La città degli architetti e quella di chi vi abita

Written by Paolo Desideri Tuesday, 04 September 2012 13:48 Print

Il divario tra la sensibilità degli architetti che costruiscono le case e quella della gente che deve abitarvi è ormai divenuto incolmabile e dipende tanto dalla drastica diminuzione della domanda di architettura di qualità, quanto dal diffuso individualismo dell’uomo contemporaneo. Questa impasse ha di fatto coinvolto il mercato della progettazione, ormai stagnante, il cui rilancio è legato all’impiego di capitale privato nei grandi processi di trasformazione urbana, sino a un suo necessario uso anche nelle opere pubbliche.


Periferie senza qualità; architetti e addetti ai lavori incapaci di dare forma accettabile alle attese della gente comune. Un tema attorno al quale non possiamo ulteriormente rinviare una riflessione, a partire da un sentire diffuso che potremmo riassumere nella domanda che si pongono i non addetti ai lavori: vivrei lì, in quel clima sociale e con quel paesaggio davanti alle finestre?

È una domanda, questa, che noi architetti abbiamo trascurato troppo a lungo. I quartieri Corviale, Zen, Tor Bella Monaca e Laurentino 38, solo per citare gli esempi più noti, configurano gli estremi di un conflitto tra le attese della gente e la “società dei sapienti”, che data almeno trenta anni. È, infatti, proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che possiamo individuare un punto di svolta nel fenomeno dell’abusivismo edilizio, il quale, se fino a quella data era dettato da condizioni di stringente necessità, si trasforma progressivamente nello strumento concreto per il miglioramento dello standard qualitativo della condizione abitativa di migliaia di persone. Un fenomeno che attraversa trasversalmente le classi sociali e che gli studi di settore più attenti mettono subito in relazione con la deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna potevano garantire ai loro abitanti. Insomma, una bella lezione per gli architetti: proprio negli stessi anni in cui venivano progettati alcuni tra i meno amati interventi edilizi di mano pubblica, la gente comune, a fronte dell’incapacità di garantire qualità all’ambiente urbano, cominciava ad autocostruirsi la sua villettopoli.

Perché, dunque, noi architetti abbiamo tanto apprezzato il Corviale o lo Zen, che, al contrario, ogni persona in regola con la propria intelligenza ha individuato come manifestazione evidente dell’invivibilità dello spazio urbano contemporaneo? Probabilmente perché essi rappresentano il punto di arrivo di una ricerca che in campo architettonico si alimenta del pensiero dei grandi maestri del Movimento Moderno e fa riferimento a un modello di città messo a punto in quegli anni, a partire dalle tumultuose esigenze di una società e di un’economia fondate sulla produzione industriale, sulle fabbriche, sulle lotte operaie, sul capitalismo e sul proletariato, cioè su un pensiero ancora di stampo modernista-determinista, che garantiva un futuro inscindibilmente legato al progresso. Proprio per questo, essi rappresentano quanto di più distante, in termini di idea di città e di abitare, possa essere percepito dalla società contemporanea, dalla quale sembrano scomparsi tutti gli attori che popolavano sino a ieri la società moderna: non più operai con le chiavi a stella, non più fabbriche, non più classe operaia e, anzi, non più classi sociali in assoluto.

Più consone alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città abusiva rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista. Così, se solo noi architetti riuscissimo a unire un po’ di curiosità alla riluttanza con la quale guardiamo questo informe pulviscolo edilizio, in filigrana potremmo rileggere tutti i connotati del “soggetto metropolitano contemporaneo” che lo abita: stretto con forza attorno ai propri legami familiari, spesso ricondotto a una attività lavorativa autonoma svolta in casa, bisognoso di un forte incremento della superficie abitabile pro capite, fruitore contraddittorio di sempre più sofisticate attrezzature telematiche, ma anche di barbecue e fontanine e serie complete di ridenti sette nani nel giardino sul retro, sospeso schizofrenicamente tra le gratificazioni della coltivazione in proprio e quelle della spesa settimanale all’ipermercato accanto, realizzato, più che in ogni altra attività, nella pratica del consumo.

