Israele, Palestina e la guerra di Gaza

Written by Fabio Nicolucci Monday, 16 February 2009 13:54 Print

Gli eventi di Gaza saranno periodizzanti. Nel 2009, anno in cui si svolgeranno le elezioni nei principali paesi dell’area, si porranno due scottanti questioni: quale sia la forza dell’Islam politico-radicale e quin­di, indirettamente, quale sia la risposta occidenta­le per affrontarlo. Avendo già ridisegnato il cam­po di forze palestinese, avranno anche influenza sulle elezioni politiche in Israele. In caso di vittoria di Netanyahu il superamento in senso progressivo dei neocon sarà più difficile.

 


 

Il 2009 sarà un anno decisivo per la fase costituente nella quale si trova il Medio Oriente, apertasi dopo l’11 settembre 2001. Nel 2009 i suoi contorni, ancora indefiniti e sfuggenti, diventeranno infatti pienamente riconoscibili, perché si tratta di un anno elettorale: si sarebbe dovuto votare il 9 gennaio in Palestina per rinnovare il presidente e si voterà il 10 febbraio alle politiche in Israele; e poi a fine gennaio in Iraq per le elezioni amministrative, ad aprile per il presidente in Algeria, a giugno in Libano per il Parlamento e in Iran per il presidente, in ottobre con le elezioni sia presidenziali sia parlamentari in Tunisia, e amministrative in Turchia.

In tali processi elettorali si porranno due scottanti questioni: quale sia la forza dell’Islam politico-radicale e quindi, indirettamente, quale sia la risposta occidentale per affrontarlo. A tener banco sarà il tramonto dei neoconservatori, delle loro «prediche»1 e della loro ideologia, il cui fallimento questo nodo ha aggrovigliato invece di sciogliere, avendo legato la guerra al terrorismo con la promozione della democrazia. Un legame così forte da unificare etica e politica in un tutt’uno e da risultare quindi impolitico e moralistico: con ciò producendo verso l’Islam politico-radicale l’attuale paralisi analitica e politica dell’Occidente – amplificata dal fatto che in questa regione la morale affonda in modo pregnante le proprie radici nella religione – poiché ogni passo in questo senso è subito equiparato a mero collaborazionismo.

Naturalmente, ogni progetto politico di qualche portata egemonica – e quello neoconservatore lo è stato – poggia su un problema reale a cui dà in qualche modo una risposta. In questo caso, il problema reale era il troppo realismo politico precedente all’11 settembre – un troppo che, come scriveva Gramsci, «porta spesso ad affermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della “realtà effettuale”, non interessarsi del “dover essere” ma solo dell’“essere”»2 – che si limitava al mantenimento sic et simpliciter di uno status quo invece sempre più precario. La scelta dei neoconservatori di romperlo è stata però un velleitario «amore con le nuvole», un «dover essere» più vicino a quello «astratto e fumoso del Savonarola» piuttosto che a «quello realistico del Machiavelli».3 Non avendo infatti prospettato una via d’uscita realista e progressiva verso nuovi e più avanzati equilibri, ciò si è risolto nell’emersione e nel rafforzamento – ironia della sorte, proprio mediante quei processi elettorali che avrebbero dovuto invece consolidare equilibri riformisti – di forze regressive come l’Islam politico- radicale. Questo l’ostico paradosso che dovrà affrontare la presidenza Obama in Medio Oriente.

In questo contesto senza dubbio centrali saranno gli equilibri che scaturiranno da due fatti: la scadenza del mandato di Abu Mazen in Palestina, e soprattutto le elezioni politiche in Israele del 10 febbraio. Sarà importante in particolare ciò che succede in Israele, poiché si tratta di una nazione cruciale nell’elaborazione della cultura politica occidentale, e in particolare di quella che concerne le relazioni internazionali e il terrorismo globale. Questi equilibri dipenderanno molto dalla guerra di Gaza, destinata ad incidere anche come evento periodizzante nella tematizzazione dei due nodi politici sopra accennati.

