La portata globale della vittoria di Obama

Written by Italianieuropei intervista Massimo D'Alema Monday, 22 December 2008 20:20 Print
Queste elezioni segnano un cambiamento d’epoca. Finisce una fase della storia americana e del mondo, dominata, dal punto di vista politico dall’unilateralismo simboleggiato dalla guerra in Iraq e dalla teoria dello “scontro di civiltà”. E contrassegnata, punto di vista della cultura economica, dal trionfo incontrastato dell’ideologia del mercato, dal mito di una globalizzazione senza regole, senza istituzioni. Insomma, quello che è stato chiamato il pensiero unico, la globalizzazione liberale. La coincidenza tra la crisi finanziaria e la campagna elettorale americana ha messo in evidenza questo tornante.

Italianieuropei: Barak Obama, 47 anni, è stato eletto quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. Il senatore dell’Illinois un anno fa era quasi sconosciuto. Il “New York Times” ha scritto che la sua elezione ha segnato un tasso di partecipazione sorprendente: nell’Ohio addirittura l’80% degli elettori, in Carolina del Nord il 70%. La media di votanti ha superato il 66%. Il risultato è andato via via confermandosi quando anche Stati come la Pennsylvania, al quale McCain affidava le ultime speranze di resistenza, è stato assegnato a Obama. Le file per votare hanno impressionato tutti i commentatori. La forza della sua campagna elettorale, la risposta dei cittadini è stata un messaggio che va oltre i confini dell’identità politica e razziale. Sembra che si possa chiudere un capitolo della storia americana. È proprio così?

Massimo D’Alema: È vero che queste elezioni segnano un cambiamento d’epoca. Finisce una fase della storia americana e del mondo, dominata, dal punto di vista politico dall’unilateralismo simboleggiato dalla guerra in Iraq e dalla teoria dello “scontro di civiltà”. E contrassegnata, punto di vista della cultura economica, dal trionfo incontrastato dell’ideologia del mercato, dal mito di una globalizzazione senza regole, senza istituzioni. Insomma, quello che è stato chiamato il pensiero unico, la globalizzazione liberale. La coincidenza tra la crisi finanziaria e la campagna elettorale americana ha messo in evidenza questo tornante.
Inoltre dobbiamo sottolineare che mai come in questa campagna elettorale i Democratici si sono presentati con un programma chiaro. La tesi secondo cui nella politica americana i due partiti principali in fondo dicono le stesse cose, che non ci sia una grande differenza, si è rivelata sbagliata. Il programma di Obama ha rappresentato una chiara inversione di rotta sui due fronti della politica internazionale e della politica interna. In politica estera, infatti, si vuole ridare prestigio agli Stati Uniti, uscendo dall’unilateralismo e avviando una politica di disimpegno graduale dalla guerra in Iraq e un ripensamento della strategia di lotta al terrorismo. A cominciare dall’impegno per la chiusura di Guantanamo e dal pieno rispetto dei diritti umani. In politica interna, invece, Obama propone un programma che, non a caso, è stato definito polemicamente “socialista”: tasse per i ricchi, riduzione della pressione fiscale sulle classi medie e sulla working class, redistribuzione del reddito.
In definitiva, si tratta di un programma di grande forza, che punta sulla pace, sul multilateralismo e sulla riduzione delle disuguaglianze sociali. Tutto questo, naturalmente, è accompagnato dal fortissimo rilancio del sogno americano e della funzione globale degli Stati Uniti, del soft power americano, che lo stesso Obama impersona: è l’immagine della società aperta. In Italia il figlio di un immigrato keniano starebbe a fare la fila alla prefettura per il rinnovo del permesso di soggiorno. In America, quello stesso figlio è diventato presidente degli Stati Uniti. La differenza è che mentre l’Europa continua a temere l’immigrazione, l’America ha saputo gestirla come una risorsa vitale per accrescere il dinamismo della sua società.

Ie: Secondo il “Financial Times” il finale di campagna è stato condizionato dalla crisi nella quale gli Stati Uniti sono sprofondati nelle ultime otto settimane. Nonostante questo, Obama ha convinto ad andare a votare soprattutto i lavoratori, i ceti medi usciti impoveriti dall’era Reagan-Bush, ma ha avuto anche il sostegno di molti altri gruppi: giovani, studenti, reti sociali, coalizioni di interessi. Perfino il mondo della finanza ha tifato per lui, evidenziando la richiesta di un forte cambiamento. Questo non accadeva dall’epoca di Kennedy.

