metodo sbagliato per ottenerlo. Oppure volevano porre condizioni che prevedibilmente non sarebbero state rispettate? L’ex segretario di Stato americano, Colin Powell, ha dichiarato a tal proposito: «Non è possibile negoziare dicendo alla controparte: ‘Dateci quello che produrranno le trattative prima ancora che le trattative comincino’».

In base alle proprie leggi, gli Stati Uniti e l’Unione europea non potevano fornire assistenza ad Hamas, e infatti non lo fecero. Entrambi decisero di estendere questo divieto anche al governo dell’Autorità palestinese costituito da Hamas dopo aver ricevuto l’incarico da Abu Mazen, in qualità di presidente dell’Autorità, e dopo la conferma del Consiglio legislativo. Una cosa è non finanziare un’organizzazione impegnata in azioni terroristiche, tutt’altra cosa è bloccare gli aiuti all’Autorità palestinese, il cui nuovo governo era stato democraticamenteeletto e sul quale la popolazione contava per assicurare l’assistenza sanitaria e l’istruzione ai propri figli. È vero che il governo era composto in maggioranza principalmente, ma non esclusivamente, da esponenti di Hamas, ma ciò era dovuto, almeno in parte, al fatto che molti candidati ministri che non appartenevano ad Hamas erano stati esortati a non unirsi alla nuova compagine governativa.

Oltre al ritiro degli aiuti, Washington introdusse norme che in pratica impedivano a qualsiasi banca di trattare con l’Autorità palestinese, rendendo così difficile, per donatori che non fossero gli Stati Uniti e l’Unione europea, mandare aiuti. Per parte sua, Israele interpretò la posizione del Quartetto come un permesso per trattenere l’imposta sul valore aggiunto e i dazi doganali versati da importatori ed esportatori palestinesi, che ammontavano a un terzo del totale delle entrate medie dell’Autorità, sebbene di trattasse di denaro palestinese, che Israele era tenuta a trasferire ai sensi di un’intesa sottoscritta nel quadro degli accordi di Oslo – uno dei «precedenti accordi e impegni» dei quali il Quartetto esigeva il rispetto da parte del nuovo governo palestinese.

Gli eventi che seguirono la rapida reazione del Quartetto alla vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006 devono indurre a una riflessione: si fecero sforzi enormi per vanificare i risultati delle elezioni e ostracizzare il governo dell’Autorità palestinese, con un grande costo in termini umani. Ben poco fu fatto per incoraggiare la riunificazione palestinese, anzi si operò in senso contrario. Furono fatti tentativi, poi rivelatisi vani, di sostenere il partito sconfitto con iniezioni di capitale, rafforzando in modo selettivo le forze di sicurezza e promuovendo trattative separate con Israele – per fare la pace con metà dei palestinesi e la guerra con l’altra metà, come notò un osservatore americano. Si può dunque affermare a ragione che l’esplosione di violenza a Gaza, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, sia stata dovuta all’ostinato tentativo di escludere Hamas. Tuttavia c’è ragione di sperare che la lezione – appresa nei luoghi più diversi, dal Salvador, all’Irlanda del Nord, all’Iraq – secondo la quale le politiche di esclusione non funzionano sia finalmente fatta propria e contribuisca a muoversi in una direzione più proficua.

Gli Stati possono fare errori e in effetti ne fanno: i loro leader devono risponderne davanti al proprio popolo. Per il segretario generale dell’ONU la situazione è diversa: egli è infatti una specie di rara avis all’interno del Quartetto. Il suo ruolo di garante della pace non trova fondamento nello Statuto delle Nazioni Unite. I suoi colleghi nel Quartetto, il segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri russo, sono esponenti di alto rango di governi di paesi sovrani – che sono fra l’altro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, al quale il segretario generale deve rispondere. Ma quest’ultimo ha anche una posizione diversa rispetto al suo terzo collega, l’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune, che è vicino al vertice della piramide dell’Unione europea, un’organizzazione che ha una comune politica estera e di sicurezza, che può vantare un enorme potere economico e dispone di un formidabile arsenale di competenze e di influenze politiche.

Il segretario generale di per sé esercita uno scarso potere e non ha nessuna autorità sovrana. Non è un policy maker. Non gioca nello stesso campionato dei suoi tre partner. Gli organi e i programmi delle Nazioni Unite assicurano al sistema ONU una solida presenza sul campo – che comprende un inviato nel Quartetto – e offrono al segretario generale un certo margine di trattativa, ora che sono assenti altre grandi organizzazioni umanitarie. Malgrado ciò, a lui resta poca influenza sulle attività quotidiane e gli obiettivi perseguiti dalle varie agenzie collegate alle Nazioni Unite non sono sempre in sintonia con le linee del segretario generale.

In ultima analisi il segretario generale è utile ai suoi partner perché porta il marchio di fabbrica delle Nazioni Unite. La sua presenza conferisce al Quartetto una certa legittimità o, almeno, crea l’illusione di una legittimità e fa da schermo alle critiche. In questo sta anche il maggior rischio che la più alta carica dell’ONU si trova a dover affrontare: la legittimità è una moneta che si svaluta facilmente.

