Dove dopo Gaza?

Written by Carlo Pinzani Thursday, 02 July 2009 17:51 Print

Il raid israeliano a Gaza dell’inverno scorso si è rivelato un’azione inefficace e, addirittura, controproducente se si guarda alla radicalizzazione delle posizioni che ha provocato. La principale vittima di quell’azione è stato però l’interesse della comunità internazionale alla stabilizzazione dell’area mediorientale. Una nuova speranza può venire oggi dal ritorno degli Stati Uniti al ruolo di mediatore equilibrato nel conflitto che gli deriva anche dall’allontanamento dalle posizioni della destra israeliana.

Un luogo speciale

A cinque mesi dalla conclusione della massiccia operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza l’opinione pubblica internazionale sembra aver rimosso la vicenda. E, in fondo, è giusto così. La situazione è ancora quella di una precaria tregua di fatto, vale a dire quella in essere da oltre sessant’anni, da quando cioè, nel 1948, il limitato territorio ai confini tra il Sinai e la Palestina e la tranquilla cittadina costiera furono trasformati in luogo di raccolta provvisoria dei contadini arabi provenienti dai villaggi palestinesi in conseguenza delle operazioni belliche seguite alla proclamazione dello Stato d’Israele. Per quanto le dimensioni del problema dei rifugiati fossero assai più limitate di oggi, esso fu percepito come sufficientemente grave perché le Nazioni Unite procedessero alla costituzione di un’apposita Agenzia per l’assistenza umanitaria ai profughi (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East-UNRWA), oggi più che mai attiva.

A partire dalla prima metà degli anni Cinquanta l’armistizio raggiunto tra Israele e Stati arabi – in particolare con l’Egitto, titolare della sovranità su Gaza – non impedì che dalla Striscia partissero incursioni di fedayin, sponsorizzate dal governo egiziano specialmente dopo che i militari nazionalisti avevano rovesciato la monarchia, aggravando la minaccia per la sicurezza del giovane Stato israeliano. Le incursioni dei palestinesi giunsero anche ad interessare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che, nel 1954, predisposero un piano complessivo per dare una soluzione stabile al conflitto arabo-israeliano. Il piano fallì a causa del coinvolgimento dell’Egitto nella guerra fredda, allorché Nasser ricorse all’Unione Sovietica per approvvigionarsi di moderni armamenti attraverso la Cecoslovacchia che – ironia della sorte – a nome del blocco comunista aveva fornito un decisivo aiuto militare agli israeliani nel 1948.

Questi ultimi, tuttavia, non mancarono di reagire direttamente e, agli inizi del 1955, condussero un primo raid a Gaza, ritirandosi poi rapidamente dal momento che, come affermava il principale artefice dello Stato israeliano Ben Gurion, Gaza era un luogo che lo Stato ebraico doveva guardarsi dall’occupare in quanto simbolo della frustrazione araba per la tragedia del 1948 e ingovernabile focolaio di violenza.

Anche se con molta lentezza, gli israeliani si ritirarono ancora una volta da Gaza nei primi mesi del 1957, dopo averla nuovamente occupata nell’ambito della sciagurata spedizione anglo-francese a Suez. Alla terza occupazione, quella del 1967, nel quadro della guerra dei sei giorni, Israele mantenne il possesso della Striscia anche dopo che, con gli accordi di Camp David del 1978, si erano concluse la pace con l’Egitto e la restituzione del Sinai. Dimentichi degli ammonimenti di Ben Gurion, i governi della Destra sionista del Likud non solo mantennero l’occupazione a Gaza ma vi vollero conservare anche gli insediamenti ebraici che pure avevano smantellato nel Sinai.

La prolungata occupazione non poteva che rafforzare l’estremismo palestinese nella Striscia, sovrappopolata, povera di risorse e ricca di giovani senza lavoro, continuo e inesauribile serbatoio di potenziali terroristi. Dopo la prima Intifada, gli accordi di Oslo e la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, nell’intento di indebolire l’OLP e il suo leader Arafat, gli stessi israeliani favorirono la nascita e l’affermazione di Hamas, un movimento integralista legato alla Fratellanza musulmana in Egitto, che a Gaza trovò un terreno particolarmente fertile, contribuendo a rendere ancora più ingovernabile la Striscia.

