Breve introduzione all'economia politica del sarkozysmo

Written by Benjamin Coriat Thursday, 27 March 2008 14:20 Print

Che cos’ha in mente per la Francia il neoeletto presidente Nicolas Sarkozy? Dopo una campagna elettorale condotta a tamburo battente intorno a «valori» annunciati e rivendicati come di destra, a quali ripiegamenti, o – per usare il linguaggio che gli è stato costantemente proprio nel corso di questi ultimi mesi – a quali «rotture» prepara la società francese? Inoltre, quali conseguenze per la UE dobbiamo aspettarci da questa elezione? Che visione ha il nuovo presidente della presenza francese in Europa, e quale ruolo auspica per l’Europa stessa nel mondo? Intorno a tali interrogativi, la lunga e intensa campagna presidenziale appena conclusasi consente, se non di dare risposte, almeno di fissare alcuni punti di riferimento.

Si deve infatti riconoscere al nuovo presidente che il progetto che ha portato avanti nel corso della campagna presidenziale è chiaro e si discosta per diversi aspetti dalle politiche finora seguite. Per apprezzarne il senso e la portata, è necessario tornare su alcuni punti salienti della diagnosi dell’economia francese, intorno ai quali vi è essenzialmente consenso e su cui si è incentrata la campagna elettorale.

Una Francia stagnante, segnata da una disoccupazione di massa e da un preoccupante indebitamento Lo stato di debolezza della crescita francese è causa di preoccupazione per tutti, nonostante il 2006 sia stato migliore degli anni precedenti. La Francia ha infatti beneficiato della ripresa della crescita europea. Da questo punto di vista gli anni dell’ultimo quinquennio Chirac, iniziato nel periodo dell’esplosione della bolla internet, sono stati caratterizzati da risultati deboli: solo l’1% e l’1,1% nel 2002 e nel 2003, una breve schiarita al 2,3% nel 2004, infine un nuovo calo: 1,2% nel 2005. In questo contesto, il 2,3% dell’anno 2006 non sembra una compensazione sufficiente. Tanto più che tale miglioramento della crescita si accompagna a un forte deterioramento della bilancia commerciale: si passa infatti da un’eccedenza di 5 miliardi di euro nel 2002 a un deficit di oltre 26 miliardi nel 2006, come se, ferma restando la competitività delle imprese, a trarre vantaggio dal ritorno alla crescita fosse stata soprattutto l’offerta straniera.

Conseguenza più vistosa delle deboli performance degli ultimi cinque anni è stato un livello di disoccupazione straordinariamente elevato (intorno al 10% nel 2002), che resta il principale motivo di preoccupazione. Tanto più che, se si osservano le componenti di questo tasso di attività particolarmente basso, due sono gli elementi che emergono: la disoccupazione dei giovani (16-25 anni) e quella degli ultracinquantenni.

Certo, l’evoluzione recente è incoraggiante: la disoccupazione si è nettamente ridotta, fino a scendere all’8,6% a fine 2006, ma rimane pur sempre due punti sopra la media europea.

Vi è però un altro importante motivo di preoccupazione. Sotto il peso congiunto del deficit pubblico e della spesa sociale, ma anche per la forte e inopportuna riduzione della pressione fiscale promessa da Chirac nel corso della sua campagna presidenziale, l’indebitamento pubblico, già storicamente elevato, ha conosciuto una brusca accelerazione nel corso degli ultimi anni, prima di stabilizzarsi, solo di recente, intorno al preoccupante livello di 1.500 miliardi di euro, circa il 2,5% del PIL. Tale livello del debito è vissuto come ancor più penalizzante in quanto il sistema pensionistico francese, fino a poco tempo fa giudicato uno dei fiori all’occhiello del modello sociale di Parigi, è entrato in una fase di grande difficoltà.

In tale contesto, che ha alimentato un’importante letteratura sul noto «declino» francese, in che cosa consiste il progetto economico del nuovo presidente?

