Il Medio Oriente dopo la guerra libanese

Written by Fabio Nicolucci Friday, 01 September 2006 02:00 Print

Il Medio Oriente vive un cambiamento epocale: esattamente cinquanta anni dopo la fallita guerra di Suez del 1956 – che segnò la fine dell’egemonia imperiale francese e britannica e la nascita della potenza militare israeliana – un altro fallimento bellico (quello in Iraq) segna la diminuzione della potenza regolatrice di oggi (gli USA) e l’ascesa di una nuova potenza regionale, l’Iran. Ma al contrario che nel 1956, quando nel Medio Oriente a Francia e Gran Bretagna si sostituirono gli USA, oggi nessuno sembra poter prendere ancora il loro posto. E un’altra guerra, quella libanese tra Israele e Hezbollah, è l’effetto del conseguente verificarsi di un pericoloso e destabilizzante vuoto politico.

 

La diminuzione della potenza regolatrice degli USA

Il Medio Oriente vive un cambiamento epocale: esattamente cinquanta anni dopo la fallita guerra di Suez del 1956 – che segnò la fine dell’egemonia imperiale francese e britannica e la nascita della potenza militare israeliana – un altro fallimento bellico (quello in Iraq) segna la diminuzione della potenza regolatrice di oggi (gli USA) e l’ascesa di una nuova potenza regionale, l’Iran. Ma al contrario che nel 1956, quando nel Medio Oriente a Francia e Gran Bretagna si sostituirono gli USA, oggi nessuno sembra poter prendere ancora il loro posto. E un’altra guerra, quella libanese tra Israele e Hezbollah, è l’effetto del conseguente verificarsi di un pericoloso e destabilizzante vuoto politico.

La diminuzione della potenza regolatrice degli USA nasce da tendenze mondiali di lungo periodo – tra cui l’avvento della potenza cinese – i cui effetti nel Medio Oriente però sono stati drammaticamente accelerati da fattori regionali. Il più importante è di gran lunga l’intervento in Iraq. Si è trattato di un evento che ha profondamente cambiato il Medio Oriente. Ma non nel modo che si aspettava l’Amministrazione USA: e questo perché in Occidente il Medio Oriente si tende non a conoscerlo bensì – come scriveva Edward Said in «Orientalismo»1 – ad immaginarlo con proprie categorie. E quanto più è alto il tasso di ideologia nel rapportarsi ad esso – e molto alto era quello dei neocon – tanto più fervida e illusoria diviene l’immaginazione di un Medio Oriente che non esiste in luogo di quello reale. Immaginando la politica come una relazione tra l’individuo e lo Stato in classici schemi liberaldemocratici, l’Amministrazione Bush non ha visto come nel Medio Oriente la gente veda invece la politica come un sistema di equilibri di potere tra comunità. Semplificando, si potrebbe dire in modo tribale. In Iraq la caduta di Saddam Hussein ha dunque significato non l’opportunità di avere maggiore libertà individuale, bensì quella di aggiustare in senso diverso l’equilibrio tra le varie comunità. Così, giocando avventurosamente la carta sciita in Iraq – consegnando cioè il potere agli sciiti i quali, pur costituendo la maggioranza della popolazione, ne erano sempre stati esclusi – si è dato inavvertitamente forma ad una forte soggettività politica sciita in tutta la regione: non solo perché l’Iraq passava in loro mano, ma anche perché la sua liberazione ha generato nuovi legami politici, culturali ed economici tra le comunità sciite di tutto il Medio Oriente. Dal 2003 centinaia di migliaia di pellegrini provenienti da tutto il mondo hanno infatti visitato Najaf e Karbala, creando una rete transnazionale di seminari, moschee e imam che lega l’Iraq ad ogni comunità sciita, incluse quelle iraniane.

 

Nascono nuovi equilibri

Tutto ciò sta distruggendo vecchi equilibri e creandone di nuovi e imprevisti. Che stanno riallineando il Medio Oriente su nuove e diverse linee di faglia: prima diviso tra arabi e non arabi, dopo l’Iraq esso tende invece a dividersi tra sciiti e non sciiti, e poi, come in ogni fase costituente, anche tra radicali e moderati.

