28 giugno 2011: un passo verso l’unità sindacale

Written by Guglielmo Epifani Wednesday, 26 October 2011 12:59 Print
28 giugno 2011: un passo verso l’unità sindacale Illustrazione: Alessandro Sanna

Dopo anni di divisioni e accordi separati, l’intesa raggiunta il 28 giugno apre le porte a un percorso unitario; la rappresentatività reale diventa requisito fondamentale di legittimazione sindacale, in risposta a un bisogno di trasparenza sempre più vivo, e la contrattazione tra le parti sociali si svincola dall’azione di governo.


L’accordo raggiunto dalle parti sociali il 28 giugno scorso e siglato definitivamente il 21 settembre, dopo il vulnus dell’articolo 8 introdotto surrettiziamente nella manovra finanziaria di agosto, ha una portata che non sarebbe eccessivo definire storica. E questo per molti motivi, a cominciare dal fatto che per la prima volta viene stabilito il principio della misurabilità della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, un tema storicamente caro alla CGIL. In una dimensione più contingente, la conferma dell’accordo con la sigla di settembre è di grande importanza perché ribadisce il principio per cui la contrattazione compete all’autonomia delle parti sociali e non al governo. Lo fa in modo esplicito inserendo nel testo dell’accordo una frase precisa al riguardo e di fatto sconfessa e neutralizza l’articolo 8 della manovra finanziaria, una forzatura che ha prodotto inutile confusione, tentando fra l’altro di rendere insignificanti i contratti nazionali e di introdurre deroghe gravi a leggi e persino a principi costituzionali.

Il significato politico di questa intesa è trasparente: viene sconfessato chi – fra gli imprenditori ma soprattutto nel governo, perfino con il tentativo di intervenire a gamba tesa nelle relazioni fra le parti sociali introducendo la norma in finanziaria – ha pervicacemente lavorato in questi anni per dividere il movimento sindacale, tentando di isolare la CGIL, e svuotare di significato la contrattazione.

Venendo ai contenuti dell’accordo, per esprimere una valutazione su qualunque intesa sindacale è inevitabile contestualizzarla perché altrimenti non si capirebbero la logica, la ragione, i processi e nemmeno i problemi posti dagli accordi stessi. Dunque, le considerazioni sul tempo e sul luogo, cioè sul contesto in cui si colloca l’accordo, richiamano due grandi questioni.

La prima riguarda quanto è avvenuto nelle relazioni industriali in Italia dopo l’accordo separato sulle regole contrattuali, che non vide la firma della CGIL nell’aprile del 2009, e ciò che ne è conseguito. Quando si tenta di fare un accordo senza uno dei grandi pilastri della contrattazione collettiva è chiaro che i problemi sono destinati ad aumentare piuttosto che a ridursi. Ad esempio, può capitare che l’uscita di FIAT da Confindustria non sia estranea alla scelta fatta perché, se l’obiettivo è dividere, separare, per una curiosa eterogenesi dei fini è possibile che la più grande industria italiana ti superi. È nella logica di quello che si è prodotto.

A quell’accordo separato sono seguite le firme dei meccanici e del commercio e tutta la tribolata vicenda FIAT, e si è aperto un dibattito senza logica in cui chiunque poteva teorizzare che in fondo i due livelli di contrattazione potevano tranquillamente stare sullo stesso piano; uno escludeva l’altro: si era presentata per nuova l’idea un po’ singolare che ognuno si potesse fare il contratto come voleva. Questo è invece un concetto vecchio, e richiama un tema che attiene alle grandi questioni della democrazia e dei diritti: il principio del cuius regio, eius religio provoca danni anche sul terreno contrattuale, non soltanto su quello delle libertà civili e democratiche.

La seconda questione riguarda il quadro europeo. Subiamo le conseguenze, come è evidente da quello che sta accadendo in questi mesi, di processi relativi alla finanza, all’andamento dei mercati e alla speculazione che investono direttamente le questioni della condizione del lavoro, dei diritti, della contrattazione. E in questo contesto è necessario tener conto delle tendenze in cui si muovono i sindacati e i sistemi di relazione europei. L’Italia è l’unico paese tra quelli più avanzati che preveda una sovraordinazione del contratto nazionale rispetto alla contrattazione di secondo livello. E questo principio, ribadito con l’accordo del 28 giugno, è in controtendenza rispetto al quadro europeo e agli orientamenti del governo nazionale il quale, legando sempre più il salario alla produttività, ha di fatto orientato la contrattazione soprattutto al secondo livello, congelando nel contempo la contrattazione e i salari nel settore pubblico. Se in Germania soltanto il 48% dei lavoratori ha la copertura del contratto nazionale e in Gran Bretagna ce l’ha solo un terzo, è inevitabile che anche in Italia si apra una riflessione su quale sia il contesto in cui stiamo operando.

Aver salvaguardato il ruolo del contratto nazionale a garanzia di trattamenti normativi e salariali comuni per i lavoratori di tutti i settori, affidando all’autonomia delle parti il compito di decidere le modalità per l’estensione e il rafforzamento della contrattazione aziendale, è un grande risultato. Finora sarebbe stata una condizione scontata per le relazioni industriali in Italia. Ma dopo l’accordo separato, in considerazione degli orientamenti in Europa, dopo l’attacco alla contrattazione nei settori pubblici, il fatto che questo principio venga riconfermato in un accordo tra le parti rappresenta un grande segnale.

