Una riforma per la giustizia: separare le carriere

Written by Antonio Landolfi Monday, 02 September 2002 02:00 Print

Come uscire dalla crisi della giustizia in un paese come l’Italia che ha visto negli ultimi decenni perpetuarsi normative emergenziali, tentativi di riforme abortiti nello scontro micidiale tra un super-ego giustizialista e un garantismo peloso e a singhiozzo, che emerge quando ci sono in ballo interessi specifici, per dileguarsi quando l’opinione benpensante invoca «legge e ordine»? L’unica possibile via d’uscita è quella di mantenere la barra ferma e dritta sulla rotta tracciata da una tradizione autenticamente garantista che ha forti radici nella tradizione democratica italiana, prima e dopo il fascismo, le cui iniziative condussero a grandi progressi nel diritto positivo e nell’esercizio della giurisdizione, oltre a lasciare il segno in numerose battaglie giudiziarie.

Come uscire dalla crisi della giustizia in un paese come l’Italia che ha visto negli ultimi decenni perpetuarsi normative emergenziali, tentativi di riforme abortiti nello scontro micidiale tra un super-ego giustizialista e un garantismo peloso e a singhiozzo, che emerge quando ci sono in ballo interessi specifici, per dileguarsi quando l’opinione benpensante invoca «legge e ordine»?

L’unica possibile via d’uscita è quella di mantenere la barra ferma e dritta sulla rotta tracciata da una tradizione autenticamente garantista che ha forti radici nella tradizione democratica italiana, prima e dopo il fascismo, le cui iniziative condussero a grandi progressi nel diritto positivo e nell’esercizio della giurisdizione, oltre a lasciare il segno in numerose battaglie giudiziarie. Basterà ricordare il «socialismo giuridico» di Francesco Saverio Merlino e di Pietro Ellero, e dei suoi discepoli Leonida Bissolati, Filippo Turati, Giacomo Matteotti fino a Pietro Calamandrei e Giuliano Vassalli; il pensiero giuridico cattolico di Francesco Carnelutti, di Giovanni Leone, di Aldo Moro: democratici come Emanuele Gianturco e Uberto Scarpelli, Sergio Cotta e Giuseppe Capograssi. Per non parlare dei garantisti comunisti come Umberto Terracini e Gerardo Chiaromonte. Cosa ci dice questa cultura? Ci dice innanzi tutto che ogni forma di legislazione emergenziale non può essere perpetua, che se perde il suo carattere di eccezionalità e di temporalità si traduce in un’alterazione organica del diritto di una società e di uno Stato democratico. Modifica cioè il diritto positivo ed innesca una tendenza a considerare la giurisdizione come quella di una salvaguardia e di un baluardo i cui compiti acquistano quasi un carattere sacrale ed indiscutibile.

Dal terrorismo l’emergenza è passata alla criminalità organizzata, poi alla corruzione di Tangentopoli, e in questo suo prolungarsi la giustizia italiana finisce per vivere in una sorta di «deserto dei tartari», in uno stato permanente di allarme che motiva l’emergenzialità normativa e giurisdizionale tanto da farla apparire non già come episodica bensì come sistema organico e definitivo. Tutta la legislazione premiale offre questo sospetto: e l’efficacia (ammesso che ci sia) del premio non può motivare un’alterazione permanente del principio della testimonianza avulsa dall’interesse soggettivo e l’inversione sostanziale dell’onere della prova. In questo quadro si è consolidata l’anomalia, tutta italiana, dell’unità delle carriere tra tutti i magistrati. Per evidenziare il carattere anomalo del sistema vigente in Italia, è utile dare un’occhiata a quelli delle altre democrazie europee, ad esempio della Gran Bretagna e del Galles.