Gli effetti dirompenti di tale sconvolgimento sono stati amplificati da un’altra fallace concezione. Con un tragico errore di analisi storico-politica, dopo l’11 settembre l’obiettivo principe della guerra al terrorismo e il centro dell’azione dell’Amministrazione USA sono divenuti gli «Stati canaglia» (assai numerosi nella regione) e non più, come fino a Clinton, gli «Stati falliti» – che il fallimento iracheno, e lo stesso Afghanistan dei Talebani, indicano come il vero luogo adatto per il brodo di cultura del terrorismo globale – abbandonando una politica di realismo che gli USA seguivano in Medio Oriente sin dal 1945. Dopo l’11 settembre l’azione americana ha dunque oggettivamente contribuito ad indebolire lo Stato in una regione dove tale istituzione è già tradizionalmente assai debole: lo stesso vocabolo arabo usato per definirlo infatti è daula, la cui trilittera radice semantica – al contrario di quella delle lingue europee – significativamente vuol dire «mutamento», «successione». Una debolezza che si spiega anche considerando che fino al 1915 tutta le regione è stata per secoli sotto il gioco dell’Impero ottomano. La guerra al terrorismo degli Stati Uniti ha poi accentuato tale precarietà anche perché è stata fondata sul fattore identità, mettendolo così in risalto e accentuandone l’influenza. Ma in Medio Oriente le identità – al contrario della maggior parte degli Stati-nazione occidentali – sono sempre molteplici. In ogni paese se ne trovano tre o quattro, che sono comuni con altri territori in altri Stati: per questo il Medio Oriente è una regione dall’altissima interdipendenza. In questo modo un altro fattore disgregante fu inserito nel gracile e già provato tessuto statuale: un’ulteriore dimostrazione che la geopolitica, specialmente se usata nel Medio Oriente, è come uno scalpello da marmo usato per curare un dente.

 

Sorge la potenza sciita

Così ora il Medio Oriente è diviso per linee di faglia diverse da prima. E la potenza regolatrice degli USA conosce un declino più celere che in altre regioni. È probabile che, come nel caso inglese, anche questa volta ci attenda una stimolante produzione letteraria che lenisca l’orgoglio imperiale ferito, almeno pari a quella con cui Ian Fleming aiutò l’Inghilterra a digerire la perdita del proprio ruolo imperiale dopo il 1956, mitizzando il servizio segreto britannico nella persona del super agente 007 James Bond: ora magari si narreranno le gesta della CIA, e in effetti sono già uscite parecchie serie televisive – «The Agency» è ora in palinsesto in Italia – e film su questo, uno tra tutti «Spy Game», del 2001 con Robert Redford e Brad Pitt, che si svolge proprio in Medio Oriente e in particolare a Beirut. Nel frattempo, salgono le azioni sciite e crollano quelle sunnite. E una stella si erge su tutti: la potenza dello sciita Iran. Lo si vede bene anche dalla localizzazione dei tre epicentri di crisi, che sono tutti lungo la cosiddetta «mezzaluna sciita»: il primo è il Libano, dove c’è appena stata una guerra; il secondo è l’Iraq, dove la guerra civile è in atto da più di due anni; il terzo – ancora più a Sud - è la sempre più forte tensione tra sciiti e sunniti e tra radicali e moderati che sta montando nell’area del Golfo Persico. Qui gli sciiti sono assai numerosi e si sta assistendo ad un confronto assai duro tra Arabia Saudita e Iran per la primazia nel Golfo e dunque sul mercato politico del petrolio. Non a caso l’Arabia Saudita ha investito miliardi di dollari per aumentare di molto entro l’inizio del 2007 la sua capacità produttiva potenziale, in modo da poter compensare – se necessario – l’eventualità di una mancata produzione iraniana, così effettivamente riducendo di molto il potere iraniano di deterrenza nell’eventualità di una guerra o di un duro confronto con l’Occidente sul nucleare o altro.

 

Che cosa ci dice la guerra libanese

Oggi dunque la guerra libanese appena terminata è il prodotto di un vuoto politico. E una guerra che si produce per questo motivo non è detto che sia un «gioco a somma zero», dove se uno perde l’altro vince. E difatti questa non lo è stata: hanno perso sia Israele sia Hezbollah. La comune percezione di una sconfitta strategica israeliana e di una vittoria politica di Hezbollah prescinde dal merito dello scontro militare e risiede, per i primi, nella pubblica conferma che in una regione piccola e poco profonda la deterrenza militare finisce con l’inizio dell’epoca dei missili e della loro diffusione, mentre per i secondi, non tanto in una effettiva vittoria quanto nel partecipare al più generale spostamento dell’equilibrio di potenza a favore dell’asse sciita.