Agli inizi del nuovo secolo, falliti i tentativi di rivitalizzare gli accordi di Oslo, la situazione a Gaza si fece insostenibile per gli israeliani. Nel 2005, nel corso della seconda Intifada, Ariel Sharon, erede della tradizione del Likud, decise di ricordarsi degli ammonimenti di Ben Gurion abbandonando Gaza e smantellando gli insediamenti ebraici, non senza aver prima distrutto completamente l’autorità di Arafat edell’OLP in Cisgiordania. A quel punto era già facilmente prevedibile che la Striscia sarebbe più o meno rapidamente caduta sotto il controllo delle fazioni palestinesi più estremiste e segnatamente di Hamas che, al pari di altre organizzazioni islamiche integraliste, non era solo un gruppo terroristico, e nel 2006 fu persino in grado di imporsi nelle regolari elezioni palestinesi, volute dall’Amministrazione di G. W. Bush.

La decisione di Sharon segnò anche la sua rottura con la Destra israeliana con la formazione di un nuovo partito di centro, Kadima, e va inserita in una nuova visione politica complessiva della questione palestinese. Grazie all’abbandono di Gaza e alla costruzione di un “muro di sicurezza” Israele poneva le premesse per una soluzione unilaterale del conflitto salvando anche gran parte degli insediamenti ebraici al di là della linea armistiziale del 1967. Poiché non è pensabile che un piano del genere fosse stato concepito e attuato senza tener conto delle risorse militari delle organizzazioni terroristiche (cioè della possibilità che organizzazioni terroristiche disponessero di razzi a corta gittata più o meno artigianali) è difficile negare che la motivazione principale della scelta sia da individuarsi nel tentativo di scaricare sulla già debolissima Autorità palestinese l’impossibile compito di governare Gaza.

Infatti, due anni dopo, la Striscia si trasformava nella roccaforte di Hamas, decisa a non dar tregua all’“entità sionista” e a convogliare su Israele la pluridecennale frustrazione accumulata da intere generazioni di profughi palestinesi. Al tempo stesso, si secondavano le preoccupazioni della comunità internazionale per il terrorismo islamico, vivissime dopo l’11 settembre 2001 e gli attentati di New York e Washington. Si ponevano così le premesse per perpetuare lo status quo e affossare quel che restava del processo di pace.

 

Le Strafexpeditionen israeliane

Un contributo decisivo al conseguimento di questo risultato fu fornito dalle due fazioni palestinesi rivali, incapaci di una collaborazione effettiva anche sotto la pressione israeliana. Hamas, liberatasi con metodi sbrigativi delle residue forze dell’OLP a Gaza, veniva ancor più ad essere percepita come organizzazione terroristica ed estremista, mentre i resti dell’Autorità palestinese raccolti attorno ad AbuMazen, coinvolti in lunghe e inconcludenti trattative con il governo Olmert, finivano per apparire come collaborazionisti d’Israele.

Si veniva così a verificare una situazione simmetrica sui confini settentrionali e meridionali di Israele dove due diverse organizzazioni integraliste, Hezbollah dal Libano e Hamas da Gaza, facevano piovere razzi più o meno artigianali sulle popolazioni civili a portata di tiro (una portata che il sostegno militare, economico e politico di Iran e Siria agli integralisti tendeva ad ampliare pericolosamente). Colpendo le popolazioni civili, queste attività militari rientravano a pieno titolo nella categoria del terrorismo, che comprende ogni azione militare rivolta deliberatamente contro i civili, a prescindere dalla natura, statale o privata, di chi la compie.

È quindi indiscutibile il diritto di Israele a rispondere militarmente al grave danno inflitto alla sua popolazione. Ed è anche complessivamente inutile discutere sulla adeguatezza proporzionale della risposta rispetto alla minaccia o al danno provocato dall’aggressione, dal momento che l’aggredito può scegliere i mezzi che ritiene politicamente più opportuni. È però anche legittimo in questo caso definire la risposta come attività punitiva.