Insomma, l’opposto esatto di quello per il quale il moderno aveva efficacemente messo a punto i modelli insediativi ancora oggi usati dagli architetti. Sui Corviale, sugli Zen, sui Tor Bella Monaca si addensa dunque il confronto, irreale, tra due culture dell’abitare distanti tra loro innanzitutto nel tempo.

Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e con passione, rifondare un rapporto accettabile tra l’urbs, la città fisica, e la civitas, la società civile. Un percorso che dobbiamo urgentemente effettuare, se vogliamo essere in grado di intercettare la crescente domanda per l’innalzamento della qualità delle opere pubbliche che anche in Italia, dopo tanti anni, sembra finalmente svilupparsi. Un interesse trasversale che sempre più frequentemente e inaspettatamente porta di nuovo l’architettura sui magazine a larga tiratura, fa da sfondo ai messaggi pubblicitari e fa persino capolino nel dibattito parlamentare con disegni di legge sulla qualità dell’architettura contemporanea. E la crescita della domanda di architettura di qualità è certamente l’unico propellente per rilanciare un mercato, quello della progettazione, stagnante in Italia da almeno quarant’anni, dopo una stagione formidabile e lontanissima, quella di Giò Ponti, di Ernesto Nathan Rogers, di Ignazio Gardella, di Pier Luigi Nervi, di Riccardo Morandi e di Sergio Musmeci, quella dei grandi office di progettazione italiani che facevano scuola nel panorama internazionale dell’architettura.

Un lungo periodo nel corso del quale abbiamo assistito a una sorta di processo di avvitamento progressivo: diminuiscono sempre di più la domanda di architettura di qualità e la competenza dei progettisti, ormai quasi scomparsi dal panorama nazionale, mentre aumentano esponenzialmente i territori deturpati da costruzioni senza progetto. Dobbiamo essere in grado di intercettare i segnali di rilancio di una professione che oggi si riaffaccia timidamente sul panorama internazionale dopo un trentennio di progetti fatti per disegnare anziché per costruire.

Ma rimettere in moto questo mercato comporta sforzi assai significativi in molti settori: quello della formazione e dell’ordinamento professionale, per aggiornare le necessarie competenze sul piano tecnico-progettuale; quello della pubblica amministrazione, per assicurare snellezza ed efficienza sul piano delle procedure di affidamento e approvazione delle progettazioni e, più in generale, dei processi di trasformazione; quello dei capitali finanziari e immobiliari e del mercato delle imprese edili, per innestare meccanismi in grado di suscitare l’interesse dei capitali e assicurare i legittimi rientri economici; quello legislativo, per promuovere e facilitare il ricorso a procedure in grado di garantire la qualità e la trasparenza in tutti i settori sopraelencati.

Un percorso politico, insomma, che il riformismo italiano deve essere subito in grado di intraprendere, rimuovendo lo stato di immobilità che ha per troppo tempo caratterizzato l’analisi territoriale della sinistra, paralizzata dalla continua e radicale dialettica tra conservatori e trasformatori. Una riflessione urgente e condivisa sul rapporto fra trasformazione del territorio, sviluppo locale e strumenti di tutela varrà, se non altro, per riflettere su temi attorno ai quali il riformismo italiano, più ancora che altrove, appare lacerato e in oggettiva difficoltà nel passaggio dal ruolo antico di opposizione al ruolo di sopraggiunta e ineludibile responsabilità di governo della trasformazione dei territori.

Senza pensare di poter abbassare la guardia in materia di rapporto tra territorio e ambiente (che appare proprio in questi ultimi anni sofferente di nuove criticità, dalla Val d’Orcia alla Costa Smeralda, da Punta Perotti al dilagare di territori metropolitani diffusivi e spontanei), sembra, tuttavia, urgente una riflessione finalizzata a storicizzare e superare quella scuola di pensiero in campo urbanistico che ancora si alimenta di una visione dei rapporti tra economia e territorio, schematizzando il conflitto tra gli attori presenti secondo una lettura radicalmente e arcaicamente marxiana: da un lato il capitale, cioè l’interesse privato, dall’altro l’interesse pubblico.

