Per una nuova prospettiva politica

Written by Massimo D'Alema Friday, 16 November 2018 12:25 Print


Finalmente sembra aprirsi una discussione nella sinistra e nel Partito Democratico sulle ragioni della sconfitta del 4 marzo e sulle prospet­tive sul futuro. C’è voluta la spinta di quelle migliaia di militanti della sinistra che, dopo mesi di frustrazione, sono tornati in piazza. Certamente si può e si deve ripartire da questa generosa volontà di tornare in campo, dalla disponibilità a impegnarsi, dal bisogno di tante persone che la sinistra torni a esserci e a dire la sua sulle prin­cipali questioni del paese. C’è voluto molto tempo perché tornasse a manifestarsi qualche segnale di vita, tuttavia credo si debba guardare con rispetto alla vicenda travagliata e confusa che il Partito Demo­cratico e la sinistra italiana nel suo complesso stanno vivendo dal 4 marzo. Sarebbe troppo facile abbandonarsi a un giudizio liquidato­rio, ma non può essere questo il modo di ragionare di chi abbia a cuore non solo gli ideali e i valori della sinistra ma anche l’avvenire della nostra democrazia.

È evidente che il lungo marasma non è stato soltanto il frutto della sconfitta elettorale. Il problema è che dopo il 4 marzo non si è im­boccata la via più limpida e ragionevole e cioè quella di una discus­sione seria e libera sulle ragioni della sconfitta. Il maggior partito del centrosinistra avrebbe dovuto promuovere un congresso aperto chia­mando a discutere tutte le forze e le persone interessate al futuro del paese e al destino del campo progressista. Anche chi dal PD si è sepa­rato non ha saputo o non ha potuto proporsi come promotore di una nuova stagione per la sinistra. Hanno pesato la scarsa forza elettorale, frutto di un’operazione tardiva e improvvisata, e anche l’incertezza circa la prospettiva che già all’indomani delle elezioni è affiorata tra i protagonisti. Bisogna quindi riconoscere che lo stato di confusione e l’incapacità ad allineare una nuova prospettiva hanno pesato e pesa­no sull’insieme del centrosinistra e questo ha finito per paralizzare l’i­niziativa politica e aggravare la crisi. Sembra anche abbastanza vacuo l’argomento secondo cui la sinistra, anziché chiudersi in discussioni divisive, dovrebbe oggi impegnarsi in una dura opposizione. Certo che è necessario fare opposizione, ma perché sia efficace deve essere in grado di prospettare un’alternativa per il paese; sembra difficile considerare credibile la lotta nel nome di scelte politiche e di una leadership che i cittadini hanno travolto qualche mese fa. Per ora non si intravede un progetto in grado di dare una risposta alle domande socia­li, alla richiesta di tutela e di protezione che si sono manifestate con le elezioni politiche. Senza un nuovo progetto i clamori, gli ostruzionismi e persino le manifestazioni mobilitano i militan­ti ma non allargano l’area del consenso. Se oggi l’opposizione potesse presentarsi con il volto di una nuova leadership e con un’indicazione diffe­rente per il paese, che sappia opporre una propo­sta forte non solo alla deriva presente ma anche agli errori del passato, la situazione dell’Italia sa­rebbe già ora molto diversa. Anche per questo ci vuole coraggio politico, chiarezza e lealtà, perché le furbizie e le omissioni non aiuteranno a dare quel segno chiaro di cambiamento senza il quale sembra impossibile ricreare una sintonia con il paese. Ricordiamo ciò che accadde nel 1994, quando la sinistra fu travolta da Berlusconi, e poi nel 2001, quando alla sconfitta elettorale si aggiunse la contestazione dei gi­rotondi a un intero gruppo dirigente. Ci fu discussione, battaglia politica e i cambiamenti necessari aprirono la via alla ripresa, all’al­largamento delle alleanze e alla riconquista del consenso.