L’allora senatore Barack Obama, in un discorso tenuto a Cleveland nel 2007, ebbe a dichiarare: «Una delle cose che mi hanno colpito quando sono stato in Israele è stata la maggiore apertura del dibattito su questi problemi in Israele di quella esistente negli Stati Uniti. È veramente molto ironico».1 Poiché l’osservazione non vale soltanto per gli Stati Uniti, è opportuno precisare che la scelta del termine tedesco di Strafexpedition per designare la guerra condotta dagli israeliani in Libano nel 2007 e il raid militare di questo inverno a Gaza non implica alcun riferimento alle diffuse rappresaglie condotte dalle truppe del Terzo Reich nell’Europa occupata durante il secondo conflitto mondiale. Essa va intesa nel suo significato originario di azione militare condotta contro un nemico largamente inferiore e, se proprio si vuole individuare un precedente, si può fare riferimento all’attacco condotto dalle truppe degli Imperi centrali contro l’Italia nell’autunno del 1917, espressamente definito dai suoi artefici Strafexpedition.

L’elemento decisivo per giustificare la definizione è dunque determinato dal divario di potenza tra i due contendenti. Ma, se il criterio per motivare l’adeguatezza di una risposta militare nei confronti di una minaccia o di un danno è in ultima analisi quello della sua efficacia, esso vale anche quando si tratta di giudicare l’efficacia di una spedizione punitiva, quando cioè la risposta militare è data ad un nemico molto meno potente.

Se questo è il metro di giudizio, tutti gli esempi di spedizione punitiva fin qui evocati sono falliti. La guerra e la diplomazia non sono processi educativi e le punizioni non possono mai avere un effetto pedagogico, anzi in generale rafforzano la propensione a resistere di chi vi è sottoposto (la storia ha evidenziato come nei casi estremi si sia fatto ricorso anche a gradi di violenza superiori: la pulizia etnica e il genocidio). Mentre è certo che la punizione che gli Imperi centrali volevano infliggere all’Italia finì per contribuire alla loro sconfitta, non è possibile ancora stabilire quali saranno gli esiti finali delle operazioni israeliane. Ma le conseguenze sin qui registrate non sembrano molto positive dal punto di vista israeliano: limitandosi a considerare quelle riguardanti Gaza, occorre riconoscere che Hamas controlla ancora la Striscia (nella misura in cui una situazione economica, sociale e politica di quel tipo è controllabile), conduce diverse e intrecciate trattative sebbene formalmente non goda di riconoscimento internazionale e, forse, addirittura è in grado di condizionarle in qualche modo, proseguendo a intermittenza i lanci di razzi sul Sud d’Israele.

Sul piano interno israeliano l’operazione a Gaza ha contribuito massicciamente a radicalizzare in senso nazionalista l’opinione pubblica, come ha dimostrato l’esito delle elezioni parlamentari, che ha condotto alla formazione di un governo il quale, a dispetto della presenza dei laburisti, è dominato dai partiti di destra, laici o religiosi, contrari alla trattativa priva di precondizioni con i palestinesi e alla ripresa di un processo di pace che possa portare alla formazione di due Stati sovrani in Palestina.

 

Le prospettive della Destra israeliana

È certamente vero che il Likud di Benjamin Netanyahu ha avanzato l’idea che il processo di pace sia trasferito dal piano politico e della sovranità palestinese a quello della collaborazione economica tra le due comunità che vivono in Eretz Israel, la terra compresa tra il Giordano e il mare Mediterraneo. Questo approccio sembra più valido di quanto venga comunemente ritenuto, dal momento che i rapporti quotidiani tra arabi ed ebrei sul piano economico sono continui e anche, più spesso di quanto si creda, proficui.

L’accantonamento del problema della sovranità, tuttavia, non sembra efficace ai fini di una soluzione durevole (se non definitiva) della questione, dato che le tendenze demografiche porterebbero ad una maggioranza araba in Eretz Israel in un numero abbastanza limitato di anni. Né è pensabile una significativa ripresa, anche a scadenza lontana, dell’immigrazione ebraica in Palestina, al punto che v’è da chiedersi se sia ancora possibile parlare di sionismo, dal momento che il ritorno nella terra promessa sembra un processo praticamente concluso.

