Editoriale

Written by Giuliano Amato Friday, 08 May 2009 20:13 Print
Nello scorso numero della nostra rivista Giulio Tremonti ha svolto un’analisi della crisi in atto e delle terapie per fronteggiarla che suscita insieme consensi e dissensi. È la premessa naturale per un dibattito, e questo editoriale, che speriamo seguito da altri interventi, comincia ad aprirlo. Tremonti ha scritto che la crisi non è solo una «turbolenza finanziaria», né è seriamente prevedibile che a compensarne gli effetti devastanti sulle «vecchie» economie possa arrivare una salvifica accelerazione delle «nuove».

Nello scorso numero della nostra rivista Giulio Tremonti ha svolto un’analisi della crisi in atto e delle terapie per fronteggiarla che suscita insieme consensi e dissensi. È la premessa naturale per un dibattito, e questo editoriale, che speriamo seguito da altri interventi, comincia ad aprirlo. Tremonti ha scritto che la crisi non è solo una «turbolenza finanziaria», né è seriamente prevedibile che a compensarne gli effetti devastanti sulle «vecchie» economie possa arrivare una salvifica accelerazione delle «nuove». Muovendo da questa indiscutibile e condivisa premessa, giunge poi a concludere che la causa della crisi è comunque nella finanza, e che non ha quindi senso cercarne la cura dalla parte sbagliata, e cioè dalla parte dell’economia, gettando risorse in inutili stimoli fiscali. E questo è assai più difficile da condividere. Intendiamoci, l’esame dei guasti finanziari fatto da Tremonti coglie nel segno quando dice che c’è stato ben più di qualche difetto di regolazione, che si è fuoriusciti da ogni tipo di giurisdizione e si è infettata l’economia reale, vincolandola alla priorità dei ritorni finanziari a breve termine e finendo per cancellare il conto patrimoniale delle imprese a beneficio del solo conto economico, così da far sparire il loro valore a beneficio del prezzo, per di più di giornata (povero Marx: nessuno di quanti un tempo parlavano a suo nome ha sottolineato questo aspetto). Altrettanto corretta – almeno ad avviso di chi scrive, che l’ha anche esplicitamente sostenuta – è la terapia della separazione del bene dal male nei bilanci delle banche, con una “lavanda gastrica” in assenza della quale la fiducia difficilmente potrebbe tornare. Ma questo non basta alla crescita dell’economia, o meglio può forse bastare a riaccendere il motore ma non a tenerlo poi stabilmente in funzione. E non basta perché non è vero che la crisi sia solo nella finanza. La stortura è maturata nella stessa economia e, se null’altro dovesse cambiare, necessariamente accadrebbe che i medesimi processi economici, privati delle disinvolte innovazioni finanziarie che hanno consentito al debito di diventare montagna, arriverebbero presto ad incepparsi. Il gigantesco squilibrio fra disavanzo statunitense e surplus altrui, in primo luogo cinese, è stato certo colmato inondando il mondo di titoli finanziari. Ma non è stata tale inondazione a crearlo, lo ha solo facilitato e ampliato. Esso infatti preesisteva, ed era il frutto di scelte politiche interne degli Stati Uniti come degli stessi paesi in surplus, oltre che della intervenuta rinuncia ad ogni coordinamento a livello mondiale delle politiche macroeconomiche derivanti da tali scelte e dalla analoga rinuncia al coordinamento monetario. Per non parlare degli altri squilibri che davanti alla crisi hanno reso accentuatamente fragili tante economie, da quelli dovuti alle perduranti strozzature che frammentano il commercio mondiale, a quelli insiti nelle disuguaglianze di reddito rimaste e in qualche caso accresciutesi nel mondo, a quelli annidatisi in regioni sviluppate e integrate come la stessa Europa, dove i nuovi entrati nell’Unione hanno in qualche caso nascosto le loro perduranti debolezze dietro i bassi costi e la concorrenza fiscale, con il risultato poi di trovarsi ancora più deboli davanti alla crisi. Non a caso le terapie che vengono oggi suggerite da più parti non sono solo finanziarie. E non a caso ciò accade in primo luogo negli Stati Uniti, dove è lo stesso presidente a parlare di un’economia che ha bisogno non solo di aggiustamenti, ma di revisioni delle sue fondamenta. Tanto che non si limita ad impegnare ingenti risorse in stimoli classicamente keynesiani e in aiuti condizionati alle imprese, ma avvia sia una migliore redistribuzione del reddito per