Ripartire da Lisbona. Le sfide per l'Unione nell'età della crisi

Written by Nicola Verola Friday, 08 May 2009 17:36 Print

I postumi della crisi istituzionale, causata dal "no" al Trattato di Lisbona decretato dagli elettori irlandesi lo scorso anno, si intrecciano con l’attuale crisi economica e pongono all’Unione europea e agli Stati membri importanti interrogativi sul futuro del progetto europeo e sulla tenuta dell’assetto istituzionale delineato dal nuovo trattato. È opportuno, dunque, chiedersi se quanto disegnato a Lisbona sarà sufficiente ad assicurare coerenza alle politiche europee e a superare la preoccupante debolezza delle istituzioni comunitarie.

Scorrendo le Conclusioni del Consiglio europeo del dicembre 2008 viene spontaneo pensare ai celeberrimi versi di Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Lo stesso senso di incertezza, la stessa sottile angoscia esistenziale devono essersi impossessati anche dell’Europa se è vero che per rendere accettabile all’opinione pubblica irlandese il Trattato di Lisbona si è dovuto precisare, con gran dovizia di particolari, ciò che esso non è, ciò che non vuole essere.

Il punto 3 delle Conclusioni e gli allegati sono emblematici. Ad abundantiam, vi si ribadisce che il Trattato di Lisbona non modifica le competenze dell’Unione in materia fiscale, che le sue disposizioni non incidono sullo status di neutralità dell’Irlanda e che né la Carta dei diritti fondamentali né gli articoli del Trattato pregiudicano le prerogative degli Stati membri in materia di diritto alla vita, educazione e famiglia. Tutti aspetti su cui i capi di Stato e di governo si sono impegnati, per giunta, a fornire assicurazioni formali.

È probabile che l’accorgimento serva allo scopo, spianando la via ad un secondo referendum irlandese, questa volta con esiti positivi. Ma non si può fare a meno di pensare che questa definizione tutta in negativo del Trattato di Lisbona sia una preoccupante dimostrazione del “male di vivere” che affligge l’Unione.

Lo stesso canovaccio si ripete ormai da anni: durante la conferenza intergovernativa del 2007, si è lavorato per depurare il progetto di Costituzione di tutti quegli elementi simbolici che avrebbero potuto complicare il processo di ratifica in alcuni Stati membri; 1 giunti alla stretta finale, si cerca di spiegare, ad uso e consumo dell’opinione pubblica irlandese, che questo Trattato non toccherà “corde sensibili” per la sovranità nazionale e che non c’è “nulla da temere” dalla nuova Europa. Quasi che, di fronte alle crisi epocale che l’Europa e il mondo stanno attraversando, il problema sia circoscrivere le competenze dell’Unione anziché dotarla di strumenti adeguati.

Evidentemente, le delusioni del quinquennio costituzionale hanno lasciato il segno. Il tema delle prerogative comunitarie è ormai diventato una di quelle spinose querelles familiari che alcuni trattano con pudore, temendo di urtare le sensibilità altrui, altri con fastidio, altri ancora semplicemente con stanchezza. Eppure, mai come in questi mesi si è invocato, a proposito o a sproposito, un maggior ruolo per l’Unione. Mai come in questi mesi si è sentita la mancanza di un disegno per l’Europa. Resta quindi necessario, malgrado tutto, interrogarsi sulle prospettive del Trattato di Lisbona, sull’impatto delle sue disposizioni e sul loro significato politico nella nuova fase che l’Europa e il mondo stanno attraversando.

 

Una “Lisbon story” a lieto fine?

Le probabilità che il Trattato di Lisbona entri in vigore sono in crescita. Il premier irlandese Brian Cowen continua a subordinare l’organizzazione di un secondo referendum alle “garanzie” promesse dal Consiglio europeo ma si tratta probabilmente di tatticismi. Per rispettare la tempistica concordata con gli altri capi di Stato e di governo, il Taoisech dovrebbe indire la consultazione subito dopo l’estate, prevedibilmente fra settembre e ottobre.