Abbiamo sentito echeggiare in questi giorni l’appello all’opposizione e all’unità. L’unità è certamente un grande valore, ma non a sca­pito di una discussione vera sulle ragioni della sconfitta, altrimenti diventa soltanto un espediente per l’autoconservazione di un ceto dirigente. Anche la battaglia di opposizione comporta un interro-gativo sulla prospettiva politica. Dopo che è stato diroccato il campo del centrosinistra e dopo che si è deciso di spingere il Movimento 5 Stelle tra le braccia della Lega di Salvini, qual è la prospettiva politi­ca? Realisticamente si deve riconoscere che se dovesse cadere la mag­gioranza giallo-verde sotto il peso dei suoi errori e per la forza delle opposizioni economiche e politiche la prospettiva più probabile per l’Italia sarebbe quella del ricostituirsi di una maggioranza di centro­destra: il “rassicurante” ritorno di Berlusconi alla guida del paese non mi pare una prospettiva entusiasmante e, soprattutto, non sembra la parola d’ordine che possa motivare la sinistra a tornare in campo.

Si può certamente dire che rispetto ad altri difficili momenti del pas­sato oggi ci troviamo a un passaggio più complesso, e cioè di fronte a una sconfitta che segna la fine di un lungo periodo e si colloca in un quadro internazionale che conferma il carattere profondo e non con­giunturale delle tendenze che investono il nostro paese. A maggior ragione questo richiederebbe una riflessione coraggiosa e di grande respiro e non l’incalzare dei tweet quotidiani. È vero che si chiude un ciclo, come è stato scritto, e che quindi lo sguardo critico deve spin­gersi oltre l’arco di un ventennio che ha visto logorarsi progressiva­mente la base sociale del consenso alla sinistra. Ma ciò non consente di eludere una discussione sulle scelte di questi anni anche perché ci si è mossi nella direzione esattamente contraria alla necessità di rico­struire il rapporto tra la sinistra e la sua base popolare.

La grande maggioranza dei lavoratori, privati e pubblici, e una buo­na parte degli insegnanti hanno percepito come ostile la politica del centrosinistra. A questa ostilità si è aggiunto un crescente rancore verso quella parte politica da cui si pensava di dover essere protetti e non colpiti. Se non si capisce che per mutare questi sentimenti oc­corre una chiara, netta e coraggiosa inversione di tendenza e il rico­noscimento onesto degli errori compiuti non credo che potrà aprirsi un nuovo processo positivo. Sarebbe certamente un errore limitare la riflessione critica a questi anni: c’è, lo ripeto, una lunga fase su cui tornare a riflettere con serietà.

I progressisti americani e la sinistra europea hanno cercato sin dagli anni Novanta di dare un’anima politica al processo tumultuoso di crescita del capitalismo globale. La socialdemocrazia europea veniva dalla grande esperienza storica dello Stato sociale: una sfida vinta conciliando sviluppo capitalistico, democrazia e giustizia sociale. La globalizzazione fu vista come una sfida inevitabile ma anche un’op­portunità, e l’idea prevalente fu quella di favorire e accompagnare il processo attraverso un’opera di apertura dei mercati ma anche raffor­zando le forme di integrazione e di regolazione sovranazionale. L’Unio-ne europea apparve come un modello da questo punto di vista. La cultura dominante è stata a lungo una visione liberale temperata dai valori solidaristici di radice socialista e cristiana. Una visione sorretta da una valutazione ottimistica della globalizzazione, dalla convinzio­ne che la crescita del mercato mondiale, l’innovazione tecnologica e la cooperazione internazionale avrebbero di pari passo allargato le opportunità e favorito benessere diffuso e mobilità sociale. La nascita stessa del PD in Italia appare come un frutto, peraltro tardivo, di quella stagione politica e culturale ormai superata.

Spetterà agli storici valutare in quale misura la svolta “liberale” della sinistra fosse la conseguenza inevitabile del fallimento dello statali­smo sovietico e della crisi dei modelli europei di economia mista di fronte all’incalzare della competizione globale. Non è neppure facile comprendere quali avrebbero potuto essere le alternative, in parti­colare in un paese come l’Italia, colpito da una crisi drammatica del sistema politico democratico, oppresso dal peso enorme del debito e alle prese con una larga inefficienza del sistema pubblico.