Le Nazioni Unite hanno svolto un importante ruolo di coordinamento dopo Oslo, facendo in modo che l’assistenza favorisse lo sviluppo delle istituzioni e desse ai palestinesi la capacità di erogare servizi alla popolazione, come fa uno Stato. Sfortunatamente la presenza nel Quartetto associa il segretario generale a politiche e interventi che hanno gravemente indebolito proprio tali istituzioni palestinesi e la loro capacità di erogare servizi, per esempio quelli relativi all’istruzione e alla sanità. Le scelte politiche del Quartetto non solo rendono molto più difficile il lavoro dei programmi e degli organismi delle Nazioni Unite nei territori occupati, ma è possibile affermare che molto di quel lavoro abbia oggi lo scopo di mitigare i danni provocati dalle scelte politiche che il segretario generale, continuando a far parte del Quartetto, in pratica avalla. Un giorno dopo l’altro, come Sisifo, il sistema delle Nazioni Unite cerca di porre rimedio a ciò che esso stesso contribuisce a distruggere.

Non si tratta solo dei danni arrecati alla parte palestinese: astenendosi dall’esercitare pressioni su Israele affinché cambi atteggiamento, la comunità internazionale rafforza la falsa convinzione del governo israeliano che sia possibile arrivare a una composizione con una Palestina divisa, negoziare con la parte della dirigenza palestinese che trova più disponibile, continuare a vessare la popolazione, consolidare la colonizzazione dei territori occupati, rimandare all’infinito la creazione dei due Stati e tuttavia sopravvivere come Stato ebraico e democratico.

Si permetta a chi scrive di essere schietto: il settimo segretario generale ha avuto senza dubbio ragione quando ha deciso di contribuire alla formazione di un contesto adeguato alla partecipazione degli Stati Uniti – in quanto essenziale attore esterno – nella ricerca di una pace tra arabi e israeliani. Non è certo sua responsabilità se quell’impegno si è rivelato insufficiente rispetto a quanto fosse effettivamente necessario e non può essere nemmeno criticato per le scelte politiche, ispirate da preconcetti ideologici, che ne sono seguite, e che hanno suscitato l’antagonismo di milioni di persone in una regione del mondo dove già le Nazioni Unite contano di gran lunga il più basso livello di consenso. Il problema è che, continuando a essere membro del Quartetto ed evitando di prendere le distanze dalle scelte politiche di quest’ultimo, il segretario generale ha finito per vincolare l’ONU a tali scelte.

È ormai chiaro che, a causa della sua appartenenza al Quartetto, le capacità del segretario generale di prendere le distanze dalle posizioni espresse in quella sede sono estremamente limitate. Il fatto che egli non possa liberamente esprimere la propria posizione su una questione di tale importanza e che si debba sentire inibito dal dialogare con un attore chiave palestinese – Hamas – costituiscono una perdita per il normale esercizio delle sue funzioni. Ogni beneficio che potrebbe derivare dal suo essere parte del Quartetto è dunque ridimensionato dai costi che la sua partecipazione implica. In quanto custode della più alta carica delle Nazioni Unite, egli dovrebbe valutare come meglio passare le consegne al suo successore, senza che il valore dell’ufficio ne risulti sminuito.

Se il segretario generale sarà mai qualcosa di più della somma delle parti che compongono l’ONU, dovrà anche essere in grado di sintetizzare le aspirazioni di un numero più ampio di Stati membri e di popoli, dei quali le Nazioni Unite passano per essere il portavoce. Le principali responsabilità dell’ONU in questa regione sono le operazioni di peacekeeping e la cura delle vittime del conflitto. Al fine di poter sollecitare con successo il sostegno per quest’ultimo obiettivo – una causa prioritaria rispetto alla quale il ruolo, più apparente che reale, delle Nazioni Unite nelle operazioni di peacemaking deve cedere il passo – il segretario generale deve preservare la propria autorità morale e la propria indipendenza. Ciò non vuol dire che si debba passare attraverso un controverso divorzio con il Quartetto, ma che il segretario generale dovrebbe chiarire ai suoi partner – i quali rinuncerebbero con grande riluttanza all’aura di legittimità che la sua presenza conferisce – che sarebbe consigliabile, per tutti gli attori coinvolti, che lui giocasse un ruolo più consono alla natura della sua carica. Il segretario dovrebbe, se necessario, prendere parte alle riunioni del Quartetto solo in veste di osservatore. In tal modo non sarebbe gravato dal peso di decisioni e posizioni assunte da altri.

Agendo autonomamente il segretario generale potrebbe aspirare a contribuire in modo più costruttivo alla pace. Ora che a Washington si è insediata una nuova Amministrazione che, libera da preconcetti ideologici, sembra esser pronta a inaugurare un nuovo approccio verso il Medio Oriente, potrebbe essere possibile riesaminare il ruolo che dovrebbe essere affidato al segretario generale delle Nazioni Unite.