Il Partito Democratico come occasione per ripensare la laicità

Written by Claudia Mancina Friday, 01 September 2006 02:00 Print

Le divergenze sui temi dell’etica e della bioetica sono da tutti considerate l’ostacolo più grande alla costituzione del Partito Democratico. Si tratta certamente di questioni importanti, ma le divergenze, che pure ci sono, non sono tali da non poter essere affrontate, e regolate, dentro uno stesso partito. Oggi le diverse posizioni appaiono più lontane e quasi irriducubili proprio perché ci sono due partiti. Il conflitto identitario ed elettorale tra due soggetti che appartengono allo stesso schieramento, e quindi competono per il consenso nella stessa area, drammatizza le differenze, che sarebbero probabilmente ridimensionate in un partito unico. E c’è un gioco politico sul voto dei cattolici che potrà solo giovarsi della nascita del Partito Democratico: perché questo dovrebbe rapportarsi in modo più maturo e meno diretto con il mondo cattolico. Certo, dei problemi ci saranno sempre, ma con questo tipo di problemi dobbiamo rassegnarci a convivere, a prescindere dal Partito Democratico; non ci si può illudere di liberarsene con un semplice o semplicistico richiamo alla laicità.

 

Le divergenze sui temi dell’etica e della bioetica sono da tutti considerate l’ostacolo più grande alla costituzione del Partito Democratico. Si tratta certamente di questioni importanti, ma le divergenze, che pure ci sono, non sono tali da non poter essere affrontate, e regolate, dentro uno stesso partito. Oggi le diverse posizioni appaiono più lontane e quasi irriducubili proprio perché ci sono due partiti. Il conflitto identitario ed elettorale tra due soggetti che appartengono allo stesso schieramento, e quindi competono per il consenso nella stessa area, drammatizza le differenze, che sarebbero probabilmente ridimensionate in un partito unico. E c’è un gioco politico sul voto dei cattolici che potrà solo giovarsi della nascita del Partito Democratico: perché questo dovrebbe rapportarsi in modo più maturo e meno diretto con il mondo cattolico. Certo, dei problemi ci saranno sempre, ma con questo tipo di problemi dobbiamo rassegnarci a convivere, a prescindere dal Partito Democratico; non ci si può illudere di liberarsene con un semplice o semplicistico richiamo alla laicità. I problemi etici posti oggi alla decisione politica sono problemi difficili, che in ogni caso, e in qualunque partito, comporterebbero posizioni diverse e una complessa dialettica di relazioni politiche con i mondi di riferimento e con l’insieme dell’opinione pubblica. Piuttosto, la formazione di un nuovo partito, nel quale convivano, condividendo programmi e cultura politica, gli eredi del cattolicesimo politico e gli eredi della tradizione socialcomunista, è l’occasione di ripensare in modo serio, e adeguato ai problemi di oggi, la laicità e il rapporto tra etica e politica, che in ambedue le tradizioni – finché restano separate – trova soluzioni semplicistiche.

Del resto, drammatizzare le differenze in materia etica significa anche sottovalutare le convergenze su altri temi, non meno importanti, forse anche più importanti dal punto di vista della politica. DS e Margherita (e con loro altri soggetti, come i socialisti) condividono un’idea di società e di mercato, che non è affatto quella su cui spesso si sono incontrati nel passato democristiani e comunisti. Questo significa che hanno fatto, su strade diverse, un percorso parallelo. Un percorso che li ha portati lontano dal cattocomunismo, cioè da una visione statalista e dirigista dell’economia e della società. Per questo non c’è niente di più sbagliato che vedere nel Partito Democratico l’ultimo approdo del cattocomunismo. In realtà sia i DS che la Margherita hanno elaborato ormai una cultura politica del tutto liberaldemocratica, che li accomuna molto più di quanto li divida l’etica. Forse non sempre questo processo, soprattutto nel partito della sinistra, è stato pienamente consapevole. La tendenza ad abbassare i toni e ad annacquare la propria identità riformista, per non lasciare troppo spazio alla sinistra radicale, è stata spesso presente. La formazione di un nuovo partito aiuterebbe i DS a lasciarsi definitivamente dietro le spalle molti equivoci e ambiguità.

Detto questo, sui temi etici e bioetici bisogna affrontare una vera discussione. Sono in atto oggi due fenomeni che vanno tenuti distinti.