Uno shock d’offerta à la française In materia di crescita e occupazione la tesi centrale del candidato Sarkozy possiede la semplicità delle parabole bibliche: la crescita supplementare verrà dalle ore supplemen- tari. Per citare una frase più volte ripetuta da Sarkozy durante la campagna: il lavoro crea lavoro.1 Per generare occupazione è il lavoro stesso a dover essere stimolato, come se esistesse un’attività potenziale, a portata di mano, e solo le condizioni esterne, nello specifico quelle fiscali, dissuadessero gli attori dal parteciparvi. Di qui la visione dell’offerta sui cui, come vedremo, si impernia tutta la nuova proposta di politica economica. Il provvedimento chiave consiste nell’annunciato sgravio fiscale per le ore supplementari: «propongo dunque che le imprese non paghino i contributi sulle ore supplementari – ciò inciterà l’impresa a offrirne – e che il dipendente non paghi tasse sul reddito supplementare così percepito». Con l’introduzione di questo doppio sgravio, ci si aspetta una ripresa pressoché automatica della crescita.

La diagnosi implicita, infatti, è che il «languore» francese provenga da qui: «la crisi morale francese ha un nome: è crisi del lavoro. È quest’ultimo a creare occupazione, e non la divisione del lavoro.(...) Bisogna dunque ricompensare il lavoro, creare attività, favorire la crescita». Ore supplementari pagate il 25% in più del salario orario e non tassate: ecco il cuore della nuova politica. In pratica, la scelta di questo dispositivo obbedisce a considerazioni eminentemente politiche. Si tratta infatti di non riaffrontare esplicitamente la questione delle 35 ore, introdotte alla fine degli anni Novanta dal governo Jospin, e alle quali rimane legata un’ampia maggioranza di francesi, come mostrano tutti i sondaggi. La defiscalizzazione delle ore di lavoro supplementare è stata quindi immaginata come dispositivo di aggiramento della normativa sulle 35 ore. A questa misura si dà inoltre un taglio ideologico neoconservatore: la crisi è «morale» e per superarla si tratta in primo luogo di incitare al lavoro, come se la disoccupazione fosse soprattutto volontaria.

È da questa stessa misura chiave che ci si attende un aumento del potere d’acquisto. Si tratta – come recita lo slogan di punta della campagna – di «lavorare di più per guadagnare di più». Sul piano pratico, tuttavia, la messa in opera del provvedimento si rivela ben più complessa di quanto annunciato e i suoi effetti rischiano fortemente di avere una portata di gran lunga inferiore a quella immaginata. Esso, infatti, può riguardare soltanto quei lavoratori che godono di un qualche statuto, mentre gli interinali e gli altri lavoratori a tempo parziale ne sono, di fatto, esclusi. Fatto ancor più grave, numerosi «lavoratori poveri», dai salari molto bassi (ad esempio le cassiere dei supermercati), sono soggetti a un regime giuridico cosiddetto di ore «complementari» e non «supplementari », il che li esclude dai benefici del provvedimento. Infine, per ragioni di uguaglianza dei cittadini di fronte al fisco (di cui in Francia è custode il Consiglio costituzionale), appare difficile che alcuni si vedano defiscalizzare una parte dei propri redditi e altri no. Per tutte queste ragioni, la misura, che era stata lanciata con grande clamore, rischia di avere portata ben inferiore a quanto immaginato e di creare molte frustrazioni.

Un altro ingrediente della nuova politica dell’offerta che si sta configurando consiste in uno smantellamento del Codice del lavoro. Sono previste due misure. La prima consiste nell’introduzione del «servizio minimo obbligatorio» in caso di sciopero nei servizi pubblici. La misura rivela tutto il suo significato se si considera che il sindacalismo francese è di fatto esangue (5-6% di iscritti) e che i suoi ultimi bastioni si trovano nel settore pubblico. In un simile contesto, limitare il diritto di sciopero nel settore pubblico equivale a togliere ai sindacati uno degli ultimi strumenti efficaci di pressione che hanno ancora in mano. Tuttavia, l’introduzione di questo servizio minimo porrà al legislatore alcuni difficili problemi, posto che in Francia non esiste un diritto di sciopero, che si tratterebbe di riformare, ma piuttosto una libertà di sciopero, che è un diritto individuale garantito dalla Costituzione.