 

Hamas e la guerra

La stessa decisione di Hamas di infrangere la tregua in atto da mesi è stata del resto frutto di una precisa strategia politica, imposta da Damasco dall’ala dura e politicistica dell’esterno capeggiata da Khaleed Mesha’al a quella dei pragmatici dell’interno che governano Gaza. Come nelle elezioni del 1996, anche oggi Hamas cerca di spingere l’elettorato israeliano nelle braccia di quel Netanyahu che irrigidirebbe ancor più un panorama politico israeliano già sclerotico. Con ciò indirettamente favorendo chi, come Hamas, lavora per conquistare l’egemonia nel movimento nazionale palestinese su una piattaforma politica e militare intransigente, anche cercando di favorire la crisi definitiva di un Fatah la cui esistenza dipende oramai dal raggiungimento di una qualche pacificazione con Israele e la cui vita interna è gravemente in difficoltà. Due fattori viziosamente sinergici e interdipendenti. Nel 2008, ancor prima dell’offensiva a Gaza, l’organizzazione di Arafat ha del resto annunciato l’ennesimo rinvio del suo lungamente atteso sesto congresso.

In tutta la società palestinese la crisi della politica laica – fenomeno anche regionale – ha infatti aperto larghi varchi all’Islam politico-radicale, con due conseguenze: l’islamizzazione crescente anche di Fatah – di cui tutta la seconda Intifada, e in particolare la cultura politica e la simbologia islamica delle Brigate dei martiri di al Aqsa, nominalmente parte di Fatah, sono i segni più evidenti – e la politicizzazione di Hamas (acronimo di Harakat al Muqauama al Islamiya, cioè Movimento di resistenza islamica, che in arabo significa anche “zelo, ardore”).

All’origine Hamas nasce infatti come movimento islamico con scopi prevalentemente di assistenza sociale, nato dai Fratelli musulmani nel 1987 anche con il nascosto concorso di Israele allo scopo di arginare con ogni mezzo la forza nazionalista e laica dell’OLP. Poi attraversa un prepotente processo di politicizzazione in due fasi. La prima avviene con la decisione di avversare gli accordi di Oslo del 1993, quando Hamas è ancora un movimento molto coeso. La seconda, avviata negli ultimi anni, si sta compiendo sotto i nostri occhi e vede un suo articolarsi e sfrangiarsi.