M.D’A.: Occorre però tenere in giusta considerazione quello che ha rappresentato la presidenza di Bill Clinton: un presidente di grande popolarità, che ha segnato un cambiamento netto rispetto all’epoca di Reagan. Il suo secondo mandato è stato l’unico periodo della storia americana degli ultimi venticinque anni in cui si è registrata una riduzione delle disuguaglianze sociali. Non c’è dubbio, comunque, che Obama ha avuto la grande capacità di muovere un blocco popolare, anche superando le fratture razziali. Questa volta l’istinto di classe ha superato divisioni del genere. In questo senso, ad esempio, il dato della Pennsylvania è molto significativo: lì l’elettorato democratico, composto dal vecchio elettorato operaio, nutriva molte resistenze a votare per Obama. Non a caso nelle primarie aveva vinto Hillary Clinton. Alla fine, la Pennsylvania ha scelto Obama, credendo nelle possibilità di un vero cambiamento. E Obama, a sua volta, è stato convincente, ha conquistato i giovani, le donne, gli operai, perché ha avuto la forza di rilanciare il sogno americano.
Bush era il capo dell’Occidente, e di un Occidente che lui stesso ha contribuito a dividere con la guerra in Iraq. Obama si presenta come il primo grande leader politico globale. È questa, a mio parere, la grande svolta a cui assistiamo. Da questo punto di vista, ha un significato straordinario l’immagine dell’Africa in festa per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Obama incarna, anche nella sua storia personale, un leader politico globale: una nonna alle Hawaii, una nonna in Kenya, la sorella sposata con un cinese. La famiglia di Obama è il mondo globale: ci sono l’America, l’Asia e l’Africa. Questa è la sua forza, la potenzialità di una leadership che tutto il mondo attendeva.

Ie: Sembra che il Vecchio mondo, che ha vissuto la sua prima grande rivoluzione democratica nel 1789, finisca un ciclo nel 1989, mentre gli Stati Uniti, che vivono la loro grande rivoluzione nel Settecento, continuano a stupirci con la capacità di rimettersi in gioco, di progettare e realizzare continui processi di cambiamento.

M.D’A.: Non c’è dubbio che in questo voto si rispecchia tutto il melting pot americano. Per Obama è stato determinante il consenso dei neri e dei latini. Anche il carattere multietnico di quella società è stato alla base della sua affermazione.

Ie: Sanità, istruzione, reddito, occupazione, una nuova Bretton Woods. Cosa succederà quando si passerà dal sogno alla realtà? Quali saranno le priorità che Obama dovrà affrontare?

M.D’A.: Innanzitutto dovrà fronteggiare la crisi economico-finanziaria. E probabilmente dovrà cominciare rafforzando la capitalizzazione delle banche, avviando un programma di sostegno per le fasce più deboli della popolazione, quelle che più soffrono della crisi, e compiendo alcune scelte strategiche. Penso ad esempio alla politica energetica, dove Obama vuole promuovere un cambiamento sostanziale rispetto all’Amministrazione Bush.
In politica estera, inoltre, credo che Obama lancerà messaggi forti. Forse il primo potrebbe riguardare proprio il G8 e la sua trasformazione in un’organizzazione diversa, più ampia, inclusiva, rappresentativa del radicale mutamento che stiamo vivendo. Con la consapevolezza che sarà un percorso lungo perché soprattutto in politica estera, i processi sono graduali.
In ogni caso, il presidente degli Stati Uniti non è un uomo solo al comando del mondo, è il capo di una complessa Amministrazione, espressione di una coalizione di forze e interessi. Dalle scelte nei posti chiave dell’Amministrazione si comprenderanno molte cose. Ma non c’è dubbio che la prima sfida è affrontare la crisi, restituire fiducia alla società americana, investire, e quindi – come ho già detto – promuovere azioni per rilanciare i consumi dei ceti popolari e per investire sull’innovazione, attraverso le nuove tecnologie, il risparmio energetico, le fonti rinnovabili, la riduzione della dipendenza dal petrolio. Naturalmente, questa è un’operazione di politica interna che avrà un valore globale. È infatti evidente che un cambiamento del modello di sviluppo americano coinvolge tutto il mondo.

Ie: Questo processo di cambiamento che Obama mette in moto può contribuire a ridefinire l’identità dell’Occidente e consentire di superare quel “conflitto di civiltà” che ha purtroppo caratterizzato questi ultimi anni?

M.D’A.: La questione principale da cui partire è la consapevolezza che Obama, con la sua leadership globale, non incarna più quell’identità dell’Occidente caratterizzata dal conflitto e dallo scontro tra civiltà, ma si prefigura come identità inclusiva. Rappresenta, cioè, i valori universali che si sono consolidati nella società occidentale: la democrazia, la libertà individuale, la difesa dei diritti umani, la conoscenza e il rispetto per le culture e le storie differenti.