L’altra annunciata e attesa modifica del Codice del lavoro consiste nell’introduzione di un Contratto unico di lavoro, di cui per ora non si conosce granché. È chiaro soltanto che esso presenterà per i lavoratori dipendenti minori garanzie rispetto a quelle che prevalgono nei contratti standard a tempo indeterminato, e che, dopo il fallimento del contratto di primo impiego (CPE), farà ricadere sui lavoratori la ricerca di flessibilità supplementare invocata senza sosta dal Movimento delle imprese francesi (MEDEF). Contropartita annunciata in cambio di questa maggiore flessibilità, il contratto unico dovrebbe evolvere verso l’obiettivo della flexicurity. A oggi, tuttavia, nulla può far prevedere se le compensazioni saranno all’altezza delle concessioni.

Una diminuzione della fiscalità forte, diversificata e non egualitaria Insieme alle ore supplementari, l’altra misura di punta annunciata è quella di una massiccia diminuzione – 4% – dei prelievi obbligatori. In verità, dopo averla promossa a gran voce all’inizio della campagna elettorale, con il passare del tempo il candidato Sarkozy ha ridimensionato la promessa, spingendosi fino a lasciar intendere che essa non avrebbe effetto prima di dieci anni (ossia due quinquenni). Pur non trattandosi più di una riduzione del 4% – il che, a posteriori, pare aver costituito soprattutto un tema di campagna elettorale – resta il fatto che defiscalizzazioni e tagli delle imposte sono fin d’ora annunciati in diversi ambiti.

Le più spettacolari – e controverse – riguardano i redditi più elevati. Si tratta del noto «scudo fiscale» ridotto al 50%: quale che sia il patrimonio dichiarato, nessun contribuente si vedrà imporre un carico fiscale superiore al 50% del proprio reddito annuale. Nella pratica, la misura interessa il 5-10% dei redditi più alti, e tenta di prevenire il trasferimento delle grandi fortune nei paradisi fiscali, se non addirittura di favorire il rientro di patrimoni già fiscalmente delocalizzati. Un obiettivo inconfessato ma di fatto perseguito da questa misura è quello di annullare gli effetti dell’Imposta di solidarietà sul patrimonio (ISF) senza rivederla formalmente (il che sarebbe politicamente costoso). Anche qui l’ispirazione viene dalle iniziative dell’epoca Reagan, che in pratica avevano favorito anzitutto i redditi più alti, in particolare quelli basati sulle rendite finanziarie o immobiliari.

In diretta continuità con la misura precedente, è annunciata anche una defiscalizzazione dei diritti di successione. Poiché questa si applica già a più del 75% dei francesi, la misura, che dovrebbe essere estesa fino a riguardare circa il 95% di essi, anche in questo caso non può riguardare altro che la trasmissione dei patrimoni delle famiglie abbienti. L’ultimo grande ambito di intervento è costituito dalle politiche abitative: per favorire l’accesso all’abitazione è annunciata una defiscalizzazione degli interessi sui mutui contratti per l’acquisto della prima casa. La quota proposta è il 20% degli interessi annui versati. Anche qui, la dimensione ideologica – «Creare una Francia di proprietari» – è assunta e rivendicata esplicitamente. E se negli ambienti professionali ci si rallegra per questa misura che favorirà il mercato, si teme anche che tale incentivo possa generare una bolla speculativa sul mercato immobiliare, di cui molte voci denunciano i rischi.

Il modello sociale: risparmiare, responsabilizzare, individualizzare Il modello sociale francese, a lungo considerato un autentico successo, attraversa, si è detto, una fase difficile e richiede riforme e processi di riorganizzazione. Non è tuttavia certo che le misure annunciate possano contribuire in maniera durevole al necessario risanamento. Attualmente ci si concentra su due temi: la sanità e le pensioni. In materia di sanità, gli annunci fatti hanno meno a che vedere con una logica di riforma del sistema – che pur ne avrebbe un gran bisogno – che con una puramente contabile e finanziaria (anche qui è evidente la forte connotazione ideologica).