Ma la situazione in Libano mostra bene – perché la guerra ne ingrandisce sempre gli effetti – anche le tendenze più ampie in atto nel Medio Oriente di oggi. Da una parte c’è chi vuole organizzare il sistema regionale su rinnovata base nazionale, dall’altra chi invece – come l’islam politico radicale – vuole farlo sulla base di affinità politiche transnazionali. Siamo in una fase costituente, e tali opzioni si fronteggiano e cercano di prevalere l’una sull’altra. Questo apre uno spazio alla politica della comunità internazionale, sempre che sia capace di concettualizzare e poi analizzare la complessa realtà storicopolitica del Medio Oriente. Gli apre uno spazio anche perché la crescente forza della divisione tra sunniti e sciiiti non è confessionale, ma consiste piuttosto in uno scontro fra diverse concezioni del politico. Al di là delle differenze oggi evidenti, non esiste infatti divergenza teologica fondamentale tra di essi. Il dissenso essenziale riguarda la differenza d’interpretazione della legittimità politica nel suo senso più ampio: la trasmissione del potere e la definizione del politico. Gli sciiti non accettano la distinzione chiave tra la direzione spirituale (Imàma) e direzione politica (Hilàfa), che si è poi incarnata nel califfato, così come invece fanno i sunniti (da Sunna, in arabo ortodossia). L’uccisione del figlio di ‘Ali, Hussein, il 10 ottobre del 680 nella battaglia di Karbala – commemorato nella ricorrenza dell’As-Shura – da parte del califfo omayyade Yazid I è il punto focale della storia arabo-mussulmana: il califfato ebbe la meglio sugli sciiti (shi’a, che in arabo significa parte o fazione, ed era infatti il partito di ‘Ali), i quali di conseguenza entrarono in una «clandestinità» che dura da quattordici secoli, si configurarono come rivolta permanente contro l’ingiustizia commessa nei confronti del figlio legittimo di ‘Ali – l’ultimo dei primi quattro califfi, chiamati i «bene ispirati» – e si percepirono sempre come in lotta per conto dei diseredati contro gli illegittimi usurpatori del potere temporale. Lo sciismo sostiene che un califfo senza funzione cosmica sacerdotale è inutile, e che l’imam non può essere scelto dagli uomini perché viene scelto da Dio.

Nella situazione concreta del Medio Oriente di oggi ciò si traduce in una diversa ipotesi di rapporto con l’avversario, sia esso Israele, l’Occidente, oppure il potere in quanto tale: l’islam politico radicale – oggi di nuovo a guida sciita – ricorda ai moderati che loro hanno trattato, e fallito; la via oggi è combattere con la resistenza, che è quanto fatto da Hezbollah. E occorre tenere bene a mente che in questo spazio politico radicale la sunnita al Qaeda costituisce un concorrente da battere, non un alleato: non a caso anche recentemente c’è stato uno scontro verbale tra Hezbollah e al Qaeda, cominciato dal defunto capo di al Qaeda in Iraq Zarqaui che accusava Hezbollah di «proteggere Israele» da al Qaeda per il fatto che non gli era permesso di mettere piede in Libano così da attaccare Israele in modo più efficace. Per cercare di contrastare la crescente popolarità di Hezbollah il vice di bin Laden, Al Zauahiri, alla fine di luglio ha diffuso un discorso per lanciare una guerra santa contro Israele che è caduto nell’indifferenza generale. Come già espresse critiche per la decisione di Hamas di partecipare alle elezioni palestinesi. Per questo non solo analiticamente, ma anche politicamente è pericoloso omologare gli uni agli altri, senza che questo significhi approvare né gli uni né gli altri: a trarne legittimazione popolare sarebbe comunque l’isolata al Qaeda.

Ma se la contesa tra l’islam politico radicale e i moderati è sul piano politico e non su quello esistenziale identitario, è allora possibile che esistano contraddizioni sulle quali fare leva per ridurne la forza e cambiarne i destabilizzanti obiettivi. E in effetti la riorganizzazione del campo politico proposta dai radicali ne contiene una: tale processo avviene in base ad un’ispirazione politica, come quella degli sciiti, istintivamente transnazionale. Ma la forza odierna gli viene al contrario proprio dall’elemento nazionalista. È il caso di Hamas, ed è il caso anche di Hezbollah.