Il servizio giuridico del Consiglio e gli esperti irlandesi stanno lavorando alacremente per declinare in termini giuridici quanto convenuto. Sul piano dei contenuti, il loro campo d’azione è abbastanza ben delimitato: dovranno in pratica predisporre delle interpretazioni autentiche delle disposizioni del Trattato; quelle disposizioni che, a dire il vero, già escludono la competenza comunitaria sulle materie che tanto preoccuperebbero gli elettori irlandesi. Sul piano delle forme, potranno invece spaziare, anche se finiranno probabilmente col confezionare una sorta di “protocollo irlandese” (sul modello di quello predisposto per la Danimarca in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht) da sottoporre a ratifica separata o da includere in uno dei prossimi trattati di adesione, verosimilmente quello relativo alla Croazia. La soluzione dovrà in ogni caso essere predisposta entro giugno, in modo da sgombrare la strada ad una nuova consultazione in autunno.

Certo, non si può dare per scontato che tutto proceda senza intoppi. Ma i segnali che arrivano da Dublino lasciano ben sperare. Come è stato rilevato da un sondaggio del febbraio scorso, se si votasse oggi i due terzi degli irlandesi si esprimerebbero a favore del Trattato di Lisbona,2 con una vistosa inversione di tendenza rispetto alle rilevazioni di appena un anno fa. Il fenomeno è dovuto, almeno in parte, a una diversa percezione del Trattato. In occasione del primo referendum, nel giugno 2008, molti irlandesi votarono “no” pur continuando a professarsi europeisti. Man mano che si avvicina la “prova d’appello” del secondo referendum, si rendono conto che questi distinguo non sono più difendibili. Il dato relativo ai probabili “sì” tende quindi a coincidere sempre più con il tasso di sostegno al progetto europeo. Un tasso che si era mantenuto ben al di sopra del 60% anche nei giorni in cui veniva respinto il Trattato di Lisbona.

A ricondurre gli elettori irlandesi a più miti consigli dovrebbe contribuire anche la gravissima crisi economica che ha colpito il paese. Assieme ad altri “miracoli economici” degli ultimi anni – i paesi baltici, la Grecia, la Polonia, l’Ungheria – l’Irlanda è oggi fra i principali “sorvegliati speciali” dell’Unione. I suoi abitanti ne sono consapevoli e sanno bene di aver bisogno di un solido ancoraggio europeo per tirarsi fuori d’impaccio. Del resto, hanno ben presente il confronto fra il loro caso e quello di un’altra “tigre” dei mari del nord: l’Islanda. Dopo anni di liberismo spinto e di concorrenza fiscale disinvolta, Dublino ha potuto evitare almeno in parte le conseguenze devastanti del crollo dei mercati solo grazie alla sua appartenenza all’Unione economica e monetaria (UEM). Questo gli ha risparmiato la virtuale bancarotta che ha colpito invece Reykjavik quando le sue istituzioni finanziarie, non coperte dallo “scudo monetario” della UEM, sono state letteralmente travolte dalla crisi mondiale.

Fin dai tempi di Thackeray, gli abitanti della emerald island sono noti per la loro imprevedibilità, ma, come è noto, l’economia ha delle ragioni che normalmente fanno “intendere ragione”: niente di più probabile che favoriscano, nel caso in oggetto, un atteggiamento più positivo verso l’Unione, quindi verso il Trattato di Lisbona. Non è escluso d’altra parte che la tendenza si generalizzi. Un interessante studio di alcuni anni fa3 dimostrava come tutte le richieste di adesione alle Comunità prima, e all’Unione poi, fin dai tempi dell’adesione britannica, siano state presentate a seguito di periodi più o meno prolungati di crisi economica o a fronte di un perdurante differenziale di crescita rispetto ai paesi membri. Se lo schema dovesse ripetersi, le quotazioni dell’Unione potrebbero conoscere un’inattesa impennata anche in molti degli attuali Stati membri. La stessa moneta unica, del resto, è oggetto di frequenti ripensamenti visto che si comincia addirittura a parlare di possibili domande di adesione del Regno Unito e della Danimarca. Queste adesioni interessate e questi tardivi attestati di stima non rappresentano, di per sé, un progetto per il futuro ma almeno consentirebbero all’Unione di tirare il fiato e riorganizzare le idee.