Per far fronte al deficit del sistema sanitario – ancora 5,9 miliardi di euro nel 2006 – sono state annunciate due importanti misure che, di fatto, avranno l’effetto di spostare il peso del carico fiscale sui redditi bassi. Dietro l’argomento secondo il quale occorre responsabilizzare i pazienti ritenuti eccessivi consumatori di beni e servizi sanitari, l’idea è quella di instaurare franchigie su servizi sanitari quali analisi, visite specialistiche, ricoveri ospedalieri e via dicendo. Poiché si tratterà di franchigie a tasso fisso, esse colpiranno in maniera molto ineguale le diverse categorie di utenti, i cui redditi sono notevolmente diversificati. Questa misura è ancor più controversa in quanto, come hanno fatto notare molti professionisti del settore, l’esistenza delle franchigie può contribuire a dissuadere o a ritardare analisi e diagnosi preventive, finendo con l’appesantire il costo totale sostenuto dalla collettività per mancanza di diagnosi precoci. Ancora una volta, il sentore ideologico neoconservatore si esprime appieno: è il paziente – come detto prima per il disoccupato – che si pretende di «responsabilizzare», come se la colpa della malattia fosse sua.

L’altra misura di riferimento è quella che dovrebbe introdurre un’IVA «sociale». Si tratterebbe, in sostanza, di aumentare l’IVA di qualche punto e ridurre altrettanto i contributi sanitari a carico del datore di lavoro. Sul piano degli effetti redistributivi, la misura avrebbe l’effetto di riversare sul lavoro una parte maggiore della contribuzione relativa al finanziamento dell’assicurazione (essendo l’imponibile IVA costituito essenzialmente dal lavoro dipendente). Un nuovo contributo, dunque – dopo quello delle franchigie – al disequilibrio fra i contribuenti. Da tale misura è atteso un effetto macroeconomico positivo, in quanto la diminuzione degli oneri padronali – trasferiti sull’IVA – potrebbe influenzare positivamente l’occupazione. Tutto dipenderà allora da quanto tale effetto positivo sarà controbilanciato dalla diminuzione dei redditi dovuta al prelievo supplementare che l’aumento dell’IVA rappresenta. L’altro grande ambito di intervento annunciato è quello del sistema pensionistico, oggi – in Francia come in molti paesi – sotto forte tensione.

Per ora, l’annuncio fatto in occasione della campagna presidenziale riguarda l’abbattimento dei regimi speciali di pensionamento. Questi, ben più vantaggiosi del regime ordinario, risalgono al dopoguerra e riguardano i lavoratori dipendenti del settore energetico (EDF), dei tra- sporti (SNCF, RATP) e così via. Si tratterrebbe di allungare la durata della contribuzione per questi soggetti, avvicinandola ai quarantuno anni, che dal 2004 sono la norma, e di rivederne le disposizioni più vantaggiose per allinearli, anche su questo punto, al regime standard.

L’altra direzione della riforma, sulla quale, curiosamente, la campagna elettorale è stata molto discreta, consiste nel rafforzamento delle formule individualizzate di assicurazione e di risparmio pensionistico – in attesa della formazione di veri fondi pensione – su cui l’attuale presidente si era pronunciato in senso favorevole. Benché si tratti di un tema di primaria importanza per la Francia – il cui sistema pensionistico è ampiamente basato sulla ripartizione – per il momento su questo argomento nulla viene detto.

Un’Europa chiusa alla Turchia e protezionista Riguardo all’Europa, le posizioni del nuovo presidente, se prese alla lettera, sono davvero nette.

La propensione europeista di Nicolas Sarkozy non è in discussione. Durante la campagna per il referendum sul Trattato costituzionale, Sarkozy stesso – così come il suo partito – si era nettamente impegnato a favore del sì. Ciò detto, e dopo la netta vittoria dei no (54% a 46%), la posizione dell’attuale presidente pare aver subito una netta evoluzione. La BCE è spesso stata tra i principali bersagli delle sue critiche. È stata messa in discussione la sua eccessiva autonomia, come la politica seguita in particolare riguardo all’euro, giudicato troppo forte dal candidato Sarkozy come dalla gran parte della classe politica francese.