Quello che qui importa sottolineare è che questa visione liberal-so­cialista si è rivelata largamente illusoria e che il riformismo è rimasto schiacciato tra il peso dell’economia globale e dei mercati e la limi­tata possibilità di azione di istituzioni politiche rimaste sostanzial­mente nazionali. Mentre grandi gruppi finanziari globali e i paesi economicamente più forti ostacolavano con successo la costruzione di istituzioni internazionali in grado di regolare efficacemente il fun­zionamento dei mercati. Si potrebbe anzi dire che l’orientamento prevalente delle istituzioni internazionali – e soprattutto di quelle economiche di maggior peso – è stato quello di operare attivamen­te perché una visione neoliberista si affermasse progressivamente in ogni parte del mondo. Gli effetti li abbiamo potuti misurare in que­sti anni e sono apparsi evidenti e drammatici a partire dalla crisi del 2008. La crisi finanziaria e poi economica non è stata solo l’effetto del fallimento della pretesa autoregolazione dei mercati, ma il punto di arrivo di un processo sociale segnato dalla crescita delle disegua­glianze, dall’impoverimento delle classi medie, dalla precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, mentre la ricchezza finanziaria si con­centrava in gruppi sempre più ristretti. L’enorme disparità di ricchez­za e opportunità finisce per logorare non solo la coesione sociale ma la base stessa della democrazia. Noi viviamo, a partire dal 2008, una lunga e logorante crisi. La cri­si della globalizzazione neoliberista e dell’egemonia culturale e della cultura dominante che hanno segnato questo periodo, senza che sia riuscita ad affermarsi una nuova visione del mondo e dello sviluppo. Come scriveva Gramsci, nell’interregno tra il vecchio che muore e il nuovo che non riesce ad affermarsi possono nascere «i fenomeni morbosi più svariati». La confusa rivolta popolare a cui si assiste in Europa e che si esprime in un rancore verso le élite politiche e, non raramente, in forme di regressione nazionalista e razzista è uno di questi fenomeni morbosi; così come lo sono la crescita dei conflitti e in generale il disordine del mondo e l’incapacità delle istituzioni in­ternazionali e dei grandi poteri di farvi fronte. Tutto ciò è espressione di una lunga crisi che è appunto una crisi di egemonia.

Eppure, se si ripensa all’ottimismo che nell’aprile del 2009 segnò la conclusione del G20 di Londra si poteva sperare in un esito diverso. Furono Barack Obama e Gordon Brown ad annunciare decisioni storiche contro la speculazione finanziaria, i paradisi fiscali, ad an­nunciare nuove regole e ambiziosi obiettivi. «Dalla crisi – concluse il leader laburista – emergono le fondamenta di una nuova coopera­zione internazionale, di un nuovo ordine mondiale». In realtà, negli anni successivi poco si è mosso nella direzione indicata e la ripresa economica, incerta, ineguale e stentata, non ha corretto gli squilibri e le iniquità che hanno segnato il ventennio precedente.

È mancata la forza politica per procedere in quella direzione, e cioè per costruire una guida efficace della globalizzazione e affermare una nuova visione e una nuova “filosofia”. La ripresa economica non si è dunque realizzata nel quadro di una inedita cooperazione internazio-nale, ma si è piuttosto accentuata la conflittualità tra gli Stati, in particolare tra quelli più forti, sino all’esplodere di inquietanti guerre commerciali come quella, dalle conseguenze imprevedibili, oggi in atto tra Stati Uniti e Cina. In questo quadro anche la solidarietà europea si è indebolita. Per un verso l’Unione è apparsa sempre più caratterizzata da un equilibrio intergovernativo che finisce per far prevalere gli interessi dei paesi più forti rispetto alle esigenze dell’in­tegrazione. Ciò che è più grave è il ridursi drammatico del consenso e della fiducia verso l’UE e il suo futuro, anche perché le istituzioni di Bruxelles sono apparse sempre più, persino al di là del vero, esclu­sivamente come garanti di regole finanziarie e monetarie e non come promotrici di politiche di sviluppo e solidarietà. La crisi dei rifugiati ha segnato un punto gravissimo di caduta di quella condivisione di responsabilità che è stato uno dei risultati più importanti del dopo­guerra dell’integrazione europea. Un’Europa svuotata dei suoi valori finisce così per essere un facile bersaglio di campagne che si defini­scono populiste e di risorgenti spiriti nazionalistici.