La sola prospettiva concreta, anche se non immediata, di uno Stato ebraico che si estenda dal Giordano al Mediterraneo è dunque quella di uno Stato nel quale il governo sarà riservato ad una minoranza, per quanto consistente. Una situazione, questa, nella quale diverrebbe concreta la prospettiva di uno Stato fondato sull’apartheid, sulla discriminazione etnica e/o religiosa, come è stato messo in evidenza dall’ex presidente americano Jimmy Carter. Nella migliore delle ipotesi in questo modo si giungerebbe ad una sorta di “democrazia limitata” che, a sua volta, porterebbe per altra via alla negazione del sionismo, il quale nella visione di Herzl doveva essere il recupero della vecchia terra per costruirvi un nuovo paese, moderno, laico e progressista.2

Del resto la crisi del sionismo è confermata da altri elementi. Anzitutto il costante e ormai gravissimo declino del consenso che nella società israeliana riceve il partito laburista ridotto ai suoi minimi storici nelle ultime elezioni. Vero è che anche nel resto del mondo i partiti che si richiamano al socialismo non godono di ottima salute, ma i laburisti israeliani erano stati una componente essenziale della comunità ebraica in Palestina sia nel periodo dell’Yshuv sia nei primi decenni dello Stato israeliano, sia infine negli anni Novanta quando avevano dato avvio al processo di pace sotto la guida di Rabin. Questi si era reso conto della mutata realtà strategica che toglieva al confine sul Giordano il valore decisivo attribuitogli ai fini della sicurezza d’Israele. Evidentemente, l’onda lunga del neoconservatorismo americano che ha prevalso negli Stati Uniti e nel mondo dagli anni di Reagan non ha giovato al sogno sionista e, purtroppo, neppure alla causa della pace in Palestina.

In secondo luogo, si infittiscono i segnali di una crescente insofferenza verso la politica dei governi succedutisi dall’inizio del XXI secolo da parte degli arabi israeliani che dall’indefinito prolungamento del conflitto con i palestinesi temono di veder compromesse le speranze di un loro equilibrato e pieno inserimento nella società israeliana (almeno per quelli che le hanno nutrite). Questo fattore è preso in considerazione anche da una delle componenti della Destra israeliana che fa parte del governo Netanyahu. Il partito di Avigdor Lieberman, Israel Beiteinu, composto prevalentemente da russofoni giunti in Israele sull’onda del crollo dell’Unione Sovietica, ritiene possibile lo schema dei due Stati prevedendo, anziché la cessione di territorio in cambio della pace, il trasferimento di popolazione araba oltre la linea armistiziale del 1967, senza per questo chiaramente rinunziare agli insediamenti ebraici nello stesso territorio.

Quest’ultima posizione è condivisa anche dai partiti religiosi di destra, avversi per motivi di fede alla cessione di qualsiasi territorio biblico dove si trovino ebrei. Ma su queste posizioni sembra anche concordare la grande maggioranza delle forze politiche israeliane, compreso Kadima oggi all’opposizione: non si spiegherebbe altrimenti come sia stato possibile che nel 2008, secondo i dati diffusi dai pacifisti del Goush Emounim, gli insediamenti esterni alla linea di sicurezza, legali o abusivi, siano aumentati del 69% e che nel periodo del governo Olmert (2005-08) i coloni siano passati da 35.000 a 285.000 unità. Se a ciò si aggiunge il recente episodio del previsto allontanamento di 1.500 palestinesi da un’area di Gerusalemme Est per far posto ad un parco le preoccupazioni non possono che aumentare.3

È questo il dato più inquietante, che pone ormai apertamente in discussione la possibilità della soluzione dei due Stati in quanto rivela un consenso, espresso o inespresso ma in ogni caso largamente maggioritario, alla visione di uno Stato d’Israele che territorialmente coincida con Eretz Israel e, in ogni caso, si estenda dal Giordano al mare. Una soluzione, questa, che sarebbe possibile anche con un’entità palestinese di dimensioni ridotte, frazionata in più territori e con il confine rappresentato dal Giordano in mani israeliane: non per nulla Shimon Peres ha di recente contestato le opinioni di coloro che non considerano vitale, soprattutto economicamente, una formazione statale di questo tipo evocando Singapore come prova del contrario. Con tutto il rispetto per l’anziano leader del Labour, il paragone appare quanto meno peregrino.

 

Il ruolo della comunità internazionale

Un altro risultato negativo dell’ultimo raid israeliano contro Gaza è dato dalle reazioni che esso ha diffusamente suscitato nell’opinione pubblica internazionale. Giustamente, i sostenitori del governo israeliano hanno fatto osservare come risulti abbastanza singolare che nel continuo stillicidio di nefandezze che affliggono il mondo contemporaneo (dall’Iraq al Darfour, dal Congo all’Afghanistan) le reazioni israeliane vengano usualmente giudicate con maggior severità.