La vera novità nel testo firmato il 28 giugno, tuttavia, è che per la prima volta la rappresentatività reale di una organizzazione è requisito di legittimazione sindacale. Questo principio, affermato in un accordo, è un elemento di grande novità e valore che premia una costante e storica richiesta della CGIL, basata su due elementi. Il primo riguarda il bisogno di trasparenza, di verifica democratica di ciò che si rappresenta. Le soluzioni trovate sono tra le più avanzate in Europa – in Francia, ad esempio, ancora oggi la legge consegna all’autocertificazione dei sindacati la verifica della loro rappresentatività. È una novità forte perché stabilisce la legittimazione a rappresentare attraverso la contrattazione collettiva. Non si scinde il cosa si rappresenta, il come si misura la rappresentanza e qual è la funzione di questa rappresentanza. Non a caso, e proprio in ragione di questa scelta, le RSU (Rappresentanze sindacali unitarie) sono lo strumento fondamentale anche se non esclusivo dell’accordo e la cosa ha conseguenze molto importanti, a prescindere dal fatto che la CGIL abbia storicamente fatto della rappresentanza sindacale unitaria il cuore della propria strumentazione rappresentativa e la propria caratteristica sindacale.

Si evita, con questo accordo, la messa in discussione di quello del 1993, e per questa strada si riduce il danno provocato da un referendum degli anni Novanta, promosso per altri fini, ma che ha prodotto l’effetto di riscrivere l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori nel senso che soltanto chi firma i contratti ha la titolarità a fondare, istituire rappresentanze; un assurdo, perché se la legge consente di fondare e istituire le rappresentanze soltanto a chi firma l’accordo, la conseguenza è una: si lascia decidere alle imprese chi può istituire rappresentanze e chi no. E questo non è un piccolo problema ma un grande vulnus democratico che esige di per sé la modifica legislativa di questo aspetto. Inoltre l’intesa introduce una soglia di rappresentatività per discutere e stipulare contratti anche nel settore privato, come avviene già in quello pubblico.

Dunque cosa comporta l’intesa? Sovraordinazione del contratto nazionale, legittimazione a contrattare e responsabilità delle categorie sindacali nella valutazione democratica degli accordi e delle piattaforme. Questo vuol dire che resta al rapporto tra le categorie di CGIL, CISL e UIL la fissazione di almeno due questioni: quale soglia valga per siglare gli accordi; quale processo di validazione democratica sia necessario per gli accordi stessi.

Vale la pena ribadire che non c’è nessun passaggio dell’accordo che preveda un’equivalenza tra primo e secondo livello, ma resta anzi fissato con chiarezza il principio della sovraordinarietà del contratto nazionale ed è chiara l’importanza di questo livello contrattuale in un paese che vede alcuni settori con poche e grandissime imprese, una diffusione di piccolissime aziende o una tendenza al proliferare di divisioni aziendali.

Per quanto riguarda l’altro tema molto dibattuto, quello della cosiddetta articolazione contrattuale e dell’adattabilità del contratto alle specifiche condizioni delle singole aziende, qualcuno lo intende come una possibile apertura alle deroghe contrattuali; si tratta invece di un concetto generale da interpretare in termini propositivi e costruttivi. In nessuna parte dell’accordo, per essere chiari, è suggerito il tema della derogabilità salariale. Gli ambiti in cui applicare l’adattabilità sono semmai altri, ed è ovvio che sia così perché il contratto nazionale deve essere una certezza per tutti, ma il secondo livello è quello nel quale si governano i processi della trasformazione e le condizioni di lavoro.

Ritorniamo, ma in un contesto naturalmente diverso, al vecchio dibattito degli anni Cinquanta, quando tra l’ipotesi di una contrattazione tutta centralizzata e quella di un allargamento degli spazi della contrattazione di secondo livello si affermò, e giustamente, questa seconda impostazione. E fu una delle ragioni della forza e della ripresa anche in Italia del movimento sindacale e della CGIL.

D’altra parte sarà possibile ampliare spazio e perimetro del contratto nazionale solo partendo da questa prospettiva; tanto più si vuole allargare il contratto nazionale a livello di filiera, settori, territori, tanta minore prescrittività e maggiore flessibilità esso deve contenere.

Punto centrale dell’accordo è la soluzione trovata circa l’efficacia della contrattazione aziendale, fondata sulla rappresentatività maggioritaria che vale sia per le RSU che per le RSA (Rappresentanze sindacali aziendali) e, in quest’ultimo caso, sarà un referendum confermativo ad approvare le intese, e questo perché c’è una differenza tra RSU e RSA, considerando che la prima, eletta dai lavoratori, risponde a un principio elettivo democratico e universale, mentre la seconda è nominata dalle organizzazioni sindacali e naturalmente dove c’è meno democraticità sono necessarie maggiori garanzie. È la prima volta che in un’intesa sindacale si individua nella via referendaria il principio di legittimazione democratica fondamentale e dunque, anche da questo punto di vista, l’accordo del 28 giugno rappresenta una svolta, sia pure parziale. Del resto, anche per le RSU (che proprio perché sono frutto di un processo democratico decideranno in base a principi di maggioranza) non potrà escludersi il ricorso al voto dei lavoratori quando si dovessero affrontare questioni particolarmente delicate come la gestione di processi o di crisi.

Quest’accordo è solo un primo passo. Importante, perché veniamo da una stagione molto difficile, certo non risolutivo di tutti i problemi, ma in grado di indicare una strada. In prospettiva sarebbe forse necessario dare generalità a un accordo che riguarda per adesso le parti contraenti con una cornice legislativa e a questo proposito più cresce una cultura diffusa e condivisa di regole, più è facile pensare alla legge sulla rappresentatività che la CGIL chiede da vent’anni.

La vera scommessa, in realtà, è la possibilità che la strada imboccata con l’intesa possa portare, nei prossimi mesi o anni, a riprendere un percorso unitario: per ora è un passo che consente di provarci.

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