La sinistra europea ha pagato il prezzo più alto, stretta tra la destra tecnocratica e “ordoliberista” dominante a Bruxelles e la crescente insofferenza dei ceti popolari verso le politiche di austerità cavalcata dalle nuove destre populiste e nazionaliste. Non è un caso che, a sinistra, abbiano saputo ritrovare forza e vitalità i partiti che si sono sottratti a un patto consociativo con i conservatori – magari in nome dell’europeismo – e hanno invece recuperato il loro ruolo critico e una capacità di rappresen­tanza del mondo del lavoro e dei ceti popolari più deboli. D’altro canto, l’impasse della sinistra tradizionale non ha soltanto favorito uno slitta­mento di consensi popolari a destra, ma anche il sorgere o l’affermarsi di nuove forze critiche nei confronti dei caratteri e dello sviluppo capi­talistico e della globalizzazione. Penso non solo a SYRIZA e a Podemos o al graduale sostituirsi dei Verdi alla SPD – prigioniera della Grande coalizione – come principale forza di opposi­zione in Germania, non solo alla nuova sinistra di Mélenchon in Francia, ma anche – sia pure in modo diverso e assai più ambiguo – al M5S, che sarebbe sbagliato omologare alla destra non fosse altro perché ha potuto conquistare una parte importante dell’elettorato tradiziona­le della sinistra nel nome della lotta alla povertà, all’ingiustizia e ai privilegi.

È evidente che soltanto una sinistra in grado di interpretare la propria funzione storica di forza che combatte la diseguaglianza e l’ingiusti­zia sociale può pensare di contendere al populismo il consenso dei ceti popolari, altrimenti si riduce a essere un soggetto esclusivamente rappresentativo di una parte del ceto medio, come sta avvenendo in diversi paesi europei con una progressiva emarginazione delle forze progressiste. Nello stesso tempo ritengo che occorra una strategia dell’attenzione, quando non sia possibile una collaborazione, nei confronti di tutti quei movimenti anti-establishment che non siano riconducibili alla destra razzista e nazionalista. Abbiamo salutato re­centemente l’accordo tra PSOE e Podemos in Spagna. Ma anche in Portogallo i socialisti hanno rifiutato l’accordo con i conservatori e hanno formato un governo insieme alla cosiddetta sinistra radicale. Forse non è un caso che, malgrado le difficoltà, in questi due paesi la sinistra è al governo e si dimostra vitale.

Non credo che ribadire alla sinistra la necessità di rilanciare la sua funzione critica e il suo progetto di trasformazione sociale significhi indicare la strada di una regressione agli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso. È evidente che il tema dell’uguaglianza deve sapersi collegare in modo innovativo con quello di una crescita economica e della compatibilità ambientale. È chiaro che anche le forme dell’azio­ne pubblica non possono essere quelle del passato e che fondamen­tale è la capacità di spinta dello Stato accanto all’ineludibile ruolo di regolazione dei mercati al livello nazionale e internazionale. Tuttavia l’ideologia privatistica e antistatale, la concezione secondo cui l’unico compito della politica era quello di rimuovere gli ostacoli per con­sentire all’economia e alla finanza di dispiegare la loro forza propulsi­va, ha fatto il suo tempo e appare oggi, alla luce della crisi, come una cattiva teoria che ha prodotto danni sociali e fragilità economiche.