 

Il gioco delle tre cariche

Se la previsione di una entrata in vigore in tempi abbastanza rapidi del Trattato di Lisbona verrà confermata, uno dei punti principali dell’agenda politica dei prossimi mesi sarà l’attuazione delle nuove disposizioni istituzionali, a cominciare da quelle relative alla nomina della Commissione, del presidente del Consiglio europeo e dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza.

In linea di principio, il nuovo presidente della Commissione potrebbe essere individuato subito dopo le elezioni del Parlamento europeo, rinviando a dopo l’autunno la nomina del collegio. In questo modo, si darebbe il via alla procedura con le regole del Trattato di Nizza e la si completerebbe dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; un iter favorito dalla presidenza ceca e in generale da quegli Stati membri che vedono con favore la conferma del presidente Barroso. Il Parlamento europeo e altri Stati membri preferirebbero però posticipare l’intera procedura – anche la fase iniziale dell’individuazione del presidente della Commissione – a dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Nell’ottica del Parlamento europeo, questo rinvio consentirebbe all’assemblea di utilizzare appieno le nuove prerogative previste dal Trattato; nell’ottica di diversi Stati membri, servirebbe a mantenere unito il “pacchetto” delle nomine apicali dell’Unione, dato che per la nomina del presidente del Consiglio europeo e del nuovo Alto rappresentante occorre attendere il nuovo Trattato.

Che si scelga la prima o la seconda procedura resta comunque il fatto che la nomina del presidente della Commissione è concettualmente inscindibile da quelle del presidente del Consiglio europeo e dell’Alto rappresentante. E questo perché i tre top jobs dell’UE dovranno rappresentare tanto le diverse aree geografiche quanto le diverse sensibilità dell’Unione, e persino il mix fra paesi grandi e piccoli.

Oltre alle suddette considerazioni, c’è n’è un’altra, più di sostanza, che dovrebbe influire sulla scelta dei candidati. Il Trattato di Lisbona dice ben poco sul modus operandi del presidente del Consiglio europeo e dell’Alto rappresentante ed è ancor meno illuminante sul modo in cui essi si rapporteranno fra loro e con il presidente della Commissione. Molti di questi aspetti si definiranno in via di prassi nei prossimi anni e diverranno una sorta di “convenzione costituzionale” europea. Una ragione in più per ritenere che l’imprinting che i prossimi presidente del Consiglio europeo e Alto rappresentante daranno al loro ruolo sarà fondamentale non solo per il primo mandato ma anche per l’evoluzione futura degli assetti istituzionali europei.

Si è molto fantasticato, durante il semestre di presidenza francese, sui benefici che il Consiglio europeo potrà trarre da una guida duratura e “dedicata” ma, a rigor di logica, è poco probabile che un presidente stabile abbia la stessa capacità di mobilitazione di un Sarkozy. Il presidente del Consiglio europeo non disporrà di un’amministrazione autonoma e, ammesso che sia espressione di un grande Stato membro, potrà probabilmente contare soltanto su un appoggio parziale e condizionato del suo paese di provenienza.4 Le sue risorse principali saranno l’autorevolezza personale e la moral suasion. Ciò lo renderà un facilitatore, come era stato immaginato fin dai tempi della Convenzione, più che un conductor. Questa relativa debolezza potrebbe peraltro rivelarsi un bene. Un presidente troppo forte rischierebbe di spostare eccessivamente l’asse degli equilibri comunitari verso il Consiglio europeo: un organismo che rimane, malgrado i correttivi del Trattato di Lisbona, caratterizzato in senso marcatamente intergovernativo.

Soprattutto, un presidente troppo forte rischierebbe di accentuare le difficoltà della Commissione. L’istituzione-cerniera dell’Unione – non è certo un mistero – ha perso ultimamente un po’ di smalto. A pochi verrebbe in mente, ora come ora, di indicarla come l’embrione di un governo federale europeo ed è poco probabile che le sue quotazioni si risollevino tanto presto. Sarebbe indubbiamente ingeneroso attribuire al solo presidente Barroso la responsabilità di questa involuzione. Ma c’è da chiedersi se alcune scelte non proprio felici sulle priorità da perseguire – a cominciare dalla deludente Strategia di Lisbona – e una certa timidezza rispetto ai grandi Stati membri abbiano aiutato.

