Quanto è fragile l’egemonia statunitense?

Written by Mario Del Pero Tuesday, 19 July 2011 18:09 Print
Quanto è fragile l’egemonia statunitense? Foto: Jonathan Greenwald

A dieci anni di distanza dagli attentati dell’11 settembre 2001 studiosi ed esperti continuano a interrogarsi sul reale impatto di quell’evento. Sui suoi effetti sulle relazioni internazionali così come sulla politica estera degli Stati Uniti. | Di Mario Del Pero per il focus "A dieci anni dall’11 settembre" del numero 7/2011.


La svolta neoconservatrice che ha caratterizzato la politica estera statunitense per gran parte dello scorso decennio non può essere ricondotta in modo esclusivo agli attentati dell’ 11 settembre 2001. Tuttavia l’attacco alle Twin Towers costituisce certamente una svolta significativa per gli Stati Uniti: esso, infatti, ebbe l’effetto di esasperare l’unilateralismo e l’interventismo di George W. Bush e contribuì ad acuire le contraddizioni del modello egemonico americano, fondato sul denaro e sul primato militare, ma anche sulla retorica.


A dieci anni di distanza dagli attentati dell’11 settembre 2001 studiosi ed esperti continuano a interrogarsi sul reale impatto di quell’evento. Sui suoi effetti sulle relazioni internazionali così come sulla politica estera degli Stati Uniti. Sulla possibilità o meno di considerare l’11 settembre una cesura storica.

Molti studiosi, soprattutto di formazione realista, tendono oggi a minimizzare l’importanza dell’11 settembre: a contestare chi, invece, lo ritiene uno spartiacque fondamentale dell’età contemporanea. I piani neoconservatori di rilancio dell’egemonia statunitense – affermano – erano già stati elaborati in dettaglio nel corso degli anni Novanta; con un’Amministrazione come quella di Bush era inevitabile vi si desse corso, a prescindere dagli attacchi terroristici. Una svolta unilaterale, si argomenta, era in fondo già avvenuta con Clinton, quando gli Stati Uniti avevano progressivamente operato fuori dalle istituzioni internazionali, arrivando a non firmare il protocollo di Kyoto e a non aderire al Tribunale penale internazionale. L’interventismo liberal e umanitario degli anni Novanta, con la sua enfasi sulla diffusione della democrazia e la protezione dei diritti umani, presentava molte somiglianze con quello dei neoconservatori. Almeno fuori dagli Stati Uniti, la politica economica e finanziaria di Bush – si sosteneva infine – non era poi così dissimile da quella di Clinton.

Le dispute intellettuali su continuità e discontinuità, persistenze e rotture di una determinata politica – in questo caso quella estera degli Stati Uniti – sono esercizio divertente ma talora circolare e sterile. È chiaro che nessun paese, men che meno la principale potenza mondiale, può modificare radicalmente il corso della sua azione internazionale. Scelte pregresse, interessi consolidati, vincoli e costrizioni strutturali limitano la libertà d’azione, ovvero la costringono entro un perimetro circoscritto. L’interesse nazionale non è però dato: viene declinato a seconda delle contingenze e, soprattutto, dei convincimenti, degli ideali e degli obiettivi di chi governa. Anche per questo è difficile sottostimare la rilevanza e l’impatto dell’11 settembre sulla politica estera degli Stati Uniti: sulle scelte che ne conseguirono e sugli effetti che queste sortirono. In conseguenza dell’11 settembre furono alterati gli equilibri all’interno dell’Amministrazione di George W. Bush, insediatasi solo pochi mesi prima, con una conseguente marginalizzazione del Dipartimento di Stato e di chi, come il suo segretario Colin Powell, esprimeva una visione maggiormente internazionalista e propensa al dialogo e alla collaborazione multilaterale. L’unilateralismo di Bush, che già si era manifestato nei primi mesi di governo con l’abbandono di una serie di accordi internazionali, si accentuò e subì una significativa rimodulazione, facendosi più assertivo e interventista.

Qualsiasi remora a uscire dalla legalità internazionale fu abbandonata di fronte alla portata della sfida apertasi l’11 settembre. Sia pure temporaneamente, questo rinnovato interventismo globale non fu più costretto a fare i conti con perplessità e resistenze interne, ora messe da parte in nome della necessità di fronteggiare la minaccia, assoluta e senza precedenti, rappresentata dal terrorismo di al Qaida. L’America era pronta a intraprendere campagne globali dalla durata potenzialmente illimitata e a sostenere i costi, umani e materiali, che ne sarebbero conseguiti.