Da un lato, molte scelte che sinora erano o potevano sembrare esclusivamente personali e private sono diventate scelte che incorporano o richiedono decisioni legislative, e quindi impattano sulla politica in modo diretto. Il fenomeno è universale. Da noi prende però una curvatura particolare, per lo spazio che ha il tentativo della Chiesa di ridefinire il proprio ruolo come custode di valori etici che si presumono comuni o all’umanità tutta (e qui gioca la categoria di diritto naturale) o alla comunità nazionale (e qui agisce un’idea di tradizione in versione comunitarista). E per la fragilità culturale della sinistra, che in altri paesi svolge un ruolo guida e sa trovare risposte, per quanto ovviamente discutibili, ai dilemmi etici, ma nel nostro paese non sembra finora in grado di farlo. Forse per l’eredità di un certo opportunismo etico del PCI, o forse per l’incapacità di uscire dal proprio retaggio e pensare liberamente nel mondo di oggi, i DS oscillano spesso tra il modello Zapatero e il modello Togliatti (il riferimento, com’è ovvio, è all’articolo 7).

Il secondo fenomeno è una risposta al primo: una specie di revanche dei valori, una tendenza ad affermare la propria etica nel campo politico con spirito militante se non aggressivo. Una risposta ad una situazione di incertezza, di perdita di riferimenti, in cui sembra sempre più difficile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Questo fenomeno riguarda soprattutto (anche se non soltanto) i cattolici, che vivono una difficoltà peculiare: sentono la perdita di una identità politica e pensano di compensarla con un rafforzamento del legame all’etica cattolica e agli insegnamenti della Chiesa. Si parla così del fondamento etico della politica, si parla di valori, e addirittura di valori «non negoziabili». Il lutto per la fine del cattolicesimo politico (vedi le limpide analisi di Scoppola), che non è stato ancora elaborato, continua a pesare nella costruzione di un centrosinistra che esca dal Novecento. Eppure il cattolicesimo politico era una cultura politica, che si misurava con i valori propri della democrazia cercando e trovando una sintesi originale, evitando nella maggior parte dei casi il cortocircuito tra etica e politica.

A me sembra che invece nell’uso militante dell’etica si manifesti un equivoco nel rapporto tra etica e politica. Si chiede alla politica di avere un fondamento etico, e questa è una richiesta giusta. La politica non è solo tecnica; se è politica democratica, ha certamente una forza etica. C’è un ethos della democrazia, ci sono i valori etici che sono incorporati nel processo democratico (e scritti nelle costituzioni): sono i valori della libertà, dell’eguaglianza, della convivenza tra diversi, della responsabilità verso gli altri. Questo ethos proprio della democrazia non è in contraddizione con la diversità delle etiche (in senso stretto) che convivono in una società come la nostra. Convivono se sono disposte a farlo, ovvero, direbbe Rawls, se sono ragionevoli.

Altra cosa è concepire la propria etica come fondamento della politica: sia della propria attività politica individuale, sia della politica tout court, attraverso la legislazione. L’equivoco sta nel pensare di portare alla politica un sistema di valori dall’esterno. Ognuno di noi certamente ha un sistema di valori etici; per alcuni questi valori sono di origine religiosa. Ma nessuno di noi può pensare di tradurli in modo lineare nell’attività e nella decisione politica. La politica, infatti, è precisamente lo spazio della convivenza con altri che hanno diversi valori etici. Quindi anzitutto riconosciamoci nei valori che sono propri della politica democratica, e poi cerchiamo, ognuno di noi, le forme di adattamento e compensazione tra la nostra etica extrapolitica e la comune etica politica.

In altre parole, non ha senso dire che ci sono valori non negoziabili. Non negoziabili sono solo quei valori che sono incorporati nel processo democratico. I nostri valori – quelli della nostra etica extrapolitica – possono essere non negoziabili per noi, nelle nostre scelte personali, ma sono necessariamente negoziabili nel campo della politica, perché la politica o è negoziazione o è guerra. Laicità è questo: accettazione del fatto che la politica è negoziazione tra diverse etiche, oltre che tra diversi interessi. Una negoziazione che si svolge dentro il quadro dei valori democratici e costituzionali.