Nell’attuale situazione di debolezza, la Commissione potrebbe risultare particolarmente penalizzata dalla competizione fra il suo presidente e il presidente del Consiglio europeo. Questa diarchia è un dato ineliminabile del Trattato di Lisbona (almeno fino a quando non si riuscirà ad attribuire ad una sola persona entrambe le cariche). Ma se diarchia deve essere, almeno si eviti di attribuire al “console” intergovernativo le coorti pretorie e a quello sovranazionale un manipolo di ausiliari.

Per rafforzare il presidente della Commissione sarebbe fondamentale politicizzare le elezioni al Parlamento europeo facendo in modo che diventino sempre più una competizione fra diversi schieramenti politici finalizzata a selezionare un programma e una compagine di governo europeo. Ma è poco probabile che ciò avvenga nel breve periodo. Più verosimilmente, le prossime campagne elettorali per l’elezione del Parlamento europeo si giocheranno su temi nazionali e si tradurranno nella designazione di ventisette delegazioni nazionali solo superficialmente amalgamate all’interno dei partiti europei.

Il terzo tassello da collocare sarà quello dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri. La riunificazione in una sola persona delle prerogative che attualmente fanno capo all’Alto rappresentante Javier Solana e al commissario Benita Ferrero-Waldner costituirà senz’altro un notevole progresso. Non bisogna però illudersi che un “doppio cappello” – come questa saldatura viene definita nel gergo comunitario – basti, di per sé, ad assicurare la coerenza della politica estera dell’Unione. La forza reale dell’Alto rappresentante dipenderà dalla sua capacità di far emergere un consenso fra gli Stati membri sui grandi temi dell’attualità internazionale: sarà forte, alle volte fortissimo, nei casi in cui sarà possibile far maturare questo accordo; sarà debole, fino a sfiorare l’irrilevanza, quando le divergenze fra Stati membri saranno insormontabili. In entrambi i casi, dovrà fare i conti, costantemente, con il bisogno di visibilità dei governi nazionali; quel bisogno che troppo spesso, negli ultimi anni, ha finito col minare l’autorevolezza delle istituzioni comunitarie. Il suo non sarà un compito facile.

Appare quindi evidente che l’individuazione delle cariche apicali dell’Unione rappresenterà molto di più di un’occasione per esprimere la potestas nominandi europea. Sarà un atto di indirizzo politico che influenzerà profondamente le traiettorie di sviluppo dell’Unione nei prossimi anni. Il mix di un presidente della Commissione debole – o tendenzialmente compiacente rispetto agli Stati membri –, di un presidente del Consiglio europeo fortissimo – e magari espressione di uno Stato membro fondamentalmente euroscettico – e di un ministro degli Affari esteri di profilo non eccessivamente elevato consegnerebbe l’Unione a cinque anni di deriva intergovernativa.

 

L’Europa alla prova della crisi

Il vero banco di prova per il Trattato di Lisbona saranno però, ancora una volta, le politiche messe in atto dall’Unione. I cantieri su cui intervenire sono molteplici, ma l’attualità europea e internazionale ce ne consegna due in particolare: quello della politica energetica e quello della governance economica.

Finora, la politica europea in campo energetico è stata una perfetta illustrazione del detto inglese in base al quale “If you are a hammer, all the problems are nails”. Avendo a sua disposizione soltanto gli strumenti della libera circolazione e della tutela della concorrenza, l’UE ha a lungo guardato ai temi dell’approvvigionamento energetico come se fossero soltanto un corollario della creazione di un mercato europeo dell’energia. Gli avvenimenti di questi ultimi anni hanno però dimostrato che una politica energetica europea, per avere senso, non può che comprendere anche una politica industriale e soprattutto una politica comune nei confronti degli Stati terzi.

Questa consapevolezza si è fatta poco a poco strada, come dimostrano le recenti proposte della Commissione.5 Il Trattato di Lisbona dovrebbe consolidare questa tendenza: oltre ad affermare che l’Unione dovrà promuovere, in quest’ambito, lo «spirito di solidarietà tra Stati membri», esso inserisce infatti tra gli obiettivi comuni quello di favorire l’interconnessione delle reti energetiche (articolo 194, paragrafo 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE) aggiungendo la possibilità, per il Consiglio, di decidere «misure adeguate alla situazione economica (…) qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia» (articolo 122, paragrafo 1 del TFUE).