Il simbolo di questa svolta fu non tanto l’intervento in Afghanistan, quanto quello in Iraq, avvenuto spaccando la comunità internazionale e l’Alleanza atlantica. Un intervento – questo spesso lo si dimentica – che difficilmente l’opinione pubblica statunitense avrebbe accettato e permesso se non vi fossero stati gli attentati dell’11 settembre. E sul quale la stessa opinione pubblica modificò rapidamente la propria posizione: se nell’aprile 2003 il 75% degli americani aveva appoggiato l’operazione militare, solo quattro anni più tardi questa percentuale si era dimezzata, e più del 60% si dichiarava retrospettivamente contrario all’intervento.

Soprattutto, la svolta radicale e unilaterale consentita dall’11 settembre e le scelte che ne conseguirono finirono per amplificare ed esasperare alcune delle contraddizioni di fondo del modello di egemonia costruito dagli Stati Uniti nell’ultimo trentennio e consolidatosi nel dopo guerra fredda. Un modello, questo, basato su alcuni pilastri fondamentali, che possono essere riassunti con tre parole chiave: dollari, armi e parole. Ossia la capacità di consumare e attrarre capitali, il primato militare e, infine, il fascino del modello statunitense e della narrazione che lo informa, giustifica e accompagna.

Il periodo successivo all’11 settembre è stato infatti caratterizzato da un significativo deterioramento dei conti pubblici, in un contesto caratterizzato peraltro da tassi di crescita assai più contenuti rispetto al decennio precedente (il PIL ebbe un incremento medio annuo del 2,2% negli anni di Bush contro il 3,9% del periodo clintoniano), da un imponente rilancio delle spese militari (passate da 380 a 660 miliardi di dollari tra il 2001 e il 2009) e da un’ulteriore riduzione della pressione fiscale (di fatto quelle in Iraq e Afghanistan sono le uniche guerre nella storia statunitense a essere state combattute con tagli alle tasse). L’esito, inevitabile, è stato un’ulteriore crescita sia del deficit interno (dopo i tre surplus di Clinton del periodo 1998-2001, i primi da un trentennio) sia del livello d’indebitamento pubblico e privato del paese. Il debito pubblico quasi raddoppiò, raggiungendo i 10.600 miliardi di dollari; la capacità di consumo privato poggiava su fondamenta sempre più fragili e su meccanismi spregiudicati e irragionevoli di finanziamento del debito, individuale e familiare. La capacità statunitense di consumare aveva fatto degli Stati Uniti un «impero dei consumi», nella definizione datane dagli storici Charles Maier e Victoria De Grazia. Un soggetto indispensabile al resto del mondo, e quindi egemonico, grazie ai suoi consumi interni e al loro effetto sulla crescita mondiale.

Proprio negli anni di Bush questa capacità cominciò a venire meno. Cominciò, in altre parole, a manifestarsi una fondamentale contraddizione del primato statunitense, che Clinton era invece riuscito in parte a gestire, beneficiando di una congiuntura economica più favorevole e, almeno in una prima fase, riducendo significativamente le spese militari. Proprio le armi, l’elemento più tangibile e ortodosso della potenza statunitense, rivelano una seconda contraddizione che le scelte di Bush hanno acuito. È difficile trovare un altro ambito nel quale la superiorità degli Stati Uniti è (e ancor più era, dieci anni fa) così netta e indiscussa. Gli Stati Uniti spendono in armamenti quanto il resto del mondo messo assieme. In termini di tecnologia il gap militare tra gli Stati Uniti e il resto del mondo rimane ampissimo e non ha probabilmente precedenti nella storia. Grazie alla loro impareggiabile superiorità militare, gli Stati Uniti di fatto mantengono ancor oggi il controllo e dominio dei commons: lo spazio aereo, terrestre e marittimo. Eppure questo primato rivela una decrescente spendibilità: esso è sfruttabile solo in parte, un dato che altera in modo rilevante il rapporto costi-effetti della spesa militare. Perché la sofisticatissima panoplia high-tech di cui dispongono le forze armate statunitensi è spesso inutile in conflitti di tipo asimmetrico quali quelli combattuti oggi dagli Stati Uniti. E perché anche la democrazia statunitense, come ogni grande democrazia, fatica a combattere guerre i cui oneri e conseguenze sono sempre più visibili e dibattuti. Fatica, in altre parole, ad arruolare soldati (la coscrizione obbligatoria è politicamente insostenibile) e a far accettare i costi umani e materiali della guerra alla propria opinione pubblica. L’11 settembre aveva temporaneamente modificato questo stato di cose, alimentando un capitale di disponibilità al sacrificio che le scelte e gli errori di Bush hanno però rapidamente sperperato.