Ie: Quanto cambierà il rapporto degli Stati Uniti con l’Italia e con l’Europa?

M.D’A.: Di fronte ad un cambiamento così radicale degli Stati Uniti, l’Europa dà un’immagine di sé vecchia e impaurita, sembra arrancare. In Italia poi, al centrodestra viene meno l’asset rappresentato dal rapporto speciale con l’Amministrazione Bush. Basterebbe, a questo proposito, rileggere le più recenti dichiarazioni del nostro presidente del Consiglio a favore di George Bush, con giudizi che l’opinione pubblica americana difficilmente condividerebbe.

Ie: Un altro tema rilevante è rappresentato dal ruolo svolto da internet in questa campagna elettorale. Obama e il suo staff hanno utilizzato in maniera efficace e inedita questo strumento, creando “comunità orizzontali” e attuando quella che è stata definita una “operazione tra pari”, che aggregava sulla base di istanze sociali molto precise.

M.D’A.: Effettivamente, Obama ha dimostrato una capacità di mobilitazione straordinaria di una parte della società americana. È interessante come abbia condotto una campagna costante contro i sondaggi, puntando invece sulla mobilitazione della società civile. Ha privilegiato un rapporto con l’opinione pubblica non affidato esclusivamente ai media tradizionali, ma incentrato su una democrazia attiva, sulla partecipazione e sulla capacità di auto-organizzazione. È un fatto certamente innovativo e interessante. Occorre anche considerare che i modelli organizzativi, le strutture, le idee e le risorse, hanno avuto una ferrea organizzazione top-down, con un potentissimo input dall’alto.

Ie: Il discorso che Obama ha pronunciato subito dopo i risultati definitivi mi è sembrato, fuori retorica, molto emozionante. La necessità di tornare alla democrazia delle libertà, dell’eguaglianza, delle opportunità – come lui ha detto – e anche lasciare i valori dell’etica protestante, con il rigore che ne è alla base, hanno dato l’impressione di ciò che manca alla sinistra italiana. Obama ha fatto un discorso di sviluppo e di speranza che da tempo non si sente nel nostro paese, marcando il ritorno di una sintonia tra governanti e governati.

M.D’A.: Questo può essere vero, ma non credo che sia possibile trapiantare le soluzioni politiche. Abbiamo cercato per anni il Blair italiano, poi lo Zapatero italiano e ora inizia la ricerca dell’Obama italiano. Noi invece dobbiamo avere la capacità di progettare e pensare una cultura politica non contingente, ma di medio e lungo periodo che sappia misurarsi con le grandi e impetuose trasformazioni in atto. Serve al centrosinistra e al paese.

Ie: Nell’ultima intervista apparsa su “Italianieuropei” abbiamo parafrasato il titolo di un libro, definendo la nostra come l’epoca delle “passioni tristi”. Sembra che con la vittoria di Obama sia cambiato qualcosa, che sia riuscito a toccare delle corde che hanno fatto rinascere l’entusiasmo in una società stanca, non diversa, in questo, dalla società europea. Non si tratta di trovare un Obama, ma di ragionare sul “metodo narrativo” pensato e utilizzato da Obama.

M.D’A.: C’è anche questo aspetto. Gli interventi di Obama sono molto interessanti. Naturalmente, quel tipo di discorso politico, di retorica è parte della civiltà americana, è frutto delle sue caratteristiche, della sua cultura e delle sue tradizioni. Ho molti dubbi, invece, sulla diretta traducibilità dei linguaggi: i tentativi di traduzione rischiano di produrre un effetto stonato. In Italia, di fronte a quella stessa retorica, potremmo trovarci a sorridere.

Ie: Senza voler tradurre nulla, però, mi sembra si debba riconoscere il ruolo svolto da un lato dal bisogno di leadership che è emerso durante queste elezioni, dall’altro la forza del modello narrativo.

M.D’A.: L’impatto di Obama è legato anche alla profondità dello smarrimento della società americana a seguito della crisi che ha travolto gli Stati Uniti e il resto del mondo. Di fronte ad una crisi così drammatica, gli americani hanno avvertito il bisogno di ritrovare forti elementi di slancio, di coesione, di fiducia nel futuro del loro paese. Non so se in un contesto diverso si sarebbe verificato un impatto emotivo così profondo. Anche Al Gore è stato un grandissimo comunicatore. Fece una campagna bellissima, su grandi temi ideali, ma non ebbe lo stesso effetto travolgente, perché si trovava di fronte un’America più tranquilla e soddisfatta.