Una sinistra europea che voglia credibilmente rilanciare la sua fun­zione e ritrovare le sue ragioni non può che mettere al centro del­la battaglia dei prossimi mesi una visione radicalmente innovativa dell’UE, la necessità di una vera e propria rifondazione dell’Europa e di un rinnovato patto fra istituzioni comuni e cittadini. L’idea di fare quadrato con l’establishment europeo in difesa dello status quo con­tro la “barbarie sovranista” sarebbe suicida. D’altro canto i conserva­tori tedeschi si muovono già in un’altra direzione. Non credo che il partito di Angela Merkel voglia perdere il controllo sulle istituzioni di Bruxelles. E appare assai problematico pensare che dopo le elezio­ni del 2019 possa mantenersi quell’asse maggioritario tra popolari e socialisti che ha retto l’Unione negli ultimi venticinque anni. È evidente che ci sono forze nel PPE che spingono per un’alleanza che includa una parte della destra. In fondo la visione intergovernativa dell’Europa che ha prevalso in questi anni può consentire un riequili­brio che non metta in discussione l’Unione ma ne ridimensioni dra­sticamente le ambizioni politiche e il respiro ideale. L’alternativa non può che essere una proposta coraggiosa di riforma e di integrazione politica. Ma perché sia credibile l’idea di un’Europa che abbia più, e non meno, potere bisogna che questa sia soste­nuta da un progetto radicale di democratizzazio­ne e da un indirizzo nuovo di politiche economi­che e sociali che comprenda la necessità di una revisione del Fiscal Compact e più in generale dei meccanismi di funzionamento dell’area euro.

Perché una parte del popolo torni ad appassio­narsi all’Europa bisogna saper far immaginare un’Europa che sia garante di investimenti, inno­vazione e diritti sociali anziché un vincolo e un ostacolo a tutto ciò.

Per questo lo scenario peggiore per la sinistra sarebbe quello di un’elezione europea in cui si fronteggiano i sostenitori dell’europeismo tradi­zionale da una parte e, dall’altra parte, i nuovi profeti della ribellione dei popoli contro la “tec­nocrazia” di Bruxelles. Il tema non può che essere quello di un nuovo patto fondativo che sconfigga il nazionalismo nel nome di quei valori di solidarietà, progresso e di giustizia sociale che oggi non appaiono più essere quelli che ispirano l’azione dell’Unione europea.

Una visione coraggiosamente innovativa del rapporto con l’Europa è cruciale anche per delineare una prospettiva politica per l’Italia. Sembra via via più chiaro che l’alleanza giallo-verde che governa il paese è l’espressione di interessi e culture per molti aspetti in con­flitto tra di loro. L’analisi secondo cui Lega e 5 Stelle sarebbero due facce della stessa destra appare superficiale e propagandistica. D’altro canto non è facile spiegare come mai improvvisamente la sinistra sia sparita e l’80% dell’elettorato si sia ritrovato a destra. In realtà una parte del popolo della sinistra ha votato per un movimento nel quale si esprime, sia pure in modo semplicistico e contradditorio, quella rivolta etica e sociale contro l’ingiustizia cui il centrosinistra non ha saputo dare risposta; anzi, che in questi anni spesso non ha saputo nemmeno vedere. Siamo di fronte a due diversi populismi, anche se a me sembra vi sia un solo disegno politico: quello di Salvini e della destra. Un disegno politico che guarda oltre l’attuale transizione e che non a caso appare crescentemente egemonico. Scriveva Gramsci che l’egemonia si costruisce sapendo cogliere gli elementi di verità che sono contenuti nella visione degli altri. Così Salvini ha vinto il dopo elezioni (non dimentichiamo che il 4 marzo la Lega fu terza) cogliendo le ragioni della rivolta popolare e volgendola, per un verso, contro gli immigrati in una guerra tra poveri, per l’altro verso contro “il globalismo progressista” delle élite europee: cioè dentro le coor­dinate culturali della destra. All’orizzonte c’è un nuovo equilibrio politico in Europa, e in Italia la consunzione dei 5 Stelle e una pro­spettiva di governo durevole per la nuova destra postberlusconiana. Insomma, c’è una strategia.

Bisogna constatare con dolore che il dibattito a sinistra non lascia intravedere nulla di paragonabile. Lo dico con rispetto verso la ge-nerosa evocazione di nuovi “fronti repubblicani” (con chi?) o di sante alleanze da Macron a Tsipras (di cui non si sa se qualcuno abbia interpellato gli interessati) o della pur sempre necessaria “apertura alla società civile”. Forse è tempo che nella sinistra italiana – che pure a questo era avvezza – si riapra una riflessione alta sulla società e sull’Europa, una riflessione in grado di sostenere una nuova visione strategica. Di questo ha bisogno l’Italia: una sinistra con l’ambizione di tornare a essere forza propulsiva e determinante per il futuro del paese.