via fiscale sia l’allargamento della copertura sanitaria delle famiglie, in modo da ottenere ciò di cui la sua economia ha più bisogno per fare a meno della droga del debito: un aumento dei redditi disponibili delle famiglie al posto dell’aumento delle loro possibilità di indebitarsi. Se questo cambio di passo dell’economia americana riuscirà a realizzarsi, sarà il primo e più importante ingranaggio di un’economia mondiale più sana, che, per essere tale e non più afflitta dai vecchi squilibri, dovrà affidarsi per il futuro non più ad una, ma a più locomotive. È questo che ci dicono tutti gli istituti economici più accreditati, ed è questo ad esigere anche dagli altri, e non dai soli Stati Uniti, una intensa azione di riforma che vada oltre la finanza e investa le rispettive economie. Ciò riguarda le economie asiatiche e, in primo luogo, la Cina, che deve convertire la sua economia fortemente guidata dalle esportazioni in un’economia con più elevati e diffusi consumi interni e con una rete di servizi sociali capace di consentirli (è anche in ragione della loro esiguità, oltre che del ruolo perdurante del regime, che il tasso di risparmio cinese è così elevato). E riguarda l’Europa e i suoi Stati membri, segnati da problemi diversi e rimasti nel loro insieme lontani da quella convergenza nello sviluppo che era il loro obiettivo strategico per il 2010. Non ci sono soltanto i nuovi venuti dell’Est, ai quali già si è accennato. C’è, nella stessa zona euro, la divergenza fra la Germania in surplus e tutti gli altri, e c’è la complessiva difficoltà ad accrescere la produttività totale e quindi il tasso di sviluppo; una difficoltà che, perdurando, rischia di mettere l’intera Europa ai margini della futura economia globale, quando questa trovasse un nuovo percorso di crescita in un più equilibrato rapporto fra Stati Uniti e Asia. Ce ne sono, perciò, di riforme da fare, che mettono in gioco tanto la capacità riformatrice di diversi Stati membri (e l’Italia è fra questi) ai fini di una attuazione effettiva della Strategia di Lisbona, quanto la capacità dell’Unione di convogliare verso risultati comuni risorse altrimenti disperse nei canali nazionali (si pensi non solo al classico esempio della ricerca, ma a quello, più banale eppure cruciale, dell’interconnessione fra le nostre reti elettriche). Per non parlare, infine, dei paesi più deboli, in Africa ma non solo, che in una crisi prolungata rischiano di essere abbandonati a se stessi, lasciati senza antidoti ai loro mali interni e quindi ad una crescente soggezione alla malattia e alla fame. Basta questo a farci capire quanto siano importanti, oltre alle riforme interne, rinnovati e più efficaci strumenti di coordinamento internazionale, quegli strumenti che il Washington consensus aveva essiccato. Chi parla di nuova Bretton Woods dà forse la sensazione di ritenere possibile un impossibile ritorno al passato. Ma in un mondo sia pure diverso da quello della prima Bretton Woods, è di nuovo vero che occorre un’ancora di stabilità (e quindi di sorveglianza stretta e senza sconti per nessuno) sia per l’equilibrio macroeconomico che per quello valutario. Di sicuro non è infatti bastato il mercato, né a trovare un tale equilibrio né a garantirlo, giacché nelle sue mani si è solo lucrato sugli squilibri. Oggi infatti, per prevenirli, si propone di mettere in revisione larga parte della governance globale: come rafforzare il Fondo monetario internazionale, come affinare ed estendere la sua sorveglianza, come rinnovare e rendere meno occidentali i suoi meccanismi di governo, e come collegarlo alle autorità di vigilanza nazionali; come rafforzare la legittimazione e la capacità decisionale dell’Organizzazione mondiale del commercio, nella convinzione che, senza uno sbocco positivo dei mai conclusi negoziati multinazionali, prenderanno piede nei prossimi mesi forme di mercantilismo e quindi di chiusure protezionistiche regionali, sulla base della rete ormai fitta di accordi bilaterali; come dare forza, infine, agli standard sul lavoro dignitoso e sulla protezione sociale, che, affidati come sono al solo profeta disarmato dell’Organizzazione internazionale del lavoro, rimangono sulla carta e lasciano così sopravvivere disuguaglianze fra le più efficaci per impedire o limitare l’innesco dello sviluppo. Sono tanti – come si vede – i capitoli di riforma economica