Un conflitto a tutt’oggi proposto come un confronto incessante e titanico, che non può e non deve trovare, in questa radicale schematizzazione, alcuna composizione, che non può ammettere alcuna mediazione, a partire dall’inadeguatezza culturale del nostrano capitalismo strapaesano. Una rappresentazione degli interessi e degli attori in campo che pare assai schematica già in riferimento alla fase storica, ormai remota, delle trasformazioni urbanistiche dell’Italia degli anni Cinquanta, ma che risulterebbe massimalista e ineffettuale se si volesse, come qualcuno vuole, continuare a utilizzarla per analizzare gli scenari delle trasformazioni urbane contemporanee, nelle quali ci troviamo oggettivamente di fronte a una realtà assai più complessa. Al contrario, oggi dovremmo tutti aver capito che il capitale privato può essere, anzi deve essere necessariamente coinvolto nei grandi processi di trasformazione urbana, sino a una sua legittima (anzi, essenziale) utilizzazione anche nella realizzazione delle opere pubbliche. I grandi interventi di rigenerazione urbana di Berlino riunificata, la riqualificazione di Barcellona o le grandi opere pubbliche che in Europa riqualificano le città (musei, auditorium ecc.) sono stati tutti generati grazie a un’azione delle amministrazioni pubbliche tesa a dialogare con il grande capitale privato e a indirizzarlo, governarlo e utilizzarlo come capitale di trasformazione. Un’azione politica, questa, che parte da due dati di fatto che oggi dovrebbero essere definitivamente acquisiti: l’insufficienza del capitale pubblico ad attrezzare e completare trasformazioni urbanistiche così poderose; la legittimità dell’attesa di profitto del capitale privato investito nelle trasformazioni urbanistiche.

Tuttavia, a oggi, gran parte del riformismo italiano non coglie l’urgenza di questo confronto con il grande capitale, che viene letto come motore di ogni illegittima e dannosa trasformazione territoriale. Una posizione radicale che, come sembra, produce tre danni evidenti. In primo luogo si è creata e rafforzata nella sinistra storica una posizione intransigente nei confronti del capitalismo italiano pronto a investire nel real estate, cioè, in termini più nostrani, nello sviluppo immobiliare. Una posizione intransigente che non trova simmetria nel patto con il capitale che, a partire dagli anni Sessanta, la sinistra accettò e gestì, grazie ai sindacati, nei settori della produzione industriale. Una posizione intransigente che non ha simmetria in nessuna delle realtà nazionali e delle amministrazioni pubbliche europee, le quali, grazie a un patto con il capitale, iniziarono in quegli stessi anni postbellici a esercitare un’azione di governance sulle grandi trasformazioni metropolitane, concordando azioni di pianificazione complessive in grado di tenere in tensile equilibrio l’interesse privato e quello pubblico.

In secondo luogo l’intransigenza e l’indisponibilità della sinistra nei confronti del capitale interessato all’investimento immobiliare hanno spesso relegato quest’ultimo a un rapporto esclusivo e clientelare con il potere, generando un progressivo avvitamento di piccolezza di cultura e di interessi, da un lato, e di nefandezza dei comportamenti, dall’altro. Un capitalismo da strapaese, certo, ma il solo, per molto tempo, a disposizione: da far crescere, da coltivare (nel suo senso letterale di “rendere colto”), comunque da sottrarre al pactum sceleris con la politica clientelare, che prevedeva, allora come oggi, la rendita parassitaria come unico orizzonte praticabile. Ma i decenni successivi ci hanno insegnato che la vera peste non erano affatto i quartieri e gli edifici promossi dal capitale immobiliare della ricostruzione postbellica, ma l’epidemia della metropoli abusiva, che di lì a poco avrebbe dilagato nei territori delle nostre povere metropoli per mano di un capitalismo in canottiera ben più mediocre e dagli interessi non più riconducibili ad alcuna confrontabilità con quelli pubblici.

In terzo luogo si è sviluppata una sorta di cultura massimalista, una posizione che da troppo tempo connota ininterrottamente la sinistra radicale. Uno sdegno, una sospettosità, un franco disprezzo e, infine, una resistenza a qualunque forma di trasformazione che oggi, purtroppo, accomuna trasversalmente quella sinistra con la destra conservatrice e con tutti quelli che con essa vorrebbero trasferire l’architettura contemporanea in periferia.

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