Ie: Non a caso, però, Gore ha percorso una terza via “politica”, quella della difesa dell’ambiente, delle energie rinnovabili, di un certo modo di ripensare l’agricoltura e il rapporto dell’uomo con la terra. Tutti temi su cui un nuovo modello di comunicazione può facilitare il recupero della sintonia tra governanti e governati.

M.D’A.: Il dato più importante, al di là della vittoria di Obama, è l’onda politica che c’è negli Stati Uniti. Va sottolineato che alla Camera dei rappresentanti e al Senato il Partito Democratico ha ottenuto un grandissimo successo. Quindi, oltre al successo personale di Obama, che ha saputo incarnare in modo straordinario e radicale le ragioni di questo movimento, c’è stato anche un successo politico dei Democratici, cioè della forza del cambiamento.

Ie: Rispetto al rapporto fra Stato laico e Stato religioso, invece, nonostante una posizione di prudenza, una scelta non radicale, non si è ripetuto l’effetto che si ebbe nelle scorse elezioni.

M.D’A.: In realtà, Obama ha polemizzato con i neocon, con l’uso politico della religione e con l’integralismo, nonostante il linguaggio della religione e il richiamo ai valori religiosi facciano parte del linguaggio politico americano. In uno dei suoi discorsi, Obama ha citato Luther King e Kennedy, sapendo che senza il riferimento religioso alcuni dei temi sostenuti in campagna elettorale non avrebbero avuto la stessa forza evocativa. Ma la religione non va mai usata come strumento di dominio o in senso integralista. Nel discorso a cui accennavo, che risale al 2006, Obama spiegava la sua posizione sull’aborto, una posizione di tolleranza rispetto al fenomeno. Nella stessa occasione, però, affermava anche che quanti sostengono che non bisogna mescolare la religione alla politica, propongono un laicismo alla francese estraneo alla tradizione americana. E in questo ha ragione. È una posizione che rivela un uomo di grande statura e di grande personalità politica.
E di questo ho avuto riprova il giorno in cui il Congresso americano non ha approvato il Piano Paulson, uno dei momenti più drammatici della crisi finanziaria. Ero a New York per partecipare alla Convention annuale della Fondazione Clinton, dove intervenne McCain, che in quell’occasione fece una mossa di una certa intelligenza politica. Chiese infatti di sospendere la campagna elettorale e di non fare il dibattito televisivo programmato, per non alimentare polemiche in quel particolare momento di grande difficoltà del paese. E propose a Obama di andare entrambi a Washington per sostenere il Piano Paulson. Obama gli rispose via satellite, sostenendo che non avrebbe sospeso la campagna elettorale e che, se McCain non si fosse presentato al dibattito televisivo, si sarebbe comunque seduto accanto alla sedia vuota dell’avversario. Spiegò, infatti, che proprio la gravità della situazione richiedeva di dire agli americani cosa i due candidati alla presidenza proponevano per fronteggiare la crisi. La sua è stata una scelta vincente. Ha fatto una mossa arrischiata, ma di grande coraggio.
Obama ha dimostrato la sua forte personalità anche nel discorso alla Fondazione Clinton, quando ha affermato che i democratici sarebbero stati favorevoli ad un accordo per varare le prime misure di emergenza, ma solo ad alcune condizioni molto chiare.

Ie: C’è chi ritiene che con la svolta americana si possa prefigurare nel medio periodo il ritorno al governo dei partiti democratici anche in Europa, il ritorno di un’epoca in cui c’era grande sintonia fra Clinton, Blair e D’Alema.

M.D’A.: In effetti quello fu un momento di grande sintonia fra un socialismo europeo innovatore e i democratici americani, su cui si costruì un asse politico e culturale. Purtroppo, in questa fase, quasi ovunque in Europa non governano i socialisti riformatori ma i conservatori. E infatti il dialogo euro-americano ebbe anche il carattere di un’elaborazione politico-culturale si è interrotto.
Il timore è che, in questo momento, l’Europa, così invecchiata, impaurita e conservatrice, possa essere un peso, più che un partner, rispetto alla politica innovatrice che Obama dovrà promuovere. Allo stesso modo l’Europa dovrebbe avere la forza di dialogare e confrontarsi con le novità, definendo una sua via di cambiamento. Ora, invece di accompagnare e stimolare l’innovazione, mi pare che tutto lo sforzo sia concentrato nel ridurre l’impatto della vittoria di Obana. Quell’Europa che è stata capace di promuovere riforme sociali e inclusive, in grado di fondare un sistema di welfare avanzato, oggi appare una società chiusa, corporativa, che difende lo status quo. Gli Stati Uniti, invece, hanno la forza di una società aperta, e in un momento così delicato della storia hanno avuto il coraggio di dimostrarlo. 

a cura di Massimo Bray