Alcune osservazioni sul sistema elettorale tedesco

Written by Massimo Luciani Thursday, 28 February 2008 22:40 Print

Nel dibattito sulla riforma elettorale è necessario tener conto del fatto che il rendimento e gli effetti dei sistemi elettorali dipendono da una pluralità di fattori che rendono illusoria la pretesa di tracciare ferrei nessi di consequenzialità. In questa discussione, il modello tedesco è meritevole di particolare attenzione. La legge elettorale della Repubblica Federale, che presenta una clausola di sbarramento che ha prodotto imponenti effetti di semplificazione, nonostante la sua natura proporzionale non ha determinato un multipartitismo estremizzato.

Un tema classico della scienza politica del secondo dopoguerra è stato quello dell’influenza dei sistemi elettorali sulla strutturazione del sistema politico, in particolare sulla conformazione del sistema dei partiti. Per qualche tempo, anzi, si è ritenuto di poter elaborare delle “leggi”, capaci di predire gli effetti tipici che l’introduzione dell’uno o dell’altro sistema elettorale avrebbe prodotto su qualunque sistema politico (in questo senso andavano, soprattutto, gli studi di Duverger e di Rae). Questi tentativi, però, non tenevano conto di alcuni dati fondamentali. In primo luogo, del fatto che il rendimento e gli effetti dei sistemi elettorali dipendono da una pluralità di fattori (assetto esistente del sistema dei partiti, trasformazioni in atto nelle preferenze elettorali, cultura politica del paese, assetto istituzionale, dato costituzionale ecc.), che rendono illusoria la pretesa di tracciare ferrei nessi di consequenzialità. Inoltre, poiché ogni sistema elettorale è funzionale al raggiungimento degli obiettivi politici perseguiti dagli attori del sistema, non si considerava che la direzione delle influenze non va tanto dal sistema elettorale a quello politico, quanto, viceversa, dal secondo al primo. Ogni sistema politico, in definitiva, ha un sistema elettorale che riflette alcune delle esigenze principali dei suoi attori. Ovviamente, quando gli attori politici agiscono dopo una grave crisi e in una fase di ristrutturazione del sistema, operando “sotto il velo dell’ignoranza”, essi non sono in grado di cogliere appieno i propri vantaggi partitici (i rapporti di forza non sono ancora chiari), sicché le loro opzioni sono orientate da considerazioni maggiormente generali e di sistema. Quando, invece, i rapporti di forza sono chiari e si agisce “a bocce ferme”, le scelte sono direttamente determinate dalla convenienza partitica, il che rende più facile che si avveri l’ipotesi che le regole siano definite dalla volontà degli attori di primo piano e con maggior potere decisionale, piuttosto che da un accordo di più ampio respiro tra una pluralità di attori. Ovviamente, però, una volta che un sistema elettorale sia stato adottato, esso determina degli effetti di backlash sul sistema politico, (ri)plasmandolo secondo le compatibilità determinate dalle regole della competizione (ed è per questo che è terribilmente difficile predire con precisione gli effetti dell’adozione di nuove regole elettorali). Certo, non mancano i casi in cui gli stessi attori politici sono incapaci di comprendere quali siano gli interessi propri e quelli complessivi della comunità politica, sicché si paralizzano a vicenda o si indirizzano verso regole elettorali inefficienti o dannose. L’esempio italiano dal 1993 ad oggi, da questo punto di vista, è illuminante. Ben altra razionalità hanno dimostrato le classi politiche di altri paesi, per cui vale la pena di riflettere sulle esperienze straniere, non certo per importarle acriticamente (non è detto che quel che va bene “là” vada bene anche “qui”), ma per capire come funzionano le cose altrove e trarre dalla storia degli altri qualche lezione per la storia propria.