 

Il nazionalismo di Hezbollah

Hezbollah nasce all’inizio sotto l’egida iraniana, che infatti conserva una presenza formale negli organigrammi di Hezbollah. Ma dopo venti anni oggi le cose sono molto più mediate, e ogni sforzo iraniano di far crescere un’identità pansciita in Hezbollah si scontra sempre più con la crescita dell’identità araba e il nazionalismo libanese. Che sempre più apertamente ricorda come fu un gruppo di imam sciiti libanesi nel XVI secolo ad aiutare la minoranza sciita iraniana a convertire un paese che allora era a maggioranza sunnita. Oggi Hezbollah trae la propria forza politica dal suo nazionalismo, che naturalmente è diverso da quello delle origini fenice della destra cristiana maronita, oppure da quello di tipo neoliberale del partito sunnita di Hariri. E al contempo, naturalmente, conserva una intelaiatura ideologica islamista, così come spiegato dalla «Lettera agli oppressi del Libano e del mondo» del 1985 che costituisce il suo manifesto fondativo. Ma oggi, lo abbiamo detto, è proprio dall’elemento nazionalista che Hezbollah trae la sua forza e legittimazione politica. La comunità internazionale deve allora provare a far esplodere questa contraddizione, a divaricare sempre più l’elemento nazionalista da quello islamista, per incoraggiare un’evoluzione verso il primo: in questo caso si avrebbe non solo un’inclusione politica, ma anche un oggettivo contributo alla stabilizzazione della statualità; nel caso di un fallimento e di una prevalenza del secondo elemento il movimento perderebbe comunque la caratterizzazione nazionalista e dunque gran parte della sua forza. Come ha scritto Brzezinski: «l’istinto mi dice che Hezbollah e Hamas potrebbero avere un’evoluzione simile a quella del Likud».

 

Ricostruire lo Stato

Se anche i movimenti islamici radicali più significativi traggono gran parte della loro forza da elementi nazionalisti, ciò significa che la contesa tra radicali e moderati sul piano politico – e dunque sulla centralità o meno dello Stato – non si è chiusa ancora con la vittoria dei primi e la sconfitta dei secondi. La comunità internazionale deve allora varare con urgenza un grande programma politico di ricostruzione della statualità – anche come modo di indebolire l’istinto transnazionale alla base del radicalismo politico sciita – possibilmente su basi più ampie e più innovative di quanto sia stato finora. Si può fare. Perché se è vero che la guerra libanese è stata l’effetto del vuoto creatosi in questo senso, essa fa anche intravedere la possibilità di poter finalmente costruire una rinnovata statualità nel nuovo Medio Oriente. Nei suoi effetti si colgono infatti non solo prove della disgregazione in atto, ma anche segnali di una possibile e praticabile controtendenza. Di Hezbollah abbiamo detto: la sua forza e il consenso dei libanesi paradossalmente è venuto proprio sulla sua supposta difesa del territorio nazionale, anche se naturalmente lo Stato libanese ne è uscito con le ossa rotte, e proprio su questo Hezbollah avrà problemi politici con le altre comunità che hanno visto distrutto il proprio paese per un’azione militare del partito sciita, per di più in apertura di una promettente stagione turistica. Un processo similare esiste in nuce anche nell’altro belligerante, Israele. Quando Nasrallah – come i capi arabi nel 1948 – ha chiesto il 9 agosto agli arabi israeliani di lasciare la città di Haifa, la risposta di Issam Makul, ex parlamentare palestinese israeliano di Haifa è stata «non ce ne andremo mai». L’essere stati sotto la stessa minaccia di razzi Hezbollah – che non distinguevano etnia e lingua, ma portavano il terrore alla cieca, causando molti morti arabi in aree miste ebraiche e palestinesi come Haifa e il Nord d’Israele – può favorire la rottura di speculari diffidenze e far nascere nuove solidarietà, e dunque aiutare l’inclusione degli arabi israeliani nello Stato d’Israele. Così contribuendo al rafforzamento della statualità di Israele che è stata sempre indebolita dal non saper ancora rispondere alla domanda «chi è un israeliano?»: un ebreo? Un ebreo religioso? Un elettore della Knesset? Tutti coloro che risiedono in Israele? Domanda che oggi potrebbe cominciare ad avere la risposta «colui che sul suolo d’Israele si prende le bombe nemiche sulla testa».