che la crisi non solo dà l’occasione, ma impone di adottare, sempre che se ne voglia uscire e non si voglia essere nuovamente instradati sui vecchi binari (dove – come già si è notato – faremmo però ben poca strada). Ma questo non significa – potrebbe obiettare Tremonti – che serva buttare risorse nel fiscal stimulus, che di per sé non è riforma, ma benzina gettata nel vecchio motore e sottratta ad altri possibili usi. Non sarebbe un’obiezione infondata, che varrebbe tuttavia non nei confronti di chi scrive, ma nei confronti di diversi governi europei, ivi compreso quello di cui Tremonti fa parte. Ritengo che uno stimolo immediato sia comunque essenziale quando serve a non desertificare tessuti economici vitali, giacché far fiorire il deserto sarebbe in seguito assai più costoso e difficile; e quando serve altresì a non far cadere in miseria famiglie private improvvisamente dei loro redditi da lavoro, giacché la caduta in miseria può avere poi effetti devastanti e irreversibili. Ma, al di là dei primi interventi di emergenza, sono il primo a pretendere che, per quanto riguarda l’Italia, le risorse destinate allo stimolo vadano a politiche industriali innovative, a istituti riformati di sicurezza sociale e ad azioni comuni europee. Purtroppo la crisi durerà. E qualunque azione non effimera avrà tutto il tempo per includere interventi di riforma. Ma davvero la reticenza del governo italiano a impegnare più massicciamente il bilancio pubblico su un efficace stimolo fiscale è il frutto della effettiva convinzione che esso sia inutile? Non è molto più probabile che essa dipenda dal peso di un debito pubblico molto elevato, che si ha paura di aumentare? Tremonti, del resto, ha detto più volte che nei prossimi mesi e anni ci sarà un aumento vertiginoso dell’offerta di titoli pubblici sui mercati finanziari e il rischio nel collocamento di quelli italiani potrebbe crescere in misura più che proporzionale a tale aumento. Questa preoccupazione ha di sicuro un fondamento, e chi sprona il governo non può non farsene carico e non darle una risposta. Qui – sia detto incidentalmente – si avverte tutta la debolezza in cui versa l’Europa nel fronteggiare una crisi che provoca effetti diversi nei suoi Stati membri, senza che essa abbia gli strumenti per bilanciare gli scompensi risultanti da tale diversità. A dicembre, nel suo piano per la ripresa economica, la Commissione aveva sottolineato l’assoluta necessità e urgenza di un forte stimolo fiscale, ma ai paesi caratterizzati da significativi squilibri strutturali aveva essa stessa raccomandato di impegnarsi prioritariamente nel non aggravarli e di calibrare i loro interventi su tale priorità. Era una raccomandazione plausibile, ma sarebbe stata espressiva di superiore attenzione al bene comune, e non di impotenza, se solo la Commissione l’avesse potuta accompagnare con l’impegno a intervenire con risorse comuni. Ma la Commissione non era e non è tuttora in condizione di fare questo. La raccomandazione che molti ci avevano fatto prima di dar vita all’euro – attenti, avrete bisogno di stabilizzatori centrali – ritenemmo di non accoglierla con l’argomento che i nostri processi di convergenza economica e finanziaria li avrebbero resi superflui. In realtà, i nostri Stati non vollero rinunciare alle loro politiche nazionali e non vollero di conseguenza dotare l’Unione di strumenti di governo centrale, con il risultato che ora se ne sente tutta la mancanza. Detto questo, tocca inevitabilmente a noi rimboccarci le maniche e farci carico dei modi per sostenere in maniera adeguata e non puramente simbolica l’economia, senza aggravare pericolosamente i nostri squilibri di bilancio. Non è facile, ma vi sono riforme produttive di effetti domani, che possono ridurre i maggiori aggravi di oggi e tranquillizzare così i mercati sulla nostra perdurante affidabilità di debitori. Un pacchetto che includesse in misura efficace ed equa l’una e l’altra cosa si imporrebbe a maggioranza e opposizione come una ineludibile responsabilità nazionale. Ma il primo passo da compiere è quello di elaborarlo e di proporlo, e questa è una responsabilità del governo; ed è assai scarsamente compatibile con la convinzione che per uscire dalla crisi sia utile intervenire sulla sola finanza e non anche sull’economia.


Giuliano Amato
Presidente dell’Advisory Board della Fondazione Italianieuropei