Il secondo cantiere – forse il più importante in assoluto per la credibilità della UE – sarà quello della governance economica. Non si può negare che l’Europa abbia mostrato un certo attivismo di fronte alla crisi finanziaria che ha sconvolto l’economia mondiale. Anche grazie alla prontezza della presidenza francese, gli Stati membri hanno individuato fin dalle prime settimane una linea comune consistente nell’attivare garanzie pubbliche a favore del sistema bancario e nel coordinare, entro un certo limite, le rispettive misure di sostegno alla domanda aggregata. Altrettanto efficace è stato poi il coordinamento delle posizioni europee all’interno dei vari forum multilaterali, a cominciare dal G8 e dal G20.

Tuttavia, sarebbe sbagliato tratteggiare un quadro troppo roseo della (inaspettata) capacità di risposta dimostrata dall’Europa, e questo per almeno due ordini di ragioni.

La prima è che la quasi totalità delle azioni intraprese finora sono state frutto di meccanismi di coordinamento fra governi nazionali, con l’Unione europea a fare, nel migliore dei casi, da cornice. Un coordinamento di politiche nazionali è però qualcosa di diverso, e quasi sempre meno efficace, rispetto ad una politica comune. Ne aveva una percezione chiarissima lo stesso Monnet, che nelle sue memorie ricorda: «J’avais trop souvent rencontré les limites de la coordination. C’est une méthode qui favorise la discussion, mais elle ne débouche pas sur la décision».6 Non a caso, il quadro istituzionale comunitario è nato proprio per superare questi limiti. Le osservazioni di Monnet sono pienamente valide ancora oggi. Non è attraverso il semplice coordinamento che si può far fronte alla crisi del settore automobilistico europeo o che si possono salvare grandi istituti di credito transnazionali. E non è attraverso il semplice coordinamento che si possono risolvere problemi chiaramente transnazionali come la definizione di nuovi sistemi di vigilanza o il sostegno ai paesi membri più duramente colpiti dalla crisi,per non parlare della possibilità di approntare strumenti più ambiziosi, e propriamente europei, per far fronte alla crisi. In risposta alla contrazione dell’economia, sono già circolate alcune idee interessanti: dall’emissione di eurobond, come proposto dal ministro Tremonti, alla creazione di un fondo speciale – una lending facility sul modello dell’FMI – per i paesi a rischio di default, come suggerito da Giuliano Amato.7 Ma proposte del genere potranno essere discusse con qualche costrutto soltanto nel quadro di procedure decisionali formali, non certo nell’ambito di semplici meccanismi di coordinamento delle politiche nazionali.

La seconda ragione per moderare gli entusiasmi è che la logica “emergenziale” con cui si sta affrontando la crisi economica non è priva di contraccolpi sul piano istituzionale. La risposta – rapidissima, quasi un riflesso rotuleo – della presidenza francese alle prime avvisaglie della crisi è stata quella di convocare per la prima volta nella storia dell’Unione un vertice dei capi di Stato e di governo dell’Eurozona. Pur lodando la tempestività dell’iniziativa, non si può chiudere gli occhi di fronte alle sue implicazioni politico-istituzionali: per consentire all’Unione di dar prova della sua esistenza si è dovuto ricorrere ad una riunione informale di un organismo inedito. Agli occhi di molti, ciò è stata una conferma dell’inadeguatezza degli assetti comunitari e la dimostrazione della necessità di cercare nuove strade. Da allora, è stato tutto un susseguirsi di riunioni esterne o collaterali al quadro istituzionale: paesi membri appartenenti alla UEM, paesi membri appartenenti al G8, paesi membri appartenenti al G20, prevertici organizzati da gruppi più o meno ristretti e via dicendo. Di questo passo, però, il rischio di minare l’edificio comune diventa concreto.