Perché quello che era un movimento molto compatto con una catena di comando verticale, dopo il doppio omicidio nel 2004 per opera del General Security Service (GSS, noto come Shin Bet) dello sceicco Ahmed Yassin e del suo successore Rantisi, ha cominciato a sbandare, divenendo – anche per l’esercizio quotidiano del potere dopo la vittoria alle elezioni politiche del 2006 e la conquista manu militari di Gaza nell’agosto del 2007 – un movimento dove convivono molte anime, spesso in competizione anche aspra tra loro. Lo si può constatare anche dalla vicenda della tregua e della sua unilaterale rottura a metà dicembre 2008: mentre nel giugno la decisione di siglarla aveva segnato una temporanea vittoria della leadership politica e sociale di Hamas, quella guidata da Ismail Hanyhieh più radicata nel territorio e attenta al sentimento maggioritario della popolazione palestinese, la decisione di infrangerla ha invece segnato il ritorno – favorito dalla debolezza della leadership politica dell’interno, dovuta anche all’assedio economico – dell’ala militarista guidata dal comandante delle brigate Qassam, Ahmed al Jabari, in alleanza con la leadership dell’esterno. Questo non è stato il primo né sarà probabilmente l’ultimo rovesciamento di fronte in questa lotta per l’egemonia. La stessa cosa si era vista appena siglata l’ultima tregua, quando un lancio di razzi aveva suscitato i fulmini del leader di Hamas Mahmud Zahar. Ma che dentro Hamas si stessero aprendo crescenti contraddizioni lo segnalava anche la spaccatura perfino delle brigate Izz Ad-Din al Qassam, l’ala militare di Hamas. Una spaccatura avvenuta un anno fa dopo il tentativo di destituire l’attuale comandante Ahmed al Jabari con Imad Akal, sostenuto dal precedente e carismatico comandante in capo Muhammed Deif, deciso alla sostituzione dopo che Jabari si era rifiutato di obbedire ad un suo ordine. Al Jabari aveva però deciso di ammutinarsi, rimanendo privo di copertura politica, e oggi è a capo della fazione che ha deciso di rompere la tregua. In questo panorama di policentrismo armato non manca poi l’apporto di altri gruppi, anche se più piccoli, nella spinta verso l’estremismo. Non solo la Jihad islamica, nato nel 1981 da una scissione militarista nei Fratelli musulmani e dunque precedente ad Hamas, che ne soffre la concorrenza viste le sue impeccabili credenziali ideologiche e anche la sua alleanza di convenienza con la parte più estremista di Fatah, come le Brigate al Aqsa. Ma anche l’Esercito islamico, guidato dal capoclan Mumtaz Dugmush, uno dei più estesi e forti a Gaza, autore del sequestro del giornalista della BBC Alan Johnston. Oppure il gruppo Siyuf al Haq (letteralmente, la spada della giustizia) o il Gruppo di difesa morale, basato a Khan Younis. Insomma, a Gaza più che a distruggere Israele oggi si pensa a conquistare l’egemonia, in una doppia partita dentro lo stesso movimento e poi nella società palestinese. Una situazione molto pericolosa, nella quale occorre che Israele non solo eviti di agevolare questo gioco, ma che mediti bene le proprie mosse militari: anche se fosse praticamente possibile, forse non sarebbe nemmeno auspicabile la distruzione fisica di tutta l’attuale leadership di Hamas. Il rischio potrebbe essere che l’attuale policentrismo armato lasci il posto a spezzoni non più riconducibili a un seppur velleitario e vago progetto politico nazionale, e dunque all’esplosione incontrollata per forza e numero di gruppi volti a replicare il progetto di al Qaida, al momento assolutamente minoritari anche nella Striscia di Gaza, seppur potenzialmente pericolosi anche per la loro alleanza con le bande mafiose attualmente volte solo al contrabbando. Un flebile raggio di luce indica però che questa torsione politicista di Hamas non sembra aver fatto il pieno del sostegno popolare, segno che si è ancora in tempo. «È arrivato il tempo della terza Intifada», proclamava infatti a fine dicembre Khaled Mesha’al da Damasco. Hamas però non sembra ancora in grado di far seguire alle parole i fatti, per ragioni politiche e militari. Per quanto riguarda la politica, infatti, non solo nel caso della prima Intifada, scoppiata nel 1987 e genuinamente popolare per almeno un decennio, ma anche nella seconda più militarista e violenta decisa nel 2001 da Arafat, la precondizione è stata sempre l’unità del popolo palestinese, fosse anche solo nella sua classe dirigente. Nel 2001 essa ancora sussisteva. Oggi le condizioni politiche sono molto diverse. All’interno il popolo palestinese si è spaccato: non solo Fatah ha protestato il minimo sindacale contro i fatti di Gaza, ma anche la stessa Hamas è divisa, con l’ala sociale ridotta al silenzio – però fortemente radicata in quel popolo che si vorrebbe mobilitare in una nuova Intifada – da quella militarista. Meglio non va poi all’esterno: l’Egitto è molto irritato con Hamas per aver fatto fallire i suoi sforzi di riconciliazione, mentre silente rimane quell’Arabia Saudita che ha visto andare in fumo gli accordi della Mecca per il governo di unità nazionale. E oggi solo gli amanti della causa palestinese, ma non del suo popolo, come il leader iraniano Khamenei, emettono fatue chiamando al Jihad. Per quanto riguarda le armi, poi, Hamas sembra ancora lontana dagli standard di Hezbollah.