Nel sistema britannico, fino al 1985, l’attività inquirente, sia nel suo aspetto investigativo sia in quello forense (cioè di promozione dell’azione penale) era svolta dagli organi di polizia, o anche dai privati. Dal 1985 con la nuova normativa del Crown Prosecution Act è entrato in vigore un sistema piramidale che ha al suo vertice la figura dell’Attorney General che viene nominato dalla regina su scelta e proposta del primo ministro. L’Attorney General è membro del parlamento, può partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri ed è l’esperto dell’esecutivo per tutte le questioni legali. Dirige, inoltre, ed è responsabile del Crown Prosecution Service, vale a dire del servizio nazionale di promozione dell’azione penale, che predispone un rapporto annuale pubblico al parlamento sulle proprie attività. Per statuto l’attività del Crown Prosecution Service e dell’Attorney General che lo dirige viene regolata da criteri di politica criminale decisi dal governo ed approvati dal parlamento, che sono vincolanti per i pubblici ministeri e ne regolano la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale. Il Crown Prosecution Service si articola in 43 distretti (i CPD, Crown Prosecution District) che costituiscono gli uffici del pubblico ministero. Essi impiegano complessivamente duemila avvocati (sollicitors e barristers) e ciascuno di essi è diretto da un Chief Crown Prosecutor (C C P) . I 43 distretti svolgono la loro attività con la supervisione di un Director of Public Prosecution scelto dall’Attorney General. I componenti dei distretti, chiamati a svolgere l’ufficio di pubblico ministero sono, come dicevamo, avvocati che, a seguito di una loro richiesta, vengono scelti in base a criteri professionali da 43 commissioni, una per ciascun distretto, ognuna presieduta dallo Chief Crown Prosecutor. Il quale a sua volta viene scelto da una commissione nazionale presieduta dal Director Public Prosecution, di cui fanno parte esperti ed anche un giudice. L’attività dei pubblici ministeri viene regolata da direttive contenute nel Code for Crown Prosecutor, elaborato insieme dall’Attorney General e dal Director of Public Prosecution, che contiene i criteri generali ed è di carattere pubblico; e da specifici manuali riservati che contengono direttive dettagliate per l’attività dei pubblici ministeri. Il carattere gerarchico dell’organizzazione del CPS è confermato dalla possibilità che l’Attorney General ha di fermare un’azione penale già intrapresa secondo il principio del nolli persequi.

La funzione esercitata dai pubblici ministeri nel sistema inglese e gallese è, per sua natura ed organizzazione, basato su un principio di netta separazione tra la magistratura giudicante e magistratura inquirente, tale da escludere l’idea stessa di una comune organizzazione di carriera, ma anche di reclutamento e di formazione. Un tratto comune a quasi tutti i paesi dell’Europa continentale è rappresentato dalla connessione tra l’esercizio della funzione di pubblico ministero e l’esecutivo: connessione cui fa eccezione l’Italia, e che è invece ulteriormente rafforzata in Francia dal fatto che i magistrati di rango elevato che sono a capo dei 33 distretti di corte d’appello (i Procurateurs Generaux de Court d’Appel) ed il procuratore generale presso la corte di cassazione sono nominati dal consiglio dei ministri su proposta del ministro della Giustizia. Le due riforme del 1993 e del 1994 hanno voluto offrire garanzie di autonomia rispetto all’esecutivo, ma hanno mantenuto sostanzialmente inalterato il rapporto gerarchico derivante dal potere di supervisione del ministro della Giustizia, nell’ambito del quale il pubblico ministero opera secondo la legge. Tanto più che le iniziative di avvio dell’azione penale da parte delle procure vengono anche in Francia da direttive dettagliate fornite per via gerarchica dal ministro della Giustizia, per mezzo di istruzioni organiche come quelle contenute nei Code che si usano in Inghilterra, il quale esercita inoltre un’oculata attività di supervisione su ogni fase dell’attività inquirente e forense, tranne che nell’esercizio del diritto di parola nelle fasi orali del dibattimento.

Va ricordato come nel 1997 la commissione Truche (così chiamata dal nome del presidente della cassazione che la presiedette), invitata dal presidente della repubblica a «riflettere sul ruolo della giustizia», si pronunciò in questi termini a proposito della supervisione del ministero sull’attività dei pubblici ministeri: «Le modalità con cui si regola la discrezionalità dell’iniziativa penale diviene un’importante parte delle politiche pubbliche del paese nel settore penale, e come tutti gli altri settori delle politiche pubbliche, deve, in democrazia, essere mantenuta tra le responsabilità dell’esecutivo».

La commissione, quindi, aveva rigettato l’ipotesi avanzata dal presidente Chirac per una completa indipendenza dei pubblici ministeri dal ministro della Giustizia. Su tali basi, nel sistema francese, non esisteva né esiste alcun presupposto che possa portare a sostenere una separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Perché mentre la magistratura giudicante gode in Francia della massima indipendenza, quella inquirente è soggetta gerarchicamente alla supervisione dell’esecutivo. Inoltre, a differenza di quelli italiani, i pubblici ministeri in Francia possono essere soggetti a trasferimenti di sede, a seguito di disposizioni ministeriali.