L’insufficiente specializzazione della Francia nelle produzioni in cui la qualità è fattore di protezione contro i rialzi troppo ampi del tasso di cambio spiega il consenso pressoché unanime in Francia su queste critiche, a differenza di quanto sembra sembra oggi accadere in Germania. Altra ferma posizione del nuovo presidente è stato l’auspicio di un’Europa più protezionista – concessione a quella parte dell’elettorato e dei cittadini che si è vista indebolita dalla globalizzazione. Alla maniera dei neoconservatori americani, il primato della politica dell’offerta non implica affatto posizioni liberali in materia di commercio estero. Al contrario, la «domanda di protezione» si accorda perfettamente con il rilancio interno attraverso l’offerta e la defiscalizzazione.

Questa visione di un’Europa meno aperta e più centrata su se stessa si traduce altresì in una posizione netta sui confini dell’Europa: è un no deciso alla Turchia, pronunciato senza alcuna sfumatura lungo tutto il corso della campagna elettorale.

Eppure queste posizioni così nette, mantenute senza esitazioni durante l’intera campagna, forse non si tradurranno nel rigore annunciato. Le nomine di Kouchner e Jouyer, rispettivamente al ministero degli affari esteri e agli affari europei, non paiono le più coerenti con le posizioni difese durante la campagna. Bernard Kouchner non si è distinto per le critiche nei confronti delle politiche europee. Quanto a Jean Pierre Jouyer, è stato uno dei capi di gabinetto di Delors e, in tale veste, uno degli artefici dell’architettura istituzionale che oggi funge da quadro all’Europa. Queste nomine fanno sperare, per quanto riguarda le tematiche europee, in un maggior pragmatismo di quello che ci si sarebbe atteso.

Conclusioni La campagna elettorale e la vittoria di Nicolas Sarkozy sono state ampiamente costruite sull’idea che la politica annunciata consistesse in una «rottura» con il corso finora seguito in Francia. Difatti, si deve riconoscere, per lo meno a poche settimane dall’elezione, che ciò che viene messo in atto costituisce effettivamente una politica nuova. Politiche dell’offerta e massicce defiscalizzazioni sono all’ordine del giorno, nonostante, bisogna ricordarlo, si sia lontani dall’obiettivo della riduzione del 4% dei prelievi obbligatori, annunciato durante la campagna elettorale. E le misure intraprese, inserite in un discorso sulla responsabilità individuale, sull’esaltazione dello sforzo e del merito, conferiscono alla politica un afflato neoreganiano, inedito per la Francia.

Supponendo che la prova dei fatti costringa, e più rapidamente del previsto, a revisioni laceranti che condurrebbero a un maggior pragmatismo e a meno ideologia, che cosa ci si può aspettare da questa politica? Non vi è alcun dubbio che, introdotte in un contesto di ripresa della crescita, le misure intraprese possano contribuire, in un primo tempo, a una ripresa dell’occupazione. Ma se non consentiranno – o comunque non a sufficienza – un significativo ritorno di entrate di bilancio, contribuiranno invece ad accrescere pericolosamente il deficit e gli squilibri. Così, per citare solo pochi esempi, le imposte di successione hanno portato oltre 7 miliardi di euro allo Stato nel 2005 e quelle sulle donazioni 1,4 miliardi, contro i 3,03 miliardi dell’ISF. Destabilizzare profondamente questi introiti, come fa la nuova politica, rappresenta una vera scommessa. Chi propone di generare ulteriori tensioni rispetto alla politica proclamata dal candidato presidente, poco in linea con gli orientamenti promossi da Bruxelles, dovrà allora assumersi il peso di un altro contenzioso: il mancato rispetto degli impegni presi nel quadro del Patto di stabilità, soprattutto riguardo alla riduzione del debito pubblico, grande escluso della politica oggi intrapresa.

 

[1] Tutte le citazioni sono tratte dall’intervista a Nicolas Sarkozy, Pour une Véritable Révolution Economique, 17 maggio 2007, disponibile su https://sarkozyblog.free.fr