Non è motivo di consolazione il fatto che, in parallelo, si siano moltiplicate anche le occasioni di incontro a 27. Anzi, la proliferazione dei vertici è un’ulteriore riprova della debolezza delle istituzioni. Hanno un che di emblematico, al riguardo, le vicissitudini del Consiglio europeo informale del 29 febbraio. Il vertice era stato sollecitato dal cancelliere Merkel e dal presidente Sarkozy ma la richiesta si era inizialmente scontrata con la ritrosia della presidenza ceca. Per tutta risposta, Angela Merkel ha indetto una riunione dei membri europei del G20 (tenutasi a Berlino il 22 febbraio). La presenza del premier ceco Mirek Topolanek, del presidente Barroso, del primo ministro Junker (per l’Eurogruppo) e del presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet avrebbe dovuto fornire una patente di ortodossia istituzionale all’evento. Ma il segnale politico percepito dai più è stato un altro: se le istituzioni non bastano, i “grandi” faranno da sé. Alla fine, il Consiglio europeo informale si è tenuto ma, su decisione ceca, si è concentrato, più che sulle misure per contrastare la crisi, sul mercato unico e sui rischi del protezionismo; obiettivo degnissimo, intendiamoci, ma che ad alcuni è parso più che altro funzionale alla messa in stato di accusa di Nicolas Sarkozy, reo di aver promosso misure “distorsive” a sostegno del settore automobilistico.8 Di concreto, il vertice ha poi deciso ben poco, limitandosi a confermare decisioni già adottate in altre sedi formali (come il Consiglio Ecofin) o informali (come il coordinamento “pre-G20” di Berlino). Triste consolazione, esso sarà ricordato più che altro per aver mantenuto una certa parvenza di consenso e aver scongiurato, almeno per il momento, una clamorosa frattura fra i vecchi paesi membri e i nuovi.9

Sulla stessa lunghezza d’onda si è mantenuto anche il Consiglio europeo del 19-20 marzo. Fatto il punto sulle misure anticrisi adottate finora, i capi di Stato e di governo hanno confermato il pieno sostegno dei 27 ai principi del mercato unico, ribadito le linee comuni in vista del G20 del 2 aprile, preso nota delle imminenti proposte della Commissione in materia di regolazione finanziaria e annunciato – tanto per non perdere l’esercizio – l’intenzione della presidenza di convocare un nuovo vertice straordinario, il 7 maggio, questa volta sull’occupazione. Tutto bellissimo, se non fosse per una certa impressione di déjà vu.

La verità è che, grattando sotto la superficie dei comunicati ufficiali, questo scorcio di politica europea lascia emergere segnali inquietanti: una difficoltà cronica ad uscire dagli schemi consolidati, una debolezza preoccupante delle istituzioni co munitarie, una crescente insofferenza nei confronti delle pastosità della UE allargata e una spiccata tendenza a cercare scorciatoie al di fuori del quadro istituzionale comune. Con pericoli che sono abbastanza intuibili.

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona aiuterà a superare queste strettoie? Forse, ma solo in misura marginale. Certo, l’elezione di un presidente stabile del Consiglio europeo dovrebbe porre un freno alla proliferazione incontrollata dei vertici, razionalizzando le attività del Consiglio europeo. Ma da qui ad aspettarsi miracoli sul fronte della governance economica – uno dei capitoli più deficitari del nuovo Trattato fin dai tempi della Convenzione –10 ne corre. La vera innovazione in materia di politica economica e finanziaria sarà il rafforzamento del ruolo della Commissione nella procedura di verifica dei deficit eccessivi (articolo 126 del TFUE). Ma, considerato il momento difficile, c’è da auspicare che l’esecutivo comunitario non utilizzi i nuovi poteri con zelo eccessivo. Sugli altri fronti non ci saranno novità eclatanti, soprattutto se si pensa che la possibilità, molto dibattuta in questi mesi, di assegnare alla Banca centrale europea poteri di sorveglianza sugli istituti bancari è già contemplata dai trattati vigenti (articolo 105, paragrafo 6 del Trattato di Maastricht).