Questa è l’unica via possibile in una società democratica, che è caratterizzata necessariamente dal pluralismo etico (da non confondere con il relativismo, o con l’indifferenza, o con la mancanza di identità). Da esso deriva una concezione della democrazia che non ritiene possibile né auspicabile che la comunità politica si identifichi in una sola concezione del bene: soltanto un uso oppressivo del potere potrebbe ottenere questo risultato. L’accordo su una concezione del bene, su una verità etica, non può essere raggiunto attraverso il normale processo di comunicazione e deliberazione proprio delle società democratiche. Per questo la laicità – la neutralità dello Stato tra le diverse concezioni, l’indipendenza delle istituzioni politiche da qualunque dottrina – non è un’opzione, ma una condizione ineliminabile della democrazia. Anche se praticarla diventa sempre più difficile, non possiamo farne a meno.

Questa società pluralista è ciò che Habermas chiama «società postsecolare»: una società pienamente secolarizzata, nella quale tuttavia sia venuto meno il Kulturkampf tra una mentalità laica militante e la mentalità religiosa. E insieme siano venute meno le opposte e confliggenti visioni della secolarizzazione come sostituzione delle forme di vita religiose da parte di forme di vita superiori perché più razionali, o della secolarizzazione come usurpazione e conquista. Di conseguenza, Habermas auspica la formazione di una «sfera pubblica polifonica», dove le ragioni religiose e le ragioni secolari possano convivere e reciprocamente ascoltarsi. Il modello da lui proposto è evidentemente critico della laicità rigida, di tipo francese, proponendo un’alternativa di stampo piuttosto americano. Habermas ha molto successo in questo periodo, ma la sua proposta merita di essere considerata in modo un po’ più critico.

Quando Habermas cerca di definire il ruolo della religione nella sfera pubblica, indica due aspetti: la capacità di restituire il senso del legame sociale e della solidarietà verso la sofferenza, in una parola del riconoscimento reciproco, in una società fondata sul mercato, sul contratto, e su un’alleanza tra scienza e capitalismo; e la capacità di custodire una sorta di memoria dell’origine religiosa dei fondamenti morali dello Stato liberale. Ora, lasciamo pure stare la critica al mercato e alla scienza, che è certamente condivisa da tutte le religioni, sebbene articolata diversamente; ma non si vede proprio come le religioni non cristiane, compreso l’ebraismo ortodosso, potrebbero condividere la memoria dei fondamenti morali del liberalismo. Quindi la proposta di Habermas si riferisce di fatto solo alle religioni cristiane, e questo certo costituisce un limite grave.

È un limite di tutta la nostra discussione sulla laicità, che noi portiamo avanti come se il problema fosse solo quello del rapporto laici-cattolici, ignorando il fatto che il nostro paese, così come tutta l’Europa, cambia sotto i nostri occhi. Ci sono altre religioni, che fra l’altro hanno una importante funzione di rifugio identitario, in situazioni di immigrazione e di diversità etnica e culturale. Dovremmo imparare a discutere di laicità da questo punto di vista: ci aiuterebbe a capire che la sfera politica non può riflettere in modo passivo un’etica. Il confronto con altre religioni, e in particolare con l’islam, che ci è imposto dalla realtà ormai quotidiana, non solo internazionale, ma anche quella del nostro paese, ribadisce che non c’è soluzione alla guerra di religione – che oggi è ridiventata drammaticamente attuale – se non nella negoziazione politica. Dunque, ribadisce che la politica non è il luogo dove si perde la propria identità, né quello in cui si trasporta senza mutamenti la propria identità, ma quello in cui se ne acquista una, comune a tutti i cittadini, senza rinnegare la prima. Non rinnegare l’identità propria (religiosa o culturale) richiede evidentemente spazio pubblico, richiede riconoscimento e non semplice privatizzazione della religione o messa tra parentesi della cultura. Richiede un difficile equilibrio tra gli estremi di un multiculturalismo che separa e ghettizza e quelli di una cittadinanza astratta, imposta alle culture come un abito non adatto a loro. Realizzare questo equilibrio non è facile, ma è oggi la vera sfida per la democrazia.

La costituzione di un Partito Democratico potrà certamente favorire la presa di coscienza di questi problemi, che vanno al di là del puro e semplice rapporto tra laici e cattolici. E potrà favorire l’evoluzione di un atteggiamento più laico da parte di tutti i suoi membri, che appartenendo alla stessa formazione politica dovranno necessariamente misurarsi con le loro differenze, e trovare il modo di discuterle e di regolarle. Il Partito Democratico è la grande occasione, per i cattolici come per gli ex comunisti, di pensare finalmente la loro funzione politica guardando in avanti anziché indietro, alla storia del XXI secolo anziché a quella del Novecento.