Il modello tedesco, in questa prospettiva, è meritevole di particolare attenzione. La sua storia, infatti, è significativa. Nella Germania uscita dal disastro della sconfitta militare, la maggioranza delle forze politiche che si affacciavano alla democrazia aveva alcuni obiettivi fondamentali: marcare la differenza tra l’esperienza del secondo e quella del primo dopoguerra, disegnando una forma di governo più stabile e “difesa” di quella che era stata travolta da nazionalsocialismo (“Bonn non è Weimar” era la parola d’ordine); escludere dalla dialettica parlamentare alcuni partiti ritenuti antisistema; disegnare regole che sapessero coniugare capacità di governo e garanzia reciproca delle forze politiche, in un momento in cui i rapporti di forza tra i vari attori non erano conosciuti. Queste esigenze spiegano ampiamente le scelte compiute in sede costituente e si sono riflesse anche in quelle relative al sistema elettorale, suggerendo la scrittura di regole alquanto originali, che si spiegano – come è stato chiarito dalla dottrina (da ultimo, Kreuzer) – con la condizione del sistema politico che si andava allora costruendo. Quello tedesco è frequentemente classificato tra i sistemi elettorali “misti”. La categoria dei sistemi misti è stata elaborata muovendo dalla premessa che vi sarebbe una chiara e netta differenza tra sistemi proporzionali e sistemi maggioritari e che sarebbero “misti” quelli che presentano tratti caratteristici degli uni e degli altri. Le cose, in realtà, non sono così semplici.

La logica sulla quale i due modelli (proporzionale e maggioritario) si fondano, effettivamente, è assai diversa e sottende un’opposta concezione della rappresentanza politica. Tuttavia, come è stato dimostrato, già molti anni addietro, da Mackie e Rose, se calcoliamo l’“indice di proporzionalità” dei vari sistemi (e cioè l’indice di rispetto della corrispondenza tra voti ricevuti e seggi ottenuti), scopriamo che, di fatto, vi sono sistemi che per forma sono proporzionali, ma presentano un indice di proporzionalità assai più basso di alcuni sistemi maggioritari. Occorre distinguere, pertanto, tra la struttura e gli effetti del sistema. Appunto, nel caso del modello tedesco questa distinzione, come subito si vedrà, è particolarmente necessaria. È proprio questa distinzione, del resto, che spiega perché la stessa legge elettorale (auto)definisca il sistema che disegna come un sistema mit der Personenwahl verbundenen Verhältniswahl (e cioè come un sistema ad elezione proporzionale connessa ad una elezione personale). In breve, si tratta di un sistema di proporzionale personalizzata (nei paesi anglosassoni si parla, ma con formula imprecisa, di additional member system). In ogni caso, come ha esattamente notato Nohlen, non si tratta di un sistema “misto” in senso proprio, perché – come si vedrà in seguito – il principio rappresentativo che accoglie è quello proporzionale. Il che non vuol dire, appunto, che gli effetti del sistema non possano essere in parte “disrappresentativi” e non possano essere per certi profili analoghi a quelli dei sistemi ispirati ad una logica maggioritaria. La legge elettorale tedesca risale al 1949 e le sue successive modificazioni sono state, tutto sommato, marginali. La legge elettorale tedesca (Bun- deswahlgesetz, BWG) è, nella parte che regola la cosiddetta “formula elettorale” (e cioè il meccanismo di commisurazione dei seggi ai voti), estremamente semplice e sintetica: in soli sette (e brevi) articoli la formula è pienamente definita. In sintesi e limitandosi all’essenziale: a) i seggi in palio sono (almeno) 598 (articolo 1, comma 1); b) 299 seggi sono assegnati in collegi uninominali con il metodo first past the post. Come in Gran Bretagna, insomma, chi ottiene più voti conquista il seggio (articolo 1, comma 2); c) altri 299 seggi sono assegnati con metodo proporzionale, a scrutinio di lista (articolo 1, comma 2); d) ciascun elettore ha due voti. Il primo (Erststimme) serve a scegliere il candidato nel collegio uninominale; il secondo (Zweitstimme) a scegliere la lista, con i relativi candidati (articolo 4); e) tra primo e secondo voto non deve necessariamente esservi coerenza (vale il cosiddetto panachage o splitting), sicché l’elettore può scegliere il candidato uninominale di un partito e la lista di un partito diverso (articolo 4); f) ogni lista ha diritto ad un numero di seggi proporzionale al numero di voti ottenuti (articolo 6); g) conseguentemente, dal totale dei seggi che debbono essere assegnati a ciascuna lista sono dedotti i seggi già conquistati nei collegi uninominali (articolo 6, comma 4); h) nondimeno, se la lista ha ottenuto nei collegi uninominali più seggi di quelli cui avrebbe diritto in base al calcolo proporzionale, li conserva come seggi in eccedenza (cosiddetto Überhangmandate; da noi, mandati in sovrarappresentazione), con la conseguenza che il numero totale dei deputati non è fisso (articolo 6, comma 5); i) al riparto proporzionale partecipano solo le liste che abbiano ottenuto almeno il 5% dei suffragi espressi con il secondo voto, oppure almeno tre mandati nei collegi uninominali. Questa previsione, tuttavia, non si applica alle liste che sono espressione di minoranze nazionali (articolo 6, comma 6); l) per l’assegnazione dei seggi proporzionali si applica il metodo Hare-Niemeyer (si moltiplica il totale dei seggi per il totale dei voti di ciascuna lista e si divide per il totale dei voti di tutte le liste ammesse; ogni lista ottiene tanti seggi quanti sono i numeri interi risultanti da questa operazione); m) se una lista che ha ricevuto più del 50% dei voti ha ottenuto meno del 50% dei seggi, le è assegnato un seggio supplementare (articolo 6, comma 3).