 

Abu Mazen e la guerra

In ogni caso, si apre ora una fase assai incerta anche dal punto di vista politico per la Palestina e i palestinesi. Il 9 gennaio 2009 è infatti scaduto il mandato di Abu Mazen da presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese vinto alle presidenziali del 9 gennaio 2005 con ben il 66% dei voti. Era un’altra epoca politica, che si è chiusa con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Oggi, infatti, la situazione è del tutto diversa, ed è ben esemplificata dalla disintegrazione in atto dell‘unità del possibile Stato palestinese. Un processo cominciato con la difficile coabitazione tra presidente (dell’OLP) e Parlamento (controllato da Hamas) iniziata nel 2006, poi diventata una “guerra civile a bassa intensità” con il golpe di Hamas a Gaza nell’agosto del 2007 e la cacciata e l’uccisione degli uomini di Fatah. Che la situazione fosse divenuta difficilmente componibile lo si era visto da molti segnali. Innanzitutto, il cambiamento unilaterale della legge elettorale – con cui Hamas aveva potuto avvantaggiarsi nei collegi uninominali delle divisioni presenti in Fatah, facendo il pieno – che Abu Mazen nel settembre 2007 aveva cambiato da sistema misto proporzionale- uninominale a proporzionale puro, si potrebbe dire “alla tedesca”. Poi il fallimento dei numerosi sforzi di ricomposizione sostenuti dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Ma la base del contendere è sempre stata la questione tutta politica della coabitazione, resa difficile anche dall’ambiguità giuridica della legislazione: mentre Abu Mazen metteva l’accento sulla legge elettorale, che prevede di dover tener insieme elezioni presidenziali e politiche, suggerendo o di accorciare di un anno la legislatura oppure di estendere di un anno il suo mandato, Hamas invece evidenziava il limite costituzionale di quattro anni per il mandato presidenziale.

 

Israele e la guerra

Come probabilmente previsto da Hamas, proprio il fatto di trovarsi praticamente già in campagna elettorale ha costretto il governo israeliano a mutare l’iniziale decisione di esercitare il massimo di autocontrollo possibile, dando così il via ad una lotta per il migliore posizionamento politico che inevitabilmente sotto elezioni diviene quello di chi ha la mano più vicina al grilletto. In questo contesto, l’uomo del giorno è senza dubbio il laburista Ehud Barak. Tirato per la giacca da Hamas in una guerra che nella cosiddetta “cucina” – il ristretto direttorio di governo composto dal primo ministro e dai ministri di Esteri e Difesa, così definito dal tempo di Golda Meir, che lo riuniva nella propria cucina di casa – non lo ha certo visto tra gli impazienti, il laburista Barak è infatti premiato dai sondaggi. Un partito che sembrava non avere più spazio nell’arena politica israeliana, schiacciato a destra dalla nascita di Kadima – partito creato da Sharon con laburisti come Shimon Peres – e recentemente chiuso anche a sinistra dalla nascita di un rinnovato Meretz, a cui ha partecipato anche Gilad Sher, l’ex capo negoziatore e fraterno amico dello stesso Barak. Poi, lo scenario politico è mutato improvvisamente. Prima della guerra, il disfacimento di un governo per la prima volta caduto su temi interni di corruzione piuttosto che sul nodo esistenziale del conflitto israelo-palestinese, con una conseguente caotica lotta per la sopravvivenza politica tra le sue personalità, terrorizzate dalla prospettiva di una destra arrembante alle elezioni del 10 febbraio. Con un Barak considerato il vaso di coccio tra quelli di ferro della Livni e di Netanyahu. Dopo la guerra, una competizione interna al centrosinistra sconvolta nei suoi esiti probabili e aperta a ogni possibile esito con la destra.