La giustificazione di queste scelte e comportamenti – le parole usate – ha infine anch’essa concorso a mettere in crisi l’egemonia statunitense. Anche in questo caso si tratta di un dilemma antico: come mettere in asse e rendere complementari i discorsi necessari alla costruzione dei due consensi, interno e internazionale, di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per esercitare la propria leadership mondiale. A lungo gli Stati Uniti sono riusciti a costruire un modello consensuale e negoziato (oltre che in parte imbrigliato) di egemonia, fondato su un discorso internazionalista liberale e inclusivo nella retorica oltre che multilaterale e negoziato nelle pratiche. Quantomeno da un trentennio questo compromesso si è fatto più difficile e la mobilitazione interna a sostegno di una politica estera attiva e interventista è avvenuta sempre più attraverso una retorica scopertamente nazionalista. Una retorica di nuovo esasperata da Bush e dai neoconservatori, in particolare dopo l’11 settembre. Il discorso bushiano si è infatti caratterizzato per un manicheismo nazionalista che ha alimentato ostilità e rigetto in gran parte del mondo, inclusa quell’Europa storicamente alleata degli Stati Uniti. Un’Europa che aveva accolto con diffidenza e anche pregiudizio Bush, si era però schierata con gli Stati Uniti dopo l’11 settembre, salvo essere profondamente alienata dalle scelte compiute dall’Amministrazione statunitense e, ancor più, dalla retorica che le aveva accompagnate e giustificate. Le rilevazioni annuali del German Marshall Fund sono, da questo punto di vista, emblematiche. Nell’area dell’Unione europea il giudizio positivo sull’operato del presidente statunitense scese dal 40% al 20% tra il 2002 e il 2006 (con Obama si colloca oggi tra il 75% e l’80%). Negli stessi quattro anni la percentuale di europei che riteneva auspicabile la leadership mondiale degli Stati Uniti passò dal 64% al 36%. Nel 2008, il 47% degli intervistati riteneva che le relazioni euro-americane sarebbero migliorate con l’eventuale elezione di Obama (solo il 5% pensava sarebbero invece peggiorate).

Proprio la straordinaria – e a questo punto duratura – popolarità di Obama in Europa ci rivela però le risorse di cui ancor oggi dispongono gli Stati Uniti e la persistente forza del mito di un’America capace di risollevarsi e imparare dai propri errori. Dal punto di vista del discorso – delle parole appunto – Obama ha rovesciato le categorie degli anni di Bush, rilanciando l’idea di un’America che non solo sta nel mondo, ma che torna a essere il mondo stesso. Un’idea antica quanto gli Stati Uniti stessi, quella di un’“America-mondo”, che il presidente – l’unica carica elettiva nazionale e quindi il simbolo ultimo dell’unità del paese – può credibilmente incarnare, grazie alla sua biografia meticcia e cosmopolita. E un’idea che Obama ha più volte rilanciato nei suoi discorsi (dove non a caso l’elemento biografico è posto frequentemente al centro della scena) così come nella prima dottrina di sicurezza della sua Amministrazione, la National Security Strategy del 2010.

E però sono gli altri due, contraddittori, pilastri dell’egemonia statunitense – le armi e i consumi – i veri dilemmi con i quali Obama è stato (ed è) chiamato a confrontarsi. Perché incidere sui secondi richiede non solo scelte politiche complicate, ma anche uno stravolgimento culturale assai profondo, che un pezzo d’America non sembra disposto ad accettare. E perché l’hard power militare continua a dover essere dispiegato, alimentando crescenti resistenze interne, come dimostra la forte insoddisfazione verso la prosecuzione dell’intervento in Afghanistan, osteggiata oggi da una netta maggioranza degli americani. Obama si confronta cioè con contraddizioni e dilemmi profondi di quella che è una chiara transizione da un’era a egemonia americana a un sistema internazionale che vedrà ancora al centro gli Stati Uniti, ma nel quale il loro potere relativo sarà ridotto e dovrà essere rinegoziato. Dilemmi e contraddizioni, questi, che conseguono a scelte e processi di lungo periodo. Che l’11 settembre, e i tanti errori e leggerezze commessi da Bush, hanno però finito per acuire ed esasperare.1

 


[1] Una versione diversa e più ampia di questo articolo apparirà nel volume R. Baritono, E. Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano?, in uscita per Carocci.

 


Foto di Jonathan Greenwald
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