Una prima risposta a questa considerazione potrebbe essere quella che gli standard di comportamento di paesi democratici dovrebbero essere più rigorosi che in altri casi. Sembra però opportuno attenersi a criteri che prescindano da giudizi di valore e che l’interesse per le iniziative israeliane sia fondato sugli oneri che la situazione in Palestina fa ricadere sulla comunità internazionale, generosamente mobilitatasi per la ricostruzione di Gaza. Questa però, a cinque mesi di distanza, non è ancora iniziata perché il blocco israeliano continua: si fa tuttavia evidente un certo disincanto dal momento che iniettare risorse in un contesto che continua da sei decenni a non trovare un equilibrio e a rimuovere le cause della guerra comincia a divenire privo di senso. Il pur necessario e inevitabile aiuto umanitario assomiglia sempre più a quelle terapie palliative che finiscono per aggravare la patologia.

Ma la comunità internazionale ha un interesse ancora maggiore nella questione: quello di giungere ad una certa stabilizzazione dell’intera regione mediorientale, di cui la soluzione della questione palestinese non è condizione sufficiente ma certamente necessaria.

Chi mostra di avere un’acuta consapevolezza di questa realtà è il presidente egiziano Mubarak che continua ad adoprarsi nella mediazione tra le fazioni palestinesi affinché Israele possa disporre di un unico interlocutore nelle trattative di pace, che dovrebbero investire anche Hamas, vale a dire un’organizzazione terrorista, secondo il marchio che l’Amministrazione di G. W. Bush ha distribuito con pronta generosità. L’interesse egiziano ad una soluzione è evidente: l’età avanzata di Mubarak e la forza della Fratellanza musulmana in Egitto sono fattori che dovrebbero esser presi in seria considerazione anche da quanti vogliono giungere ad una soluzione dei problemi mediorientali, se non definitiva almeno durevole. Il tempo, infatti, è un fattore decisivo perché possa maturare il processo in atto nel mondo arabo di pervenire ad un Islam che sia moderato e, al tempo stesso, moderno, nel senso che la laicità degli Stati non debba necessariamente essere difesa da forme di governo assolutistiche e feudali o da formidabili apparati repressivi.4

Inoltre, la stessa comunità internazionale dovrebbe tenere distinto il problema palestinese dagli altri problemi della regione e anzitutto da quello della competizione per l’egemonia regionale tra l’Iran e lo stesso Israele. L’appoggio iraniano ad Hezbollah e Hamas non ha solo carattere ideologico o religioso, ma esprime anche la volontà del regime clericale iraniano di essere adeguatamente considerato nello scacchiere. E anche la questione dell’armamento atomico iraniano potrebbe essere resa meno ardua se inserita in una comunque indispensabile revisione delle politiche di limitazione della proliferazione nucleare.

Sotto questo profilo la posizione israeliana appare politicamente debole. Sostenere – come ha fatto Netanyahu nei suoi recenti colloqui con l’Amministrazione Obama – che la comunità internazionale, e per essa gli Stati Uniti, debba dare assoluta priorità alla questione dell’armamento nucleare iraniano è una pretesa e non soltanto perché Israele non è il paese guida della comunità internazionale (posto che un paese guida esista). Inoltre, le problematiche poste dalla proliferazione nucleare nella regione non riguardano soltanto l’Iran: basti pensare alla fragilità del regime pakistano, detentore di armi nucleari e soggetto alla pressione militare talebana, che per la comunità internazionale può rappresentare una minaccia più grave e immediata di quella iraniana.

Come ha affermato Obama nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, se esiste un collegamento tra la questione del nucleare iraniano e il problema palestinese esso va nel senso contrarioa quello sostenuto dal primo ministro israeliano, vale a dire che la pace in Palestina può influire sulla questione iraniana e non viceversa, aggiungendo anche di comprendere le «legittime preoccupazioni d’Israele per il fatto che l’Iran abbia la possibilità di ottenere un’arma nucleare mentre c’è un presidente che in passato ha affermato che Israele non dovrebbe esistere».5 Già l’esplicitazione di questo dissenso, assieme alla riaffermazione degli accordi raggiunti in passato, costituisce una grossa novità nella politica mediorientale degli Stati Uniti.