È del tutto evidente che queste regole non definiscono un sistema misto in senso proprio, ma un sistema proporzionale, poiché i seggi distribuiti a scrutinio di lista “riproporzionalizzano” completamente il risultato ottenuto nei collegi uninominali, ferma restando la conservazione dei mandati in sovrarappresentazione. Constatare che si tratta di un sistema proporzionale quanto alla sua formula (e cioè alla logica della rappresentanza che abbraccia), però, non dice nulla sui suoi effetti. La legge elettorale della Repubblica Federale è formalmente proporzionale come quella di Weimar, ma la sua sostanza è assai diversa, e non a caso, come già detto, fu consapevolmente concepita come qualcosa di fortemente differenziato, per rimediare ad alcuni gravi difetti di quella precedente. Chi, dunque, si limita a lodare o a criticare il sistema tedesco solo per la sua natura proporzionale dovrebbe riflettere, semmai, sugli effetti che esso produce. Ora, proprio dal punto di vista degli effetti, questo modello determina, anzitutto, una conseguenza che è tipica dei sistemi uninominali maggioritari. La competizione per i 299 seggi uninominali, infatti, spinge i partiti a candidare personalità di rilievo, capaci di attirare il consenso degli elettori. Il vantaggio diretto è quello che, così, si apre la possibilità di conservare, se ne ricorrono le condizioni, i mandati in sovrarappresentazione (allo stato, tali mandati sono quindici), ma forse più importante è il vantaggio indiretto, consistente nel possibile effetto di trascinamento che il voto uninominale può avere sul voto di lista (in genere, per dare un voto “utile” gli elettori hanno la tendenza a scegliere, nel collegio uninominale, il candidato di uno dei due partiti maggiori, partiti che quindi hanno più chance di avere mandati in sovrarappresentazione). Certo, l’elettore ha due voti e ha diritto a differenziarli, ma è ben noto che la qualità dei candidati selezionati può mutare l’ordine di preferenze di un elettore, essendo un elemento di valutazione della “serietà” del partito che presenta le candidature. In ogni caso, la possibilità di differenziare i due voti (introdotta, è bene ricordare, nel 1953) dà comunque al sistema un carattere di forte personalizzazione, consentendo agli elettori di far valere non solo le loro opzioni partitiche, ma anche quelle, appunto, personali (e si trascura, qui, la questione della selezione delle candidature dal basso, da parte degli iscritti ai partiti, che va nel medesimo senso; si vedano gli articoli 21 e 27 BWG). Altra conseguenza fortemente “disrappresentativa” è la clausola di sbarramento. Essa si attesta sulla soglia del 5% e potenzialmente confligge con il principio di eguaglianza del voto, fissato dall’articolo 38, comma 1 della Legge fondamentale. Il Tribunale federale, per costante giurisprudenza, ha interpretato il principio di eguaglianza del voto come una garanzia di parità di effetti dei singoli voti non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, nel senso che i voti debbono essere idonei a produrre un eguale risultato non solo in astratto (come avviene in tutti i sistemi elettorali democratici, anche maggioritari), ma anche in concreto (nel senso che deve esservi proporzione tra voti conquistati e seggi assegnati). Nondimeno, la clausola di sbarramento, in quanto contenuta nella misura del 5%, è stata dichiarata ragionevole, perché il Tribunale ha ritenuto che il principio di eguaglianza del voto dovesse essere bilanciato con altri princìpi costituzionali, primo fra tutti quello della definizione di un governo chiaro e stabile (è interessante notare che una giurisprudenza analoga si è maturata in Spagna).