Nel Medio Oriente, però, chi sembra avere le carte migliori potrebbe domani in realtà dover rimanere “con il cerino in mano”. Se l’esito finale dell’operazione “Piombo fuso” dovesse rivelarsi, come è possibile, una vittoria politica di Hamas, pur nel contesto di una sua sconfitta militare, allora Barak e Kadima ne pagheranno le conseguenze anche in termini elettorali, visto che sono entrati in guerra per indebolire Hamas e non per farne un gigante: un rischio concreto, visto che l’indubitabile vittoria militare di Israele – contrariamente ai precetti di Von Clausewitz – al momento rimane fine a se stessa e non spendibile politicamente per il veto moralistico ricordato all’inizio, mentre Hamas ha già ottenuto la ripresa dei negoziati informali con Israele su Ghilad Shalit, il riconoscimento delle Nazioni Unite come forza predominante a Gaza, e per l’insidioso fattore dell’asimmetria delle forze lascia il teatro di guerra con l’etichetta di vittima pur essendo anche un’organizzazione terroristica.

Insomma, potrebbe non bastare a Barak il fatto di essere il più decorato soldato della storia d’Israele, così come l’esser stato con una bionda parrucca da donna a capo dell’audace commando che a Beirut eliminò nel sonno il terrorista palestinese responsabile del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco – episodio raccontato dal film “Munich” – né esser stato a capo dell’intelligence militare, e poi capo di Stato Maggiore: sempre una patente di inettitudine gli verrà affibbiata. Certo è, però, che nonostante il tentativo di Tzipi Livni di guidare il fronte bellicista non sarà lei ad avvantaggiarsene. Lo farà invece Netanyahu.

 

Una primavera piena di spine?

Il calcolo politico dei duri di Hamas era chiaro: costringere Israele a reagire, polarizzando la situazione militare e politica per mantenere il possesso dell’agenda in un anno cruciale come il 2009 e marginalizzare i riformisti, interni ed esterni. Ora Abu Mazen è costretto ad un dilemma comunque delegittimante: prolungarsi unilateralmente e tacitamente il mandato mentre metà del popolo e il partito concorrente sono sotto il fuoco nemico, oppure cadere in un vuoto di potere dal quale sarà assai difficile rialzarsi da solo. Il processo negoziale con Israele però non solo attualmente è fermo e vuoto di contenuti, ma potrà essere rinviato sine die nel caso di una vittoria di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. Una vittoria di Netanyahu avrebbe in questo senso un doppio effetto di irrigidimento, sia nella soluzione del dilemma dell’Islam politico-radicale sia nel sempre più evanescente percorso statuale dei palestinesi. Anche perché Netanyahu è un personaggio centrale nella destra occidentale: fu lui a scrivere nel 1995 da ambasciatore d’Israele negli USA quel “Fighting Terrorism, How Democracies Can Defeat Domestic and International Terrorism” che fece conoscere ai neoconservatori USA la concezione dell’“antiterrorismo morale” della nuova destra israeliana elaborato dopo i primi attentati kamikaze di Hamas, contribuendo non poco ad accrescere la forza egemonica di ambedue e a far nascere una unitaria concezione “occidentale” in materia: fino ad allora, infatti, i primi si limitavano ad un interventismo generico e i secondi ad un’applicazione dell’antiterrorismo specifica e locale. In caso di vittoria di Netanyahu, tale motore ideologico è probabile conosca nuovo vigore, e sarà più difficile elaborare un’uscita progressiva dal modello neoconservatore. Gli estremisti vincenti dentro Hamas hanno del resto fatto bene i loro calcoli, e la incipiente primavera per i riformisti, sia israeliani sia palestinesi, rischia di essere tutt’altro che rose e fiori.


[1] A. Gramsci, Quaderni del Carcere, Einaudi, Torino 1975, Q. 7, §12.

[2]Ivi, Q. 13, §16.

[3] Ibid