Questo dissenso si è manifestato con una certa durezza anche a proposito della questione degli insediamenti, che il presidente Obama intende congelare definitivamente e senza eccezioni, svelando così il carattere pretestuoso dell’eccezione dell’«espansione naturale» avanzata dal governo israeliano.

Si tratta soltanto di un inizio, che, però, realizza una delle precondizioni perché l’indispensabile opera di mediazione degli Stati Uniti possa tornare ad essere “onesta ed efficace” come dovrebbe essere secondo un veterano delle trattative sulla Palestina: occorre che gli americani «non acconsentano a dare ad Israele un diritto di veto sulle (loro) posizioni negoziali, quando hanno la conseguenza pratica di indur(li) ad ignorare gli interessi arabi e addirittura i (loro)».6

Infine, la stessa comunità internazionale è stata all’origine del problema quando nel lontano 1947 decise la spartizione tra arabi ed ebrei della terra affidata dalla Società delle Nazioni al mandato britannico, in una proporzione modificata già con gli armistizi di Israele con Egitto e Transgiordania nel 1949 e drasticamente alterata con la guerra del 1967.

L’assetto territoriale uscito da quel conflitto è stato accettato dall’OLP con gli accordi di Oslo. La comunità internazionale ha il dovere, oltreché l’interesse, di evitare che esso sia rimesso in discussione da parte dei palestinesi e che sia accettato non strumentalmente dagli israeliani. È una strada che richiede coraggio, determinazione e pazienza, oltre che fortuna, ma che va anche – e forse soprattutto – a vantaggio d’Israele e dei suoi abitanti i quali, almeno sul piano della razionalità, hanno oggi più bisogno di pace che di terra, posto che la prima comporta sicurezza e la seconda tensione.


[1] Cfr. “Washington Post”, 23 gennaio 2001.

[2] Altneuland è il titolo della più ispirata opera di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo. Come scrive uno storico del conflitto israelopalestinese: «Il razionalismo e la modernità di Herzl lo inducevano a considerare la comunità ebraica uno Stato come tutti gli altri. Sarebbe stato progressista non perché costretto da una missione divina e radicato in un codice etico esclusivamente ebraico, ma perché tutti gli Stati debbono impegnarsi per l’elevazione dell’uomo e perché questa è la direzione dell’evoluzione universale ». Cfr. M. Tessler, A History of the Israeli-Palestinian Conflict, Indiana University Press, Bloomington e Indianapolis 1994, pp. 46-47.

[3] L’iniziativa è stata criticata espressamente anche dal segretario di Stato americano Hillary Clinton nella sua visita in Israele. L’episodio ricorda fastidiosamente le politiche seguite dopo il 1948 dal Jewish National Fund che condusse interventi di forestazione e di creazione di parchi nazionali nelle località dei villaggi palestinesi distrutti o abbandonati. Cfr. I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld, Oxford 2006, pp. 227-34. Un altro episodio interessante è quello di Bu’ram, riportato da “Le Monde” del 13 aprile 2009. Si tratta di un villaggio distrutto dall’aviazione israeliana nel 1953 dopo che era stato completamente evacuato nel novembre del 1948; a Bu’ram esisteva una comunità di arabi cristiani maroniti che non riuscivano ad ottenere l’autorizzazione a ricostruire la loro chiesa perché, secondo le autorità israeliane, la ricostruzione avrebbe comportato il riconoscimento di un generalizzato diritto al ritorno da parte di palestinesi.

[4] Si veda in proposito l’ottimo lavoro di R. Wright, Dreams and Shadows. The Future of the Middle East, The Penguin Press, New York 2008. Si tratta di un’ampia rassegna dei movimenti moderati e progressisti in tutti i maggiori paesi del Medio Oriente e del Maghreb.

[5] Cfr. www.whitehouse.gov/the_ press_office/Remarks-by-President- Obama-and-Israeli-Prime-Minister- Netanyahu, 18 maggio 2009.

[6] Cfr. A. D. Miller, The Much Too Promised Land. America’s Elusive Search for Arab-Israeli Peace, Bantam, New York 2009, p. 376.