Un regime di separazione delle carriere non comporta che i pubblici ministeri debbano essere necessariamente sottoposti ad un sistema di supervisione, se non addirittura di subordinazione all’esecutivo. Questo nessuno può volerlo, dovunque, e tanto meno in Italia, dove lo impedisce, giustamente, la Costituzione. Si può giungere ad un regime di separazione con pieno rispetto dell’indipendenza dei magistrati inquirenti, che non avrebbero alcuna difficoltà a dotarsi di una forma di autogoverno propria, autorganizzandosi in una struttura consiliare diversa da quella odierna del CSM. Il problema è di giungere ad un sistema che raggiunga l’obiettivo di garantire la terzietà del giudice, che elimini ogni pericolo derivante dalla contiguità. E di realizzare, dunque, una riforma nella struttura dell’ordinamento giudiziario, impedendo – una volta per tutte – ogni devianza verso forme di giustizia politica e quelle derive giustizialistiche che hanno segnato il decennio di Mani Pulite.

Bisogna insomma operare costruttivamente per cancellare questa anomalia tutta italiana costituita dalla non separazione della carriere. L’esempio da seguire è quello degli ordinamenti delle nazioni dell’Europa occidentale, nei quali, in forme diverse, è generalmente assicurata la netta distinzione tra l’attività degli inquirenti e quella dei giudicanti. Ed è a questa linea che si sono ispirati i paesi ex comunisti dell’Europa orientale e quelli nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Perché nei regimi democratici, appunto, la regola è quella della separazione: e quindi quando si entra in un regime democratico è inevitabile abbandonare la struttura che era stata adottata nella fase del totalitarismo.

Ed è anche questa la linea adottata dal parlamento dell’Unione europea. Lo conferma il testo della risoluzione n. 112/97 del parlamento europeo, approvata il 4 aprile del 1997, che al punto 58 così detta: «Si ritiene altresì necessario assicurare la terzietà del giudice giudicante attraverso la separazione della carriera con il magistrato inquirente». La risoluzione, che poneva la separazione come condizione ineliminabile per ottenere la terzietà del giudice a presupposto indiscutibile del giusto processo, fu sostenuta dal Partito socialista europeo ed approvata da una larghissima maggioranza, senza nessuna eccezione nella sinistra. Da essa si deduce che senza la separazione delle carriere non esiste un processo che risponda pienamente ai principi della democrazia. Su questa base la crisi della giustizia penale in Italia emerge ancora più inequivocabilmente. Una sinistra e uno schieramento democratico che voglia effettivamente avviare la sua iniziativa per risolvere la crisi del sistema della giustizia nel nostro paese dovrebbe partire da questo punto.

Ma così non è, nessuno offre una spiegazione convincente del perché la sinistra in Italia mostri tanta contrarietà ad un principio inoppugnabile. Lasciando, di conseguenza, altre forze culturali e politiche sventolare la bandiera di questo principio. E perdendo quindi una battaglia decisiva, senza nemmeno averla combattuta.

Non c’è, del resto, da meravigliarsene. C’è voluto circa mezzo secolo perché il principio del «giusto processo» sancito dall’articolo 6 della Convenzione europea fin dagli anni Cinquanta venisse inserito dal parlamento italiano tra i princìpi fondamentali della nostra Costituzione, con il nuovo testo dell’articolo 111. E ci sono volute, com’è noto, centinaia di sentenze della corte di Strasburgo che bollavano il sistema giudiziario italiano per violazione dei principi di garanzia dei cittadini. Ma basta questo? Se, come la risoluzione del parlamento europeo del 1997 sostiene esplicitamente, la separazione delle carriere e la conseguente garanzia della terzietà del giudizio rappresentano il cardine del giusto processo, dovremo attendere un altro mezzo secolo per rendere realmente operante il contenuto del nuovo articolo 3 della Costituzione repubblicana? Speriamo di no, auguriamoci che resistenze culturali e politiche vengano vinte, che venga garantita l’indipendenza della magistratura dalla politica, ma che venga anche garantita l’autonomia della politica dalle posizioni e dagli interessi della magistratura italiana.