Non è quindi dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che ci si può aspettare una vera e propria sterzata in materia di governance economica. Semmai, il Trattato potrebbe fungere da base per ulteriori decisioni che dovrebbero riguardare, in particolare, i paesi appartenenti alla UEM. Potrebbero essere valorizzati in questo senso le disposizioni che consentono di rafforzare l’azione dell’Eurogruppo e soprattutto quelle in materia di rappresentanza esterna dell’area euro, a cominciare dall’articolo 138, paragrafo 2 del TFUE che permette di adottare «le misure opportune per garantire una rappresentanza unificata nell’ambito delle istituzioni e conferenze finanziarie internazionali». Se così fosse, la crisi finanziaria potrebbe davvero fungere da catalizzatore per la creazione – attorno e attraverso l’UEM – di un’avanguardia di paesi membri “integrazionisti”, come da più parti è stato auspicato negli ultimi mesi.

Non bisogna però nascondersi che si tratta di una strada tutt’altro che agevole. È poco probabile che in questa congiuntura possano emergere quelle condizioni di fiducia reciproca, solidarietà e comunanza di intenti che sarebbero necessarie per ulteriori accelerazioni sulla strada dell’integrazione. Senza dimenticare che l’Unione economica e monetaria diventerà molto presto, e forse è già, un contenitore troppo ampio ed eterogeneo per candidarsi al ruolo di “nucleo duro”,11 a vocazione federale, dell’Unione. L’alternativa, però, è rassegnarsi ad una lenta ma inesorabile deriva intergovernativa. Vale, per l’Europa allargata, quello che Montale scriveva del mare: «Essere vasto e diverso e insieme fisso» è una «legge rischiosa». Le classi dirigenti continentali – o almeno quelle che per storia, interesse e collocazione geopolitica dovrebbero essere più legate al progetto europeo – farebbero bene a tenerlo a mente.12


[1] N. Verola, Dalla Costituzione europea al Trattato di riforma. Rilancio o restaurazione?, in “Italianieuropei”, 4/2007.

[2] Per la precisione, il sondaggio ha registrato, fra le persone orientate a votare, un 60,7% di favorevoli e un 39,3% di contrari. Per la prima volta dall’avvio del processo di ratifica, gli orientamenti a favore del “sì” superano il 50% anche se si sommano ai “no” (che rappresentano all’incirca un 33% degli elettori) gli indecisi, che raggiungono ancora il 16%. Cfr. Major swing in favour of Lisbon Treaty as 51% would now vote yes, in “The Irish Times”, 16 febbraio 2009.

[3] W. Mattli, The Logic of Regional Integration. Europe and Beyond, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

[4] Questo per la semplice ragione che la nuova carica sarà verosimilmente ricoperta da un ex capo di governo, ed è difficile immaginare un leader in carica che mette tutto il proprio peso politico a disposizione di un suo predecessore. Se il discorso sembra troppo astratto, si provi ad immaginare un Sarkozy che si prodiga per farsi coordinare, all’interno del Consiglio europeo, da un Dominique de Villepin o a un Gordon Brown che fa altrettanto per Tony Blair.

[5] Basti pensare all’Analisi strategica approvata dal Consiglio energia di febbraio e alla proposta di un finanziamento straordinario, per cinque miliardi di euro, a favore di progetti infrastrutturali in campo energetico.

[6] «Avevo troppo spesso incontrato i limiti del coordinamento. È un metodo che favorisce la discussione, ma non sfocia nella decisione ». J. Monnet, Mémoires, Fayard, Parigi 1977.

[7] G. Amato, Che errore non aver voluto gli stabilizzatori europei, in “Il Sole 24 Ore”, 8 marzo 2009.

[8] Europe’s family squabbles, in “The Economist”, 28 febbraio 2009.

[9] The bill that could break up Europe, in “The Economist”, 28 febbraio 2009.

[10] G. P. Manzella, La politica economica e il governo della moneta unica, in F. Bassanini, G. Tiberi (a cura di), Le nuove Istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Il Mulino, Bologna 2008.

[11] Paradossalmente, proprio il successo dell’UEM potrebbe impedirle di svolgere questo ruolo. L’Unione economica e monetaria ha dimostrato in queste settimane tutta la sua efficacia come “schermo” finanziario contro la crisi internazionale. Adesso ci sono forti pressioni per l’ingresso di Stati membri che apprezzano i benefici funzionali della moneta unica ma non ne condividono le implicazioni potenzialmente federaliste. Questo potrebbe in prospettiva rivelarsi un ostacolo insormontabile ad ulteriori spinte integrative.

[12] Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo l’istituzione di appartenenza dell’autore.