Gli effetti di semplificazione determinati, in Germania, dalla soglia del 5% sono stati imponenti e solo la riunificazione (con la comparsa sulla scena politica di attori del tutto nuovi) ha in qualche modo reso il quadro più complesso. Nonostante la sua natura proporzionale, insomma, il sistema elettorale tedesco non ha determinato un multipartitismo estremizzato, così come era nelle intenzioni del legislatore del 1949 (che si ispirava al già ricordato principio «Bonn non è Weimar»). La descrizione del sistema elettorale tedesco non sarebbe (relativamente) completa, però, se non si menzionasse una previsione che appare fondamentale per il suo buon funzionamento. L’articolo 10 del regolamento del Bundestag, infatti, stabilisce che i gruppi parlamentari sono formati da deputati appartenenti allo stesso partito, che siano in numero non minore al 5% del totale dei deputati, ed esclude la possibilità di costituire un gruppo misto. In questo modo la clausola di sbarramento non può essere aggirata e gli effetti di semplificazione che essa produce sono assicura- ti (prova ne è il fatto che, allo stato attuale, i gruppi parlamentari – Fraktionen – del Bundestag sono solo cinque, mentre solo due sono i parlamentari non iscritti ad alcun gruppo).

Quel che il sistema elettorale qui rapidamente descritto ha saputo dare in Germania non è detto che sia capace di darlo fuori dai confini tedeschi. Prima di scartare una discussione su questo modello, però, varrebbe la pena di riflettere su alcuni punti. Innanzitutto la proporzionale personalizzata consente di riflettere le correnti di opinione presenti nel paese, ma salvaguarda la possibilità che i candidati siano scelti anche sulla base delle loro qualità personali. Inoltre, la clausola di sbarramento riduce il formato del sistema partitico, escludendo i partiti-scheggia (Splitterparteien). Infine, i mandati in sovrarappresentazione sono un incentivo a presentare candidature serie e spingono gli elettori a “votare in modo utile” nei collegi, rafforzando i partiti più forti. Contro il sistema tedesco si obietta che la sua capacità di strutturare il sistema dei partiti è limitata e che la riduzione del numero dei partiti non è garanzia della formazione di maggioranze chiare e stabili. L’obiezione ha un suo fondamento, anche se la semplificazione determinata dalla clausola di sbarramento potrebbe determinare effetti complessivi (di ridefinizione degli equilibri politici) che allo stato non sono prevedibili. L’obiezione, però, prova troppo, perché nessun sistema elettorale – nemmeno il più fortemente maggioritario – è in grado di garantire governi certi e stabili (tutto dipende dai rapporti tra i partiti e dalla situazione interna dei partiti). Quel che più conta, poi, è che l’esperienza italiana dal 1993 a oggi mostra, paradossalmente, la debolezza delle soluzioni forti, quando sono imposte ad un corpo politico e sociale recalcitrante. A parte ogni considerazione sul rendimento democratico delle soluzioni alternative (prima fra tutte quella che sortirebbe dal referendum Guzzetta-Segni), l’ipotesi tedesca, almeno, non soffre del vizio tipico delle cure da cavallo. Che la si debba importare o meno, ovvero che la si debba importare così com’è o che la si debba invece correggere, ovviamente, è questione più complessa. Che la si debba scartare a priori per una sua pretesa debolezza, però, è a dir poco opinabile. E chi dice il contrario sembra dimenticare, stranamente, sia i dati della storia, sia le più solide acquisizioni della teoria dei sistemi elettorali.