Altri segnali in questa direzione, e dunque la possibilità di invertire la tendenza disgregatrice sfruttata dall’islam politico radicale, si possono cogliere in tutta la regione: un’indagine Zogby del 2004 in sei paesi arabi segnalava un’impennata dell’identità islamista in odio all’intervento USA in Iraq; la stessa indagine, un anno dopo, segnalava invece una ripresa dell’identità nazionale, per paura degli orribili effetti della disintegrazione irachena.

 

Il ruolo della comunità internazionale

La palla passa dunque alla comunità internazionale, anche perché la regione non dispone di sufficienti risorse politiche interne. Per ricostruire una nuova statualità occorre fare politica: iniziando intanto a rompere il fronte avversario dei radicali, a partire dall’anello debole rappresentato dalla Siria, la quale non solo non riesce a rigenerare il proprio potere interno, ma soffre anche la frustrazione di una drammatica caduta di autorità che parte dal Libano e arriva all’Iran, una volta partner di pari grado e oggi spocchiosa e nuova superpotenza. E poi puntando sull’Egitto, che con i suoi quasi 7000 anni di stabilità, il suo prestigio nel mondo sunnita e l’autorevolezza verso i palestinesi è sempre un partner indispensabile per ogni ricostruzione politica.

Gli USA hanno già cominciato a invertire la rotta. Stanno accantonando il complesso messianico (che spesso diventa complesso di Sansone) e cercano di irrobustire l’istituzione statuale nella regione, invertendo la disastrosa concezione che era dietro la guerra all’Iraq: il problema diventano di nuovo gli «Stati falliti», e per completare il processo in atto è necessario abbandonare l’unilateralismo per il multilateralismo. Perché c’è bisogno di molti, se non di tutti.

Anche Israele sta facendo lo stesso, accettando per la prima volta una forza multinazionale ai suoi confini, e dunque segnalando la necessità di una politica multilaterale. Adesso è atteso alla prova più difficile: applicare questo concetto verso i palestinesi. È importante: quando infatti l’estate scorsa Israele si ritirò unilateralmente da Gaza, Hamas riuscì a sostenere che i suoi combattenti avevano scacciato Israele nello stesso modo in cui Hezbollah aveva scacciato Israele nel 2000. In entrambi i casi, dunque, il ritiro di Israele fu percepito come un segnale di debolezza e non, come doveva, un gesto finalizzato ad una convivenza. E a rafforzarsi furono gli islamisti radicali, non i moderati.

Il multilateralismo è necessario anche perché occorre pragmatismo e non castranti dosi di ideologia, per rivoluzionare la concezione stessa del processo di pace: occorre cercare una hudna a tutto campo, cioè inizialmente accordi di armistizio e non accordi finali. Per questo è importante la proposta di «esportare» il nuovo modello UNIFIL anche a Gaza, e magari altrove. Perché ciò che ha fatto fallire Oslo non era tanto la metodologia in sé, quanto la scarsità di risorse politiche a disposizione (pochi attori per troppo poco tempo). C’è invece bisogno che l’accordo sia comprensivo non tanto nel tempo (che può essere progressivo), bensì nello spazio (vincolare tutti allo stesso momento). Del resto Oslo avrà pure fallito, ma gli anni Novanta sono stati l’unico decennio da quando esiste lo Stato d’Israele a non vedere una grande guerra arabo-isareliana Solo così, rafforzando l’istituzione statuale ed educando anche con forza alla stabilizzazione cooperativa il nuovo Medio Oriente che sta nascendo, eviteremo di sentire nel futuro per tutta la regione quei canti di «ya Nasrallah, ya habib, udrub udrub Tel Aviv» («o Nasrallah, o caro, colpisci colpisci Tel Aviv») che sono sinistramente risuonati nelle lacere e contuse strade e piazze palestinesi in questa tragica estate mediorientale dell’Anno Domini 2006, 5766 per gli ebrei e 1427 dell’era islamica.

 

 

